jueves, septiembre 28, 2017

Passivi e inetti e riflessivi




È sempre emozionante stare dietro una cattedra e parlare ad un pubblico composto da persone che non conosci e che non hai mai visto prima (cosa ben diversa è farlo davanti ad una clase di alunni che, alla fine, volente o nolente, finisci col conoscere – c’è sempre un secchione, un perdigiorno, la bella e sfrontata, la timida e riservata, quello che disturba e chiacchiera a vanvera con tutti, etc. etc.). E fa sempre molto piacere vedere che – una volta svanita l’ansia da prestazione dei primi due minuti – ti accorgi che riesci a stabilire un contatto con questo nuovo pubblico di persone a te del tutto sconosciute. E vedere che ti seguono (qualcuna prende appunti, addirittura…come se le cose che stai dicendo de Il Fu Mattia Pascal fossero oro colato o riflessioni profondissime, e non semplici osservazioni di lettore non esperto di Pirandello e non italianista…).

Poi arriva il momento degli applausi, quando, ormai sudato, sei arrivato ad esporre un minimo di conclusioni (che tali non sono, anche perché, come Pirandello ci insegna, “non si conclude mai” – nessuna storia può concludere in modo netto e chiaro, i finali di Pirandello – sia quelli dei romanzi che quelli delle opere teatrali – sono sempre aperti e non potrebbero essere altrimenti).
E, infine, giunge il momento delle domande e delle osservazioni, delle riflessioni a voce alta dei più coraggiosi e meno timidi. Alza la mano una signora che avrà sui 60 anni e inizia a sparlare male di Mattia Pascal: “A me non è piaciuto per niente! Ma come si fa? Come può uno andare in giro per il mondo con quell’atteggiamento?”. Le chiedo che intende dire e la donna, ormai in preda ad un attacco isterico, continua, senza freni, senza censure: “Perfino l’operazione agli occhi! Non è lui a prendere la decisione, segue il consiglio dell’affittuario! E Adriana? Avrebbe potuto rifarsi davvero una vita, una vita vera, con una bella ragazza come Adriana e lui che fa? La molla, perché, diciamocela tutta, non ha le palle di dire la verità e di vivere una storia d’amore vero e sincero con lei! È uno totalmente passivo e in balia degli eventi!”.

C’è chi sorride; chi guarda in basso; chi guarda in alto; chi attende con un certo piacere che io apra bocca e cerchi di dare una spiegazione all’interpretazione (del tutto soggettiva e, perciò, legittima) della signora. E allora nel mio cervello si accende una lampadina e inizio a spiegare (con tono pacato e diplomatico) che, in realtà, non solo nel caso de Il Fu Mattia Pascal, ma in gran parte della letteratura del Novecento, assistiamo ad un vero e proprio proliferare di personaggi “passivi”, che non agiscono e che sembrano lasciarsi guidare dal caso e dalle forze oscure della vita: pensiamo alla figura dell’ “inetto”, così centrale per capire l’opera di Italo Svevo, a partire proprio da quel romanzo “rivoluzionario” che fu La coscienza di Zeno; o pensiamo al capolavoro di Robert Musil che, non a caso, s’intitola proprio L’uomo senza qualità; o pensiamo anche al Leopold Bloom, l’uomo qualunque, protagonista dell’Ulysses di Joyce, che fu amico intimo di Svevo; ma pensiamo anche a quel gigantesco uomo “passivo” e “riflessivo” che è il Marcel della Recherche proustiana, uno che impiega migliaia e migliaia di pagine per cercare di scandagliare il suo “io” e di ricostruire la propria “identità” a partire dalla riflessione sul proprio passato; e pensiamo, infine, anche al povero K., il protagonista de Il processo di Kafka, uno che la mattina viene prelevato dalla propria camera da un paio di poliziotti e accusato di un reato che non si sa bene in cosa consista e che finisce davanti ad un Tribunale che non si sa bene quando e perché lo condannerà alla pena capitale. E allora, mi fermo, faccio un bel respiro e lancio la domanda alla sala: “Perché? Secondo voi perché nei primi anni 20 e 30 del XX secolo c’è un boom così eclatante ed evidente ed esplicito di “personaggi passivi”? Pensate anche ad Hans Castorp, il protagonista de La montagna incantata di Thomas Mann. È un altro “passivo” famosissimo: uno che doveva andare a fare visita al cugino nel sanatorio di montagna in cui fa le cure per l’asma (o il tumore, o la malaria, o non ricordo più cosa) e che resta lì per ben 7 anni! Perché? Perché tanta “passività” o “riflessività” proprio in quel periodo? Dobbiamo ricordarci del fatto che si tratta di romanzi apparsi subito dopo la Prima Guerra Mondiale e subito prima dello scoppio della Seconda! Perché?”. 

Silenzio di tomba. Il gelo cala sull’intera aula. Lancio la domanda, ma, in realtà, nemmeno io so darmi una risposta. Una giovane dottoranda in prima fila alza la mano: “E pensiamo alla generazione attuale! Ai giovani che non studiano né cercano un lavoro” (quanta letteratura del Novecento potrebbe sembrare anticipare i problemi e la crisi di oggi – come se, davvero, le stesse cose ritornassero sempre). Il dibattito prosegue. E io gioisco internamente, perché se incontri di questo tipo hanno un senso è proprio perché favoriscono o danno luogo allo scambio d’idee tra lettori appassionati. E poi torno a casa e ne parlo anche con la mia compagna d’avventure. Si rallegra della buona riuscita della chiacchierata su Pirandello. E poi m’invita a cercare le date esatte dei romanzi che ho citato al volo. E questo è il risultato assurdo che trovo dopo una rapida ricerca su internet:

1 – Il Fu Mattia Pascal (1904);
2 – La coscienza di Zeno (1923);
3 – Ulisse (1922);
4 – Recherche (1913-1927);
5 – L’uomo senza qualità  (1930-1933);
6 – Il processo (1925)
7 – La montagna incantata (1924)

E uno pensa: ma com’è stato possibile? Com’è successa una concentrazione così alta di capolavori epocali in un così ristretto arco temporale? E Pirandello, da par suo, non sta per caso anticipando questa schiera di “passivi” e “inetti” o “riflessivi” cronici che caratterizzerà i primi 30 anni del Novecento? E ritorna, imperterrita, la domanda: ma perché tanti “passivi” e “inetti” e “riflessivi”?


lunes, septiembre 25, 2017

Il Fu Mattia Pascal (o della forza delle abitudini)




Dopodomani dovrò chiacchierare (per così dire) de Il Fu Mattia Pascal all'Università; non sono un esperto di Letteratura Italiana e tanto meno un profondo conoscitore dell'opera di Luigi Pirandello. E però due cose sono certe e le ho capite: a) è vero, Pirandello è un autore complesso, anche solo per quel continuo e costante ragionare dei suoi personaggi (qui Anselmo Paleari è tra i più riusciti, in quanto a stravaganza e tendenza al grottesco); b) è vero, Pirandello potrebbe a tratti peccare di “pirandellismo”, ma ci sono brani, all'interno di quest'opera, che riescono a scavalcare questo ostacolo con brillantezza e un certo senso di leggerezza che non guasta affatto, all'interno di una trama in cui la pesantezza sembra avere la meglio (anche quando cambia nome e passa a chiamarsi Adriano Meis, il povero Mattia Pascal continua a restare attaccato alla sua identità; hai voglia a viaggiare, lontano, lontanissimo da quella casa in periferia in una città di provincia in cui la suocera e la moglie fanno il bello e cattivo tempo; hai voglia a vincere somme ingenti di denaro al casinò di Nizza; hai voglia a vivere in affitto presso pensioni decadenti! Mattia Pascal non può re-inventarsi davvero un destino nemmeno indossando la maschera di Adriano Meis...ed è tutto qui il dramma (anche il nostro dramma...ahinoi!).

Uno di questi brani in cui Pirandello sembra riuscire a salvarsi dal pirandellismo è proprio quello in cui, verso il finale, Mattia Pascal torna a casa, sotto le vere spoglie (non è morto, come credevano moglie e suocera, ma ha solo fatto finta di impossessarsi della morte di un altro per scappare e rifarsi una vita). Ebbene: ormai, a distanza di tanto tempo, la moglie si è rifatta una vita (come si suol dire), è diventata sposa di Pomino, uno dei vecchi amici e soci in affari di Mattia, ha avuto dei figli da lui e, quindi, come rimediare? Dove collocare questo “morto in vita” che torna dall'aldilà?

Si tratta di una scena drammatica, ricca di tensione, proprio perché ci obbliga a pensare e a domandarci: cosa faremmo noi con un nostro caro morto se tornasse a bussare alla nostra porta? Se tornasse alla vita, essendo creduto morto per tanto tempo? Come trattare un risorto, quando le nostre condizioni di vita sono cambiate? Dove metterlo? Cosa dirgli? Come giustificarci di fronte ai suoi occhi increduli? Cosa fare con i soldi che noi credevamo di avere ereditato? Cosa?

E allora, a un certo punto, Romilda, la ex-moglie ed ex-vedova ora non più vedova di Mattia Pascal, si mette a fare il caffè e, qui, in questo momento, Pirandello s'inventa questo dialogo:

Nel porgermi la tazza, mi guardò, con su le labbra un lieve, mesto sorriso, quasi lontano, e disse:
  • Tu, al solito, senza zucchero, vero?
Che lesse in quell'attimo negli occhi miei? Abbassò subito lo sguardo”.

Ecco che in questa scena il lettore avverte tutta l'irresistibile forza, la potenza inevitabile delle abitudini. La viva chiede al presunto morto se il caffè lo prende sempre uguale, come quando vivevano insieme, sotto lo stesso tetto, e lei era sua moglie legittima e lui suo marito e non c'era Pomino né dei figli nuovi appena nati...

La scena va avanti e il tono familiare continua in questo nuovo dialogo:
A proposito, Romilda: avresti ancora, per caso, qualcosa di mio...abiti, biancheria?”.
No, nulla...”, mi rispose dolente, aprendo le mani. “Capirai...dopo la disgrazia”.
Chi poteva immaginarselo?”, esclamò Pomino”.


Ed è qui che noi capiamo il dramma di un revenant, di uno zombie, di un morto in vita che torna alla vita quando ormai la vita è andata avanti, il tempo non si è fermato, sua moglie si è rifatta una vita, e il morto vivo non ha più vestiti o biancheria da riciclare... I nostri vestiti, una volta dati per morti, non li indosserà più nessuno; al massimo, verranno riciclati o dati in beneficenza. Ed è così che Mattia Pascal – in una scena ricca di pathos – riceve l'ennesima riprova del fatto che non si può scappare ai fili che ci legano alla vita; che chi si finge morto poi la paga cara; che chi torna alla vita dopo essere stato in fuga dalla stessa non ritroverà più né la moglie ad attenderlo né i vestiti ad aspettarlo affinché vengano riutilizzati. Resta solo quella abitudine di sempre di prendere il caffè senza zucchero. Sono trascorsi, in realtà, due anni dalla fuga di Mattia Pascal e dal suo presunto decesso; eppure, Romilda, sua moglie vedova ormai solo ex-moglie e non più vedova, si ricorda ancora di come suo marito prendeva il caffè... Ci sono fili che sembrano non spezzarsi mai, sembra suggerirci Luigi Pirandello. Ci sono fili e rapporti che durano anche dopo che si sono interrotti o spezzati.

lunes, septiembre 11, 2017

8 Settembre del 2017 (o anche: “che ne è della mia vita?”)



Oggi è l'8 Settembre del 2017; oggi è il giorno del mio compleanno, il quarantesimo, per essere precisi...

Come mi sento? Che cosa provo a compiere 40 anni? Com'è la mia vita, oggi? Che ne è (stato e sarà) della mia vita di neo-quarantenne?

Non so darmi risposte di sorta. Penso alla mia compagna d'avventure (che mi ha festeggiato omaggiandomi con un balletto sensazionale a suon di Raffaella Carrà - “Tanti auguri”, la canzone, del 1978, se non erro, ovvero, dell'anno dopo la mia venuta al mondo...). E mi viene da sorridere ripensando al fatto che, quella notte, nessuno di noi due avrebbe mai pensato che saremmo finiti qui, a questo punto, in questo luogo...

Ripenso alle fotocopie che mi ha regalato una collega che vive vicino a Napoli e che mi ha fatto conoscere l'antro della Sibilla Cumana e l'ingresso del Lago d'Averno (quello che – secondo la mitologia pagana – consentiva l'ingresso nell'Inferno).

Fotocopie del Prof. Giancarlo Mazzacurati sul romanzo più noto di Luigi Pirandello, Il Fu Mattia Pascal, che dovrò presentare a un gruppo di lettrici ultrasessantenni presso l'Università pubblica della città levantina (nel Sud del Sud del mondo dell'Europa occidentale) in cui vivo...

Uno dei tanti impegni accademici, essendo l'intervista ad uno scrittore contemporaneo l'altra mia grande sfida del mese d'Ottobre. Intervista? Io? A uno scrittore vivo? Mai fatto prima, non so nemmeno da dove cominciare... Eppure mi sento di accettare la scommessa, anzi, questo ennesimo impegno accademico mi stimola e mi spinge a fare sempre meglio il mio lavoro (lascio stare la tipica: “Quali sono gli autori che più l'hanno influenzata?”, o quell'altra: “Perché scrive?”, o l'altra ancora: “ Crede che la letteratura potrà cambiare il mondo?” (ma quando mai la letteratura o l'arte cambiano il mondo? E però, spesso, ci salvano la vita...) e continuo a cercare domande più interessanti, sia per lui, che verrà intervistato, che per il pubblico, che si suppone assisterà all'evento...).

Poi vado a fare una piccola spesa, dopo aver passato la mattinata a mettere un po' d'ordine in camera da letto. E alla cassa, la cassiera mi sfiora la mano, mentre m'appresto ad afferrare la bottiglia di vino DOC di Ribera del Duero che ho in mente di scolarmi prima che torni da lavoro la succitata e mia cara compagna d'avventure... Il tatto. Sfiorarsi la mano in un gesto quotidiano come riempire i sacchetti della spesa, prima di pagare il totale dei prodotti acquistati per la sussistenza. Il sorriso (forse malizioso) di questa giovane donna (avrà al massimo trent'anni, ovvero, 10 meno di me, che oggi ne compio 40!). La mano calda. Le labbra carnose, con il rossetto rosso fuoco che le risalta il sorriso. Le curve che si indovinano (o s'intuiscono) da sotto la divisa d'ordinanza (maglietta a maniche corte gialla e pantaloni marroni, piuttosto stretti). E ripenso a quella citazione famosa di John Cheever, quando, nei suoi diari, allude all'“incessante sessualità dell'esperienza” e (cito verbatim, stavolta): “C'è sempre, da qualche parte, questo accenno di aberrante carnalità”.

Sì, c'è sempre, e gli anni non aiutano, non ho imparato nulla dall'esperienza, né dai molti libri letti, né dai vari amori finiti per caso, né da quelli che sono esplosi all'improvviso, continuo a peccare di lussuria, continuo a commettere errori madornali, continuo a pensare a quei due occhi da gatta che mi hanno mostrato l'ingresso dell'antro della Sibilla Cumana e immagino come sarebbe eccitante preparare il tiramisù con lei, che ha le mani inanellate e che quando cammina sembra che ondeggi, non riesce a camminare lungo la linea retta, forse sintomo della sua intelligenza curiosa, della sua curiosità intelligente, e mi dà l'idea di una donna passionale, una di quelle che quando la baci trema tutta, una di quelle donne che, sotto l'influsso della mia retorica ricercata e l'incanto delle mie proposte indecenti (posso essere davvero scurrile ed esplicito quando voglio), può arrivare perfino a bagnarsi...(mi successe, una volta, con Alyssa, la mia ex, a cui ancora voglio bene, in un ristorante di Genova, mentre si mangiava gli spaghetti con il pesto – ovviamente – alla genovese, e cominciai a dirle all'orecchio le sconcezze più crude e appetitose, e lei mi confessò che sì, che insomma, quelle parole avevano sortito il loro effetto, e dovette alzarsi di corsa per andare al bagno e rassettarsi un po' i pantaloni, come dimenticarla questa scena? Come poter dimenticare quel visino dolce tutto arrossito dalla vergogna? Che tenerezza mi trasmetteva Alyssa quando si comportava in quel modo...come fosse una bambina...).

Mi chiedono anche di scrivere la recensione a un libro che è la traduzione di alcune delle opere più difficili di uno dei poeti spagnoli più complessi di tutti i tempi (un classico del XVII sec. che oggi ed in Italia leggono davvero in pochi). E io ci provo, leggo il testo a fronte, comparo il tutto col testo d'arrivo, cerco di ricostruire i ponti semantici e sintattici che il traduttore ha dovuto costruire per restare fedele al testo di partenza... Quanta fatica, quante ore davanti al computer, quante parole scritte e inviate per la pubblicazione! Che poi chissà chi le leggerà codeste parole scritte col sudore della fronte...le mie e quelle del traduttore, siamo umanisti, ci lavoriamo con la parola scritta, eppure...(mi domando anche se mai la pubblicheranno la recensione, non sono un esperto in materia, e il traduttore è un pezzo grosso, un Professore Ordinario, uno di quelli cui, una volta morto, faranno di sicuro una serie di omaggi postumi, magari dedicandogli perfino una sezione della Biblioteca d'Ispanistica dell'Università in cui lavora...).

Ed intanto, per distrarmi un po' (sia dalle possibili domande per l'intervista allo scrittore vivo, sia dall'intervento su Pirandello), leggo un libro strambo e stranissimo, appassionante e appassionato: The Adventures of Sir Thomas Browne in the 21st Century, di Hugh Aldersey-Williams, un saggio del 2015 sulla vita e le opere - e l'influsso della vita e delle opere - del famoso scrittore inglese del 700 sulla cultura e la letteratura della nostra contemporaneità. Un libro anomalo, pieno di foto, di erudizione, d'invenzione, d'immaginazione, in cui l'autore – sotto l'egida di Browne – ci spinge a riflettere su che cosa è la morte, su quali sono le relazioni tra filosofia e religione, e tra religione e scienza, su che cos'è l'amicizia, e l'amore, e la malinconia... Un libro in cui l'autore immagina un dialogo con lo stesso Sir Thomas Browne (segno evidente del fatto che chi ha scritto il testo si è davvero innamorato del soggetto oggetto della sua biografia) e in cui si leggono perle come questa (che traduco al volo e sicuramente male):

TB: Molte cose ho visto e molte altre ancora avrei voluto vederne. Perché è certo che c'è qualcosa, oltre a ciò che riusciamo a vedere. Pensare che il mondo non offra altro che ciò che ci consentono di percepire i nostri sensi è sommo inganno, per quanto ci siano innumerevoli fenomeni che ci suggeriscano il contrario”.

E allora riascolto la colonna sonora di quel bellissimo film di Paolo Sorrentino che s'intitola Le conseguenze dell'amore e inizio a bere in un grosso calice il buon vino rosso di Ribera del Duero citato supra. Una delle canzoni s'intitola “Hello” ed è di un tale James, che non conoscevo. Non riesco a tradurre al volo il testo, ma mi evoca l'emozione di una bella storia d'amore e sesso selvaggio vissuta senza freni inibitori; e due occhi da gatta che, in modo malizioso, mi illustra le bellezze del paesaggio (la città che l'ha vista liceale); e un movimento sinuoso e ondeggiante, che mi fa pensare ai ritmi dell'amplesso quando è fatto senza fretta e senza secondi fini, solo per il gusto di stare a letto, a contemplare il mondo da un cuscino...


40 anni: che ne è della mia vita? Non ne ho idea. So solo che ho vissuto. Ed ho amato. E sono stato riamato. E spero di esserlo ancora in futuro...

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...