jueves, diciembre 14, 2017

Grazie, Liszt


Di nuovo la maledetta insonnia. Sono le 2 e gli occhi stanchi contemplano il paesaggio esterno: 3 lampioni illuminano con luce al neon il selciato, ricoperto di foglie secche, foglie morte, foglie gialle. È il 10 di Dicembre, è normale, anzi, qui fa più caldo che a Madrid (o che a Roma).

Per non pensare al tempo che non vuole passare, mi metto a leggere un romanzo atroce, uno di quei libri che già so che non potrò smettere di leggere fino alla fine, Resistere non serve a niente, di Walter Siti (solo a lettura finita scoprirò che si tratta del “Premio Strega” del 2013). È un romanzo che parla di un giovane di borgata che, inseguendo la sua passione per la matematica e i calcoli, arriva a diventare un grande esperto di finanza mondiale, uno squalo sullo stile del Leonardo Di Caprio del bellissimo The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese (che curioso! Anche questo film è uscito nel 2013).

“Non si scrive quello che si vuole, si scrive quello che si può”, afferma il narratore in prima persona in uno dei primi capitoli del romanzo. E come dargli torto. Mi faccio un cappuccino col caffè decaffeinato, con l’idea di poter trovare la pace interiore. Ripenso a ciò che sono stato nel 1997 (fidanzato con una spagnola arrivata a Roma per l’Erasmus); nel 2004 (dottorando all’Università di Pisa fidanzato con una fiorentina doc); nel 2012 (ricercatore a tempo in zona Campania, senza fidanzata e, perciò, una mina vagante, sempre pronto ad accogliere nel mio letto qualche giovane compagna che avesse voglia di sperimentare l’innominabile); nel 2014 (professore in un’Università spagnola, sposato, amante incallito e imperterrito della mia compagna d’avventure, com’è possibile che abbia sempre più voglia di fare sesso con lei? Cos’è che ci lega così tanto? Perché la libido non decresce, ma, anzi, sembra accrescersi sempre di più?).

Scatta l’effetto nostalgia: m’imbatto in vecchie foto (ma la cartella che le contiene s’intitola “Foto recenti”? Quanto è relativo l’aggettivo se lo applichiamo alle foto che scattiamo nel corso di un’intera esistenza? Quanto?), ci resto di sasso, soprattutto dinanzi a quelle scattate nel mini-appartamento di Pisa, vivevo in una stanza di 10 metri quadri ricolma fino all’inverosimile di libri, libri ovunque, per terra, sugli scaffali di una libreria di terza mano sul bordo del collasso, sotto il letto, sopra la scrivania che si piega sotto l’effetto del peso della cultura, libri letti e sottolineati ed evidenziati all’inverosimile, commentati a penna, a matita, non c’è pagina che abbia lasciato immune dalla mia foga critica o ammirativa, quanti elogi scritti al lato delle frasi che mi sembravano più belle e riuscite e compatte…

All’epoca (stiamo parlando esattamente del febbraio del 2003) avevo l’immagine di Marcello Mastroianni come sfondo del desktop del mio “Acer”: il Marcello che fuma e che veste di nero elegante in 8 ½ di Fellini; mi sono sempre identificato in questo personaggio un po’ solitario (anche se è perennemente circordanto da colleghi e amici) e un po’ dongiavanni (chi non sogna di diventare il Re di un harem pieno di belle donne pronte a soddisfare ogni nostro più turpe desiderio? Chi non sogna di giocare al dottore e all’infermiera con una belleza mediterranea e tutte curve come la Sandra Milo di quel film?).

Nella foto s’intravede un’abat-jour di plastica rossa; sicuramente comprata da un cinese (all’epoca si tendeva al risparmio, la borsa ammontava a circa 800 euro al mese, se non erro, e dovevo pagarci l’affitto e mangiarci e – quando e ove possibile – acquistarci i libri, tutti quei libri che affogavano il mio spazio vitale, ma io ne godevo, non sono mai riuscito a vivere senza essere circondato letteralmente dai libri).

E poi delle fotocopie, di sicuro erano articoli relativi all’argomento della mia tesi di dottorato, quanti anni sono trascorsi da allora, quanti! Quasi 15, accidenti! Una vita fa…
Ascolto Franz Liszt, un pezzo famosissimo, La Campanella, una festa per l’udito, le dita che stuzzicano il piano con un brio, una gioia, una carica emotiva che fa venire voglia di sorridere al nulla.

Ciò che più colpisce di questa foto – ciò che Roland Barthes definirebbe il “punctum” della foto – è che manca il soggetto principale, il proprietario di tutti quei libri e delle fotocopie e del computer, manco io, perché nella foto c’è solo il fantasma del mio “io” di un tempo, un “io” totalmente diverso dall’ “io” che scrive ora, di notte, in una casa enorme del centro di una città del Levante spagnolo (il Sud del Sud della Spagna e del Mondo), un “io” che non riuscendo a dormire (a chiuedere letteralmente un occhio) si lascia accecare dalla contemplazione estasiata di una quantità enorme di foto del passato, anche se la cartella che le contiene si intitola “Foto recenti”, e uno si rende conto di quanto strambo, relativo, assurdo sia l’uso di quell’aggettivo…


Buonanotte, Franz Liszt. E grazie per la musica.

sábado, diciembre 09, 2017

Stanley Kubrick (o della difficoltà di creare)

In questi giorni di stress e di corsa ai regali per l'imminenza del Natale (non vedo l'ora che arrivi solo perché così potrò tornare in Italia e starmene rintanato nella casa dei miei genitori - in quella casa che mi ha visto crescere e trasformarmi dai 0 ai 18 anni, prima della fuga a Roma - per leggere e vedere i film che ho in lista d'attesa), sono riuscito a finire la biografia che John Baxter ha dedicato a Stanley Kubrick e che pubblicò nel 1997 (ovvero, due anni prima della morte del regista americano – avvenuta nel 1999, pochi giorni prima che Eyes Wide Shut iniziasse a fare il suo cammino sugli schermi dei cinema di tutto il mondo, a partire da quelli della Mostra di Venezia, dove io ebbi la fortuna di vederlo in anteprima assoluta – e 20 anni dopo la sua prima apparizione per Harper Collins) e la prima cosa che uno pensa quando chiude il libro è: “ma quanto è difficile creare? Quant'è dura la vita dell'artista che, dal nulla, e sfidando se stesso e il mercato e le mode del momento, decide di rischiare tutto per poter inseguire una sua particolare, individualissima, perturbante idea del mondo?”.

Spesso paragonato a Howard Hughes, Kubrick incarnò alla perfezione (secondo le tesi di Baxter) l'ideale del regista che è capace di vendersi la casa o di divorziare dalla moglie pur di arrivare al montaggio finale del film che ha in mente. Isolato dal mondo, in una tenuta di campagna inglese, in effetti, Kubrick passò quasi la metà della sua vita a elaborare film lontano dagli “studios” hollywoodiani (sebbene mantenesse un buon rapporto con la Warner Brothers e producesse i suoi film in accordo con la stessa produttrice cinematografica) e lontano dal "gossip" e dalle domande dei giornalisti e dei curiosi, oltre che dalle mode del momento. Anzi, spesso Kubrick dovette frenare o rimangiarsi un progetto o rimandare un film solo perché qualcuno prima di lui lo aveva già anticipato nel tempo: l'idea di Full Metal Jacket, ad esempio, gli venne quando Coppola aveva appena finito Apocalypse Now e Oliver Stone aveva appena mandato nelle sale il suo Platoon...scherzi del destino o gaffe dell'ultim'ora o sfortuna di chi a volte assume i tratti di Fantozzi.

E un'altra delle cose che si pensano a libro terminato è che, in realtà, Kubrick dovette soffrire parecchio a causa della propria genialità, delle proprie ossessioni, delle proprie manie sul set. Era un perfezionista, che riusciva a portare all'esaurimento chiunque decidesse di lavorare con lui (anche se Emilio D'Alessandro, il suo autista personale, riesce a farci vedere anche il suo lato più umano e più tenero, per così dire, nel libro confezionato da Filippo Ulivieri (cfr. il post che ho dedicato a Stanley e me (Milano, il Saggiatore, 2012) quando uscì: bellissima l'esperienza avuta a Roma alla presentazione del libro, gentilissimo Ulivieri e generosissimo D'Alessandro nel raccontare la sua avventura con il regista).



Un esempio fra tanti: quando, prima di Eyes Wide Shut e subito dopo Full Metal Jacket, Kubrick torna all'idea di fare un secondo film di fantascienza (quell' A.I. che poi avrebbe girato Spielberg, anni dopo la morte del collega) decide che è ora di appoggiarsi a un esperto e ordina a Aldiss, uno dei suoi più fedeli collaboratori, di contattare Hans Moravec, uno dei maggiori esperti al mondo di “Intelligenza Artificiale”.

Aldiss ci riesce e gli comunica che in quel momento Moravec è in Giappone per un ciclo di conferenze e Kubrick (secondo la testimonianza di Aldiss):

Ok, trovalo in Giappone”.
Ah, Stanley, come faccio?”
Chiama la Warner a Tokyo. Digli di muovere il culo e trovare Moravec”.
Ma Stanley, è mezzanotte a Tokyo...”
Un'ora più tardi Moravec era al telefono” (cit. John Baxter, Stanley Kubrick. La biografia, Torino, Lindau, 1999, p. 466).

E allora uno si ferma a riflettere: Kubrick era un solitario, un regista autoritario, uno inflessibile, eppure, doveva pur avere una qualche qualità speciale, una capacità invidiabile, se davvero riusciva (dal suo cottage inglese immerso nei boschi) a parlare con personalità ed esperti mondiali da ogni parte del Globo. E l'ambivalenza sorge anche contemplando le molte foto che appaiono nel libro: a partire dalla copertina, dove un Kubrick ancora relativamente giovane sorregge nella mano destra un obiettivo attaccato ad un'occhio e poggia paternalmente la mano sinistra sulla spalla di Gary Lockwood nei panni dell'astronauta di 2001: A Space Odissey. L'ipotetico spettatore che non avesse mai visto nemmeno un film di Kubrick potrebbe facilmente pensare che si tratta della foto di un padre con il figlio, intento a fargli forza, a infondergli coraggio e a fare il tifo per lui poco prima che inizi il gioco (la partita del film).

Ma possiamo citare anche un'altra foto in cui Kubrick, in una pausa sul set di Orizzonti di gloria, completamente avvolto in un giaccone enorme di fustagno, sorseggia un caffè americano in compagnia di Kirk Douglas e di quella che poi sarebbe diventata la sua terza moglie, Christiane Harlan. Kubrick ha la testa avvolta in un cappello di lana e sembra davvero un superstite della Prima Guerra Mondiale, un soldato scampato alla morte e alle bombe nelle trincee, le mani inguantate, lo sguardo rivolto all'orizzonte, mentre gli altri due attori ridono e scherzano, anche loro sorseggiando del caffè bollente.

O come in un'altra foto dal set di Arancia meccanica: Kubrick, già più vecchio, con la barba incolta e i capelli scompigliati, sembra un prete intento ad officiare la messa a pochi passi da un enorme crocefisso. Sopra di lui, un secondo crocefisso sembra osservarlo dall'alto in basso. E' lo spazio che ricrea la cappella all'interno del carcere minorile in cui finirà Malcon MacDowell dopo che i “drughi” si saranno ribellati e lo tradiranno. Uno spettatore ingenuo contempla la foto e pensa che a breve quest'uomo barbuto leggerà brani dal Vangelo secondo Matteo.



Kubrick e la difficoltà di creare. Kubrick e la genialità di un regista che sapeva benissimo che cosa stava girando e che, per questo motivo, era capace di sferzare la forza psichica e fisica di chi gli stava attorno. Kubrick e la serietà di chi gioca a un gioco rischioso: quello di ri-creare il mondo a partire dalle immagini e dal montaggio cinematografico sperando di avere (sempre) il controllo assoluto e totale sul risultato finale. Kubrick e il cinema come arte che ri-produce (all'infinito) la bellezza di inquadrature che sono rimaste (e forse rimarranno anche in un futuro lontano) nella retina di milioni di spettatori. Kubrick e la difficoltà di generare questo tipo d'immagini indelebili.

sábado, diciembre 02, 2017

Intertestualità

Stanco e senza quasi voce (mal di gola maledetto, che arriva puntuale al primo abbassarsi della temperatura), mi reco in aula come il condannato a morte verso la sedia elettrica. Tanti, troppi alunni seduti in attesa del prof. che li illumini.

Stanco e stressato, con la testa a Roma (dove una casa editrice abbastanza seria ha appena ricevuto il nostro "visto si stampi" - il che vuol dire che, a partire da quel momento, il libro va in stampa e non sarà più possibile apportare correzioni o ripulire gli inevitabili refusi), mi accingo a spiegare un concetto non certo facile: che cos'è l'intertestualità e come funziona. Che vuol dire che i testi (soprattutto quelli del cosidetto "postmodernismo") dialogano tra di loro, a distanza, a volte sotto forma di parodia, altre sotto forma di omaggio, altre ancora (la maggior parte delle volte) come ri-scrittura di un modello appartenente a un'altra epoca, un altro contesto culturale, un'altra ideologia...

E non so né come né perché, mi rammento della famosa scena della carrozzina ne La corazzata Potemkin di Sergej Ejzenstejn (del 1925!): è una scena mitica, ogni cinefilo che si rispetti la conosce a memoria:


L'esercito sta trucidando il popolo ribelle e una madre prova come può a difendere il figlioletto, ma un soldato le spara e mentre la donna si accascia a terra, spinge senza volere la carrozzina del bimbo... E la carrozzina, ovviamente, comincia a scendere lungo la scalinata, inesorabilmente, inevitabilmente, e Ejzenstejn, che ha inventato il montaggio alternato, riesce a creare una suspense immane con l'alternarsi (appunto) di primi piani (delle vittime) e campi lunghi (del paesaggio), di movimenti inarrestabili dei soldati e di movimenti sincopati del popolo innocente... Dura 2 minuti, ma sono intensissimi, gli studenti trattengono il fiato, è incredibile come un film del 1925 riesca ancora oggi a sorprendere e a scioccare lo spettatore.


Bene, e ora guardate cosa fa Brian De Palma nel 1987 ne Gli intoccabili, un gangster-movie americano tipico:


Il bambino nella culla è un po' più grandicello di quello del film russo: la scena è molto più lunga (circa 7 minuti) e, soprattutto, il finale è specularmente opposto a quello di Ejzenstejn. Perché? Una ragazza coi capelli neri lunghi alza la mano: "Perché qui i buoni vincono e i cattivi perdono".

La ringrazio e le rispondo che ha ragione: ma non solo. Qui De Palma spettacolarizza la scena de La corazzata Potemkin, perché il bambino si salva in mezzo a una pioggia di proiettili e di mafiosi intenzionati a fare fuori chiunque gli si pari innanzi. Perché qui l'agente amico di Kevin Costner arriva (proprio all'ultimo momento) a frenare la corsa spericolata della carrozzina parandola come fosse un pallone sul punto di finire in rete (anzi, ha perfino il tempo di lanciare una pistola carica all'amico rimasto a secco).

Omaggio? Parodia? Ironia? Ri-scrittura?

Possiamo rifletterci un po' su, ma è quasi inevitabile constatare come tra la Russia degli anni 20 di Ejzenstejn e gli USA degli anni 80 di De Palma c'è un vero e proprio abisso. E il fatto che l'americano non possa fare a meno dell' "happy end" la dice lunga su un certo modo d'intendere la vita, e il cinema, e la realtà tutta (da parte dello stesso regista, ma anche da parte della politica degli "studios" e di Hollywood tutta...). Riflettiamoci. Riflettetici. E poi tornate a leggervi l'Odissea e, in parallelo, aprite Ulysses di Joyce.

La voce completamente svanita, il bruciore in gola mi paralizza, ma mi faccio violenza e esco dall'aula con in mano lo zainetto pieno d'acqua. Sta piovendo a dirotto. Il cielo è nero. E tira un vento che fa tremare le auto. Le chiome degli alberi sbandano come alcolizzati sulla via del ritorno. È il primo giorno del mese di Dicembre. E siamo riusciti a portare a termine una lezione che sembrava un macigno. Un'alunna che si era seduta nelle ultime file mi si avvicina con un ombrello in mano e mi chiede se accetto una caramella alla menta: "Per il suo mal di gola", aggiunge. Ha un sorriso bellissimo. Vorrei abbracciarla forte forte. Mi trattengo e accetto, la ringrazio e affronto la tempesta. Iniziamolo bene quest'ultimo mese di fatica prima delle vacanze natalizie. Dai.


jueves, noviembre 23, 2017

DIARIO D'ATLANTA


21/10/2017

Ore 10:00 a.m.

Iniziamo la traversata oceanica. Siamo già in aeroporto, con 3 ore d'anticipo, seduti in attesa d'imbarcare per New York. Ho mandato un messaggio audio a mia madre e, subito dopo, una foto del gate e mia madre ha esclamato: "Che bello! Dio mio! New York!". È ciò che penso anch'io: mi sembra incredibile atterrare al "JFK" di NY! Come entrare in un film di Martin Scorsese, o di Francis Ford Coppola, o di Woody Allen (o di David Lynch), di quei grandi registi che hanno trasmesso al mondo una certa immagine (autoriale, originale, ognuno col suo stile) dell'America...

Peccato che io e la mia compagna d'avventure e di viaggio non potremo perlustrare la città. Solo l'aeroporto, per un paio d'ore, prima di riprendere un secondo volo diretti ad Atlanta (Georgia). That's all. Ma è già molto.

22/10/2017

12:15 a.m.

Siamo al "Ramada Plaza Hotel", ovvero, a circa 10-15 minuti di taxi dall'aeroporto di Atlanta. A piedi ci avremmo messo 30 minuti. Ma, ovviamente, non volevamo rischiare di perderci o di camminare su strade non adatte a due pedoni che girano con 3 valigie cariche.

Se mi affaccio dalla hall dell'hotel (che qui si chiama "lobby", e non "hall") si vede un monumento che commemora le Olimpiadi del 1996. Una colonna di ferro bianco sostiene la famosa fiamma rossa dei Giochi Olimpici del 96.

Abbiamo fatto colazione al Waffel House, una catena di fast-food sparsa in tutto il territorio americano (o almeno, in tutto quello dello stato della Georgia). 




Ci abbiamo messo un po' a capire che per "waffel" gli americani intendono delle tartine di uova fritte, delle frittelle tonde che mia nonna chiamerebbe "ferratelle". E insieme a questa prelibatezza, due mini-hamburguer, una frittata da 2 uova, una specie di omelette fatta solo di patate fritte tagliate alla "julienne" e due fette di pane in cassetta imburrate con, all'interno, uva passa.

Il tutto accompagnato da caffè americano (ovvero, "dirty brown water", come la definirà una collega dell'Università) e succo di frutta artificiale.

Non possiamo sorprenderci del fatto che molti americani soffrano di obesità. Se solo provo ad immaginare di fare colazione ogni mattina con tale quantità industriale di calorie (qui segnalate matematicamente su ogni prodotto alimentare), mi vengono i brividi. E però, e appunto, gli americani sono onesti e giocano pulito: attaccato ad ogni prodotto c'è scritta la quantità esatta di calorie che contiene. Incredibile, ma vero! E sono anche gentilissimi. Non solo i camerieri del Waffel House (che lo devono essere anche per la questione "mancia" e per contratto), ma anche la gente che s'incontra per strada almattino (per colpa del jet-lag siamo usciti alle 8 del mattino...le 14 ora europea) e la mia compagna ha starnutito e tutti a dirle "bless you!", e quelli che andavano a spasso col cane, tutti a salutarci e a dirci "Good morning!".

Certo, poi passi davanti a un parco (in cui gruppi di giovani e meno giovani stanno allestendo dei gazebo per una sorta di "Giornata della Scienza", una specie di esposizione pubblica di simpatiche invenzioni o riusi ecologici di materiale vario) e t'imbatti in un cartello che avvisa: "No Firearms or Weapons permitted on this property"...


Se qualcuno viene beccato con una pistola o altra arma addosso,potrà essere multato o, addirittura, arrestato. E uno pensa che un cartello del genere sarebbe impensabile (almeno per ora) in Spagna o in Italia, in Francia o in Germania, sarebbe assolutamente assurdo o surreale...

E il secondo pensiero che sorge spontaneo è che gli USA rappresentano uno dei primi paesi al mondo nella classifica di quelli in cui si verifincano più morti violente per armi da fuoco (non so quanti ogni ora)...

E questo secondo pensiero fa paura e mette i brividi, fa venire letteralmente il sudore freddo sulla schiena. Meglio non pensarci troppo, infatti. Alle 14:00 arriverà il nostro cicerone a prenderci in hotel e ci condurrà a Carrollton, a pochi kms da qui: Jack è un professore di Lingua e Letteratura Spagnola, proprio come noi, e ci farà partecipare alle sue lezioni e a un congresso che sembra promettere molto. Tema: "Scismi e differenze nel mondo globalizzato: interculturalità e letteratura". Non vedo l'ora.

23/10/2017

7:05 a.m.

Ci siamo appena svegliati presso il "Courtyard Marriott" di Carrollton, un hotel alla periferia di una città a circa un'ora di distanza da Atlanta.

E dopo tanti (svariati) mesi, io e la mia compagna d'avventure torniamo a vedere (e a sentire) la pioggia. Incredibile la sensazione da film: mi sembra di essere all'interno di "Paris, Texas", con una piccola differenza: la nebbiolina che serpeggia tra i pick-up della Ford e i SUV (giganteschi) di case e marche automobilistiche che non conosco (tranne la Chevrolet e la Chrysler).

Per fortuna che in valigia abbiamo messo anche un cappotto invernale, dei pullover e un'ombrello piccolo. È strana la sensazione del freddo.

Il jet-lag continua a fare il suo effetto: ieri abbiamo cenato con Jack alle 18:00 e siamo andati a dormire alle 20:00!

Ho visto in tv qualche scena da Fifty Shades Darker (seconda parte assurda della versione cinematografica del famoso romanzo di E. L. James) e alle 21:00 anch'io ho chiuso gli occhi. Abbiamo dormito circa 10 ore! E adesso, ovviamente, ho una fame da lupi!

9:28 a.m.: West Georgia University. Un campus enorme immerso in un bosco. Il verde predomina sul rosso dei mattoncini delle strutture in cui sono alloggiati i vari dipartimenti e le varie facoltà. 

A lezione con Ana Z. C., professoressa di Letteratura Spagnola di Ciudad Real. Siamo in 14 in aula: tre spagnole, un italiano, tre ragazzi di colore (non so se afroamericani o afroispanici), un'americana bianca, uno studente del Costa Rica, un'altra peruviana, un'altra messicana, un'altra ecuatoriana, quest'aula è l'incarnazione degli USA in quanto melting-pot del mondo, un mix incredibile di razze con prevalere della lingua spagnola e inglese come lingue franche. Uno si chiede: ma come si può essere razzisti in America? Certo che Trump ci mette del suo nel creare conflitto tra bianchi e neri, tra statunitensi doc e messicani, lui che è d'origini tedesche, se non erro, eppure, in quest'aula si respira aria di rispetto mutuo, guardare questi studenti fa sperare verso un futuro migliore, a dispetto di quanto possa dichiarare Trump e i suoi accoliti e i suoi votanti più beceri ed estremisti...

25/10/2017

15:12 p.m.

Ritmo di lavoro assurdo: lezione da Jack dalle 9:00 alle 11:00 e poi, alle 11:30, pranzo (sì! Pranzo!) con il Direttore del Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere. Robert è americano DOC, nato proprio ad Atlanta ma - per mia somma sorpresa - parla benissimo l'italiano: mi confessa che sua moglie è marchigiana e anche lei fa la Professoressa in un'altra Università americana, insegna Letteratura Italiana: Boccaccio e Pasolini (due autori difficili, ma entrambi affascinanti, mi complimento con lui per il coraggio della moglie italiana ed italianista).
Inevitabile parlare di diffirenze e somiglianze tra sistema spagnolo ed italiano, da un lato, e americano, dall'altro.
Trump è un problema (globale) per tutti. La mancanza di motivazione degli studenti più giovani nei confronti della lettura: idem. 
Stasera, di fatto, andremo a cena con alcuni dei ragazzi che stiamo conoscendo in questi giorni in aula. Per loro sarà un modo di praticare lo spagnolo con noi (gli "ospiti stranieri"). La cena è fissata per le 17:30: per noi è l'ora di merenda, ma dopo un pranzo (a base di hamburguer e sandwich) alle 11:30 mi sembrano quasi le 20:30 di sera.

Intanto, Heather D., una tipica studentessa bionda americana, ci parla degli effetti della guerra civile ne La ronda, di Juan Goytisolo (o Fausta, di Ana María Matute). Mai sentiti (letti) questi racconti. Dovrò rimediare. Intanto, Heather prova ad arrivare alle conclusioni della sua presentazione in PowerPoint. Le compagne si sforzano anche loro a pronunciare correttamente, ma fanno fatica e a me fanno tenerezza, col loro accento americanissimo.
Penso a Vladimir Nabokov, a Lolita e alle sue lezioni americane al Wellesley College, dove le alunne erano tutte donne...

26/10/2017 

07:32 a.m.

Inizia il congresso internazionale in cui siamo stati invitati a parlare. L'interculturalità si tocca con mano, anche qui. Studiosi da ogni angolo degli USA; ma anche dall'Europa e dall'America Latina. Sono felice. Siamo felici. C'è sintonia e molti interventi aprono le porte verso un futuro migliore, in cui la letteratura e la cultura in generale siano (ancora) strumenti di conoscenza di sè e degli altri.

27/10/2017

21:24 p.m.

Stanchissimo. L'intervento (che ho fatto dopo pranzo, alle 16:30) è andato bene e ha suscitato scalpore (succede sempre così, se uno si mette a discettare dei rapporti tra etica ed estetica). Abbiamo conosciuto le alunne dottorande di una collega spagnola che insegna in Alabama. Sweet Home Alabama. Inés ci sorride. Ci stringe forte la mano e quando scopre che veniamo dalla sua stessa città natale quasi si commuove. Non riesce a crederci. Parliamo della cucina spagnola tipica del Levante, della sua terra. Ci ripromettiamo d'invitarla per darle l'occasione (crearle la scusa perfetta) per lasciare un po' gli USA e tornare a casa (speriamo d'includerla in qualche lezione per il Dottorato o in un qualche altro congresso).

28/10/2017

19:23 p.m.

Abbiamo visto un film tedesco degli anni 90 (sottotitolato in inglese). Il jet-lag è quasi del tutto scomparso, ma questi ritmi mi distruggono. Il film è interessante: parla di un architetto che, nella Germania pre-caduta del muro di Berlino, decide di rivoluzionare l'architettura del suo quartiere in espasione, sogna una città senza barriere architettoniche e in cui la gente possa riunirsi e parlare di libri, al di là degli schematismi e delle costruzioni geometriche fredde del regime comunista russo. Niente: i suoi capi gli mettono i bastoni tra le ruote, non è un vero socialista, un vero socialista mette l'estetica al servizio dell'etica; niente cessioni alla moda; niente piazze enormi; niente circoli che non siano affiliati al Partito... Poi c'è il dibattito e fa un certo effetto ascoltare le domande interessate e acute degli studenti di Cinema e "Visual Arts". Il regista è felice e stanco: forse anche lui soffre il jet-lag...

29/10/2017

13:12 a.m.

Gli Stati Uniti d'America non sono un paese: sono un mix di paesi.

30/10/2017

17:10 p.m.

Jack ci riaccompagna in aeroporto. L'areo della DELTA Airlines partirà tra un paio d'ore. Siamo già nostalgici. Ci abbracciamo con affetto sincero. Ci sembra stranissimo. Il tempo è passato in fretta, ma ci sembra di essere rimasti in Atlanta per un mese, talmente tante sono le cose che abbiamo fatto insieme.

Gli USA non sono un paese: sono un continente. Io e la mia compagna d'avventure ci ripromettiamo di attraversarlo in macchina coast-to-coast. Dall'Oceano Pacifico all'Atlantico (o viceversa). La Route 66. Il deserto e i motel che abbiamo visto tante volte in tanti film. È stata un'esperienza incredibile. Come vivere dentro a un film. Quanto devono gli USA al cinema? Quanto siamo legati all'immagine che dell'America del Nord ci offrono i film? 

Spero di riuscire a dormire. Perché dopo 9 ore di volo, 4 di macchina e un'oretta per mangiare, jet-leg o meno, dovrò entrare a lezione. E non so in che lingua parlerò, dopo tutta questa full-immersion nell'inglese. Arrividerci Atlanta! Arrivederci USA! È stato un vero piacere...

miércoles, octubre 25, 2017

Monolinguismo e Multilinguismo




25/10/2017

Carrollton: nel solito laboratorio linguistico del Dipartimento di “Foreign Languages” della “West Georgia University”. Oggi abbiamo battuto ogni record: abbiamo pranzato (a base di sandwich tipico americano) alle ore 11:00; una vera e propria follia! Ci ha invitato a pranzo il Direttore del Dipartimento. Ed e’ stata una bella sorpresa scoprire che parla un italiano perfetto, con leggero accento marchigiano. Scopro che sua moglie e’ italiana, di fatti, di Fabriano; incredibile l’effetto della globalizzazione e della “fuga dei cervelli”! Dopo vari concorsi da ricercatrice in cui e’ stata sempre sorpassata dal candidato locale, questa donna di cui so solo il nome, per ora, Anna, decide di fare il salto in America e diventa associato in un’altra Universita’ in Virginia (prima di riuscire a riavvicinarsi a suo marito in Atlanta). Ora insegna Lingua Italiana agli americani e, quando puo’, porta avanti la sua ricerca su un dopppio binario interessantissimo: Boccaccio, sul fronte medievale, e Pasolini, su quello della letteratura moderna e contemporanea.”Bellissima accoppiata!”, esclamo ad alta voce, e il Direttore se la ride. Ne conviene. Ha provato (lui che e’ americano e l’italiano lo ha imparato dalla moglie) a leggere il Decameron, ma non ci riesce; gli chiedo allora se ha letto Pasolini e mi dice di si’, anche se lo preferisce nei panni del regista, più che in quelli del romanziere (ma gli suggerisco di leggere "Le ceneri di Gramsci"...e prende nota su una Moleskine).

Mentre finiamo di mangiare i nostri panini imbottiti all’inverosimile (ed e’ quasi impossibile che dal panino non sguscino via pezzi d’insalata, pomodori e olive nere immerse in maionese spessa e d’un giallo impossibile da trovare in Italia), iniziamo a parlare di Salo’ o le 120 giornate di Sodoma, l’ultimo film di Pier Paolo Pasolini, forse anche quello piu’ controverso e complesso e sicuramente quello più difficile da vedere, anche quando lo spettatore dovesse essere uno scaltro e con lo stomaco forte… 

E finiamo col disquisire delle differenze culturali tra Europa e Stati Uniti in merito al modo di rappresentare il sesso al cinema, del puritanismo totale degli americani e della nonchalance degli spagnoli, di come un nudo in un film spagnolo sia quasi un topos e di come in Italia, ultimamente, i registi sono anche piu’ sciolti e disinvolti e di come, invece, gli Studios praticamente probiscono d’inquadrare da vicino gli organi sessuali (tanto maschili quanto femminili).

L’America e’ un paese affascinante, in questo senso, e lui, in quanto Direttore di un Dipartimento di Lingue Straniere, ci tiene a dirmelo, vuole trasmettermi tutta la sua voglia di combattere contro il Sistema: qui negli USA insegnare ai ragazzi a parlare altre lingue, metterli, quindi, in contatto con la cultura di altri paesi, non e’ affatto facile ne’ scontato. L’anglocentrismo e’ fortissimo e chi studia francese, spagnolo, italiano e’ uno studente che sa gia’ che non avra’ vita facile se un giorno vorra’ provare a lavorare con la propria laurea.

Non avevo mai considerato la questione da questo punto di vista: in Europa, perfino oggi che il Regno Unito e’ uscito dall’Unione, ci ammazziamo per poter avere un B2 in Inglese, e tendiamo a soffrire d’una sorta di complesso d’inferiorita’ nei confronti della lingua inglese e, invece, negli USA, c’e’ chi deve lottare e sudare per portare avanti una filosofia di vita multilinguistica (anche quando il multilinguismo e’, effettivamente, una realta’ quotidiana, come nelle zone di frontiera, dove si arriva a parlare lo ‘spanglish’, o come nei casi dei tanti studenti che, in famiglia, parlano una lingua diversa da quella ufficiale…e pensiamo soprattutto a cio’ che succede nelle famiglie latine, o di ispanoamericani, o ai figli di genitori di Puerto Rico o del Costa Rica, dove l’inglese e’, ovviamente, quasi una lingua ufficiale e necessaria per la sopravvivenza di entrambi i paesi nei confronti degli USA).

Poi ci accingiamo ad entrare a lezione del college di Lingua Spagnola e il Direttore ci deve abbandonare perche’ deve risolvere le solite beghe legate alla burocrazia (anche qui molto invadente, proprio come in Europa). Prima, pero’, ci porta nel suo studio e ci regala due magliette, due t-shirt nere con una scritta maiuscola in bianco: “Monolingualism can be cured”, recita lo slogan, e ridiamo tutti. Gli promettiamo di portarla a lezione appena torneremo in Spagna. Dove uno slogan del genere, per tutto il casino che sta succedendo in Catalogna, assume di certo un valore politico di un certo impatto. E comunque e’ proprio cosi’, e’ verissimo: il monolinguismo si puo’ curare, e fa sempre bene essere multilingue, e’ sempre un toccasana “trasportare” il proprio cervello (anche solo per brevi periodi di tempo) in una lingua diversa da quella d’origine…

lunes, octubre 23, 2017

U.S.A.: Atlanta, Georgia


Scrivo al volo, dal laboratorio linguistico della Facolta' di Lingue della "West Georgia University", a Carrollton, a un'ora circa da Atlanta, nello stato della Georgia (U.S.A.).

Sono le ore 13:30 locali (ovvero, le 19:30 in Spagna, o in Italia). Sono qui per una sorta d'intercambio tra professori di Lingua d'Europa e d'America: io e la mia compagna d'avventure siamo appena usciti da una lezione di Letteratura Spagnola a ragazzi americani, ispanoamericani e afroamericani. 

Uno si siede qui, accanto a studenti bianchi, neri, mulatti e si domanda: ma come si puo' essere razzisti negli Stati Uniti? Come? E la prima domanda che facciamo ai nostri colleghi e': ma chi l'ha votato Trump?

Basta porre la domanda e subito la faccia dei colleghi si rabbuia: diventano tristi, non sanno dare una risposta logica, qualcuno si strappa i capelli, qualcun'altro fa notare che molti votanti di Trump vengono da qui, dalla Georgia, dal Sud del paese, sempre piu' conservatore e tradizionalista del Nord...

Abbiamo gia' pranzato (alle 12:00) e stasera ceneremo tutti insieme in un ristorante messicano alle 18:00 in punto; il 'jet-lag' ci sta ammazzando, poco a poco; ci prende l'abbiocco quando dovremmo essere iper-svegli; ci viene fame quando dovremmo dormire; si fa lezione, quando noi, in Spagna o in Italia, stiamo gia' dormendo. E' tutto un grandissimo e bellissimo caos d'orari e di lingue e di stress mentale, ma sento, anzi, so benissimo, che questa sara' una settimana stupenda, di esperienze nuove e stimolanti, di interscambio reale e profondo d'idee di emozioni...

domingo, octubre 15, 2017

INCUBI (SEMPRE)



Questi tre incubi (o diciamo pure: “sogni strambi”) devo appuntarmeli per non dimenticare (è un periodo di forte stress psicofisico: tra le lezioni, i convegni, i congressi, le recensioni, le interviste, etc. etc., non riesco più a riposare bene e il fine settimana è l'unico momento in cui riesco a dormire più di 5 ore filate e, dunque, credo proprio che a causa della maggiore quantità di ore di sonno raggiunte il mio cervello riesce ad entrare nella famosa fase REM e a generare sogni che poi, stranamente, riesco anche a ricordare, ma da qui a un mese? Ecco, meglio scriverli, metterli nero su bianco).

1 – Nel primo incubo, un vero incubo, mi ritrovo in mezzo a una strada in salita. Sono alla guida della AX Citroen verde militare che mia madre era solita prestarmi quando avevo tra i 24 e i 26 anni. La macchina arranca, è una salita davvero erta e, tra l'altro, è piena di curve strette. All'orizzonte, all'improvviso, appare un contadino con un Ape, di queste con 3 ruote e il rimorchietto. Ha la faccia arrabbiata, non frena, provo ad accostarmi più che posso al guard-rail; il contadino mi sfiora lo specchietto retrovisore e scappa via. Ho un appuntamento importante: lo so, lo sento, lo ricordo. Devo scappare anch'io, ma all'Università, dove dovrò vigilare un esame della mia materia agli alunni del terzo anno. Dopo l'ennesima curva stretta, in prima (non riesco ad andare a più di 20 km/h), ecco che m'imbatto nell'atrio enorme dell'Università e in un gruppo di studenti. Li guardo, li riconosco, sono proprio loro, i miei studenti del terzo anno, e sono tutti attorno a una bara, con il volto contrito. Mi avvicino e, come per istinto, di scatto, sollevo il coperchio e dentro la bara ci sono io, il mio “io” cadavere.

2 – Due studentesse, una castana dai capelli ricci ricci, una bionda dai capelli lisci lisci, mi si avvicinano e mi chiedono se ho da accendere. Nella realtà, sono un fumatore occasionale. Nel sogno, fumo Marlboro Lights, e offro subito loro il mio accendino. Ridono. Ridacchiano. Iniziano a sedurmi. Sono in parte lusingato e in parte preoccupato. E se fosse studentesse che ancora devono fare il mio esame? Se le ho già bocciate? Se poi mi ricattano e il gioco seduttivo è solo una trappola per incastrarmi? Alla fine, cedo, la bionda mi slaccia la cintura, mi abbassa prontamente i pantaloni e inizia a praticarmi una fellatio. Non è brava, non ci sa fare, le chiedo quanti anni ha e lei mi risponde: “17 appena compiuti”. Solo ora mi accorgo che assomiglia in un modo impressionante all'attrice di American Beauty, il film di Sam Mendes che andai a vedere al cinema insieme alla mia ex di allora (correva l'anno 1999). L'attrice, nella realtà, si chiama Mena Suvari, nel mio sogno resta nell'anonimato, ma, nel giro di pochi secondi, diventa così brava da trasformarsi in un'esperta attrice porno alla Cicciolina (o alla Moana Pozzi), ed è strano, anzi, è stranissimo che nel giro di un così ristretto arco temporale questa minorenne abbia appreso alla perfezione l'arte della fellatio... L'amica, invece, è improvvisamente scomparsa dall'orizzonte.

3 – Sogno la trama di Patria, il romanzo di Fernando Aramburu uscito in Spagna nel 2016 e subito divenuto un best-seller internazionale. Conosco ogni dettaglio, anche i nomi dei protagonisti; anzi, nel corso del sogno, sogno anche la trama di tutte le puntate della serie basata su Patria (mi sembra d'intuire diversi punti di contatto tra questa serie e il nostro Gomorra, basata sul romanzo di Saviano). Ora, il punto è che – da quel che so – non esiste alcuna serie basata su Patria e, soprattutto, cosa ancora più allucinante e stramba, è che io non ho mai letto Patria. So solo che è un romanzone (di circa 600 pagine) che parla del terrorismo dell'ETA nei Paesi Baschi. Solo questo, ma, per il resto, nel sogno m'invento tutto, mescolando trame di libri che, molto probabilmente, non hanno nulla a che vedere con questo di Aramburu. E tutto questo ragionamento lo faccio all'interno del sogno (o incubo) e quando finalmente mi risveglio afferro carta e penna e scrivo questa frase: “Comprare subito Patria”.

Ebbene, cosa dedurre da questi 3 incubi? O sogni strambi? Cosa pensare? Chi mi potrebbe offrire un'interpretazione psicanalitica dei 3 sogni?

Una cosa è certa (o forse 3):

a) nel primo sogno rivivo la stessa (quasi identica) scena iniziale de Il posto delle fragole di Ingmar Bergman (capolavoro del regista svedese del 1957 cui dedicai – ad oggi – il mio primo ed unico articolo tutto basato sull'analisi di un film); in quel caso, è il protagonista a vedersi immerso in una realtà surreale fatta di architetture impossibili, di orologi che si liquefanno, di ombre minacciose e, soprattutto, del corteo funebre in cui appare la tomba che trasporta il suo cadavere trainato da 2 cavalli (o i cavalli erano 4?). Comunque sia, a quanto pare io costruisco sogni a partire (anche) da frammenti o scene di film visti (anche) molto tempo fa... La mia mente frulla pezzi di cinema e ci gioca e ci gira intorno (l'unica amica a cui ho raccontato questo incubo mi ha detto che mi sono allungato la vita: che sognare la propria morte, in realtà, porta bene);

b) in quanto al secondo sogno e alla seduzione da parte di due adolescenti ancora non maggiorenni: mi pare evidente che ho un problema con il sesso; la mia mente non può fare a meno di pensare al sesso, nemmeno quando si suppone che stia riposando e ossigenando. Ogni riferimento a Cicciolina o Moana Pozzi NON è puramente casuale...(e il tema "sesso orale" forse è davvero una mia ossessione...e poveretta la mia "compagna d'avventure" del momento cui non piaccia...per me sarebbe una vita d'incubo farne a meno, intendo dire: praticarlo e riceverlo)...

c) in quanto al terzo incubo: è uno dei più assurdi perché mi permette di credere di conoscere al dettaglio una trama di un libro mai letto; e qui entriamo di pieno nell'ambito della “metaletteratura”; ovvero, la mia mente – a quanto pare – assume nei confronti della letteratura lo stesso atteggiamento bizzarro e strafottente che ha nei confronti del cinema: mi permette di sostituirmi alla voce dell'autore; d'inventare un narratore che non esiste; di sovrapporre trame “in potentia” in cui i terroristi dell'ETA vengono associati in modo diretto con quelli della nostra Mafia (o Camorra)...


In sintesi: non è che sia messo proprio bene, ultimamente...

jueves, octubre 05, 2017

La prima intervista




Il 2 Ottobre del 2017. Ecco: è questa la data della mia prima intervista; mai fatto prima, e ora mi tocca intervistare addirittura uno scrittore che ammiro, che apprezzo per quello che scrive e per come lo scrive, per i temi che affronta (con un certo coraggio, bisogna dirlo).

La sala della Facoltà di Lettere dell'Università in cui si organizza l'incontro è stracolma: ci sono alunni del terzo anno; alcune donne anziane di un "Club de Lectura"; alcuni professori di Teoria della Letteratura e Letterature Comparate; un paio di colleghi dell'Università in cui lavoro che si sono presi la briga di venirmi a vedere e a darmi il loro appoggio morale.

Mi presentano l'intervistato: "Piacere", "No, il piacere è mio". E ci sorridiamo. Ci stringiamo le mani. Con rispetto e una certa distanza. Poi ci fanno accomodare: "Sinistra o destra?", "Per me è uguale". Inizio a fargli i complimenti per i romanzi e i racconti che più mi sono piaciuti. Lui mi ringrazia, intimidito. Si nota che non se l'aspettava (forse ha più paura lui di me...). Poi una delle professoresse che ha organizzato il tutto ci presenta. Qualche studente comincia a prendere appunti sin da ora. Chissà quanti storpieranno il mio cognome. Poi si parte. Ringrazio tutti per essere venuti; premetto che non ho mai intervistato uno scrittore vivo. Lui sorride e afferra il microfono: "Se vuole posso rimediare". E ridiamo tutti. Con spontaneità e sincerità. Poi inizio a parlare dei suoi libri, del perché - secondo me - meritano di essere letti. E leggo anche un brano, sulla paura di volare. Ridono di nuovo tutti. Faccio notare che, oltre all'età, questo è un altro dei punti in comune che abbiamo io (l'intervistatore) e lui (l'intervistato). E l'ansia scompare, ci sciogliamo, iniziamo a parlare dei suoi romanzi, dei suoi racconti, ma anche dei romanzi e dei racconti degli altri, di Paul Auster, di Enrique Vila-Matas, di chi sarà il prossimo Premio Nobel, di arte e di letteratura, dei rapporti sempre complicati tra parola e immagine, di ekfrasis, di metaletteratura, di Walter Benjamin e di Jacques Lacan, della teoria dello specchio, dell'ombra e dell'impossibilità congenita di non poter guardare il mondo dal punto di vista dell'altro, dell'impossibilità cronica di non poter assumere il punto di vista di un altro, nemmeno durante un rapporto sessuale, anzi, l'amore e Eros impediscono, di fatto, una visione nitida, di che cosa resta sulla superficie dello specchio una volta che smettiamo di specchiarci, di poesia e di musica, di poemi in prosa e di prosa poetica, di estetica e di Kant, di Ludwig Wittgenstein e della sua teoria dei "giochi linguistici", e alla fine si crea un clima tale di fiducia e diverimento e confidenza che sia io che lui capiamo che potremmo stare ore ed ore a parlare di questi argomenti, per tutto il pomeriggio, fino a notte fonda... E il pubblico apprezza, quando smettiamo, perché l'organizzatrice dell'evento c'interrompe, non ce ne siamo accorti ma sono passate quasi 2 ore, e il pubblico applaude, un applauso fragoroso, spontaneo, incredibile, e una signora prende il microfono e ci ringrazia e ci dice che abbiamo formato un duetto eccezionale e gli altri continuano ad applaudire...

Ecco: sono queste le cose che danno davvero un senso a questo lavoro, per me. Lo scambio reale delle idee; la voglia di condividere il pensiero e che sia un pensiero critico; il desiderio di ascoltare e quello di imparare dall'altro; la voglia di crescere un pochettino di più in quanto persone umane dotate d'intelletto ("fatti non foste a viver come bruti...", come suonano attuali, oggi, i versi di Dante...).

Io e lo scrittore lo sappiamo già, ormai: abbiamo appena conquistato un nuovo amico, qualcuno con cui parlare di libri e di letteratura, di arte e di cultura ad infinitum...

Queste sì, sono le soddisfazioni della vita, penso, mentre Glenn Gould suona come Dio le sue Variazioni Goldberg.

jueves, septiembre 28, 2017

Passivi e inetti e riflessivi




È sempre emozionante stare dietro una cattedra e parlare ad un pubblico composto da persone che non conosci e che non hai mai visto prima (cosa ben diversa è farlo davanti ad una clase di alunni che, alla fine, volente o nolente, finisci col conoscere – c’è sempre un secchione, un perdigiorno, la bella e sfrontata, la timida e riservata, quello che disturba e chiacchiera a vanvera con tutti, etc. etc.). E fa sempre molto piacere vedere che – una volta svanita l’ansia da prestazione dei primi due minuti – ti accorgi che riesci a stabilire un contatto con questo nuovo pubblico di persone a te del tutto sconosciute. E vedere che ti seguono (qualcuna prende appunti, addirittura…come se le cose che stai dicendo de Il Fu Mattia Pascal fossero oro colato o riflessioni profondissime, e non semplici osservazioni di lettore non esperto di Pirandello e non italianista…).

Poi arriva il momento degli applausi, quando, ormai sudato, sei arrivato ad esporre un minimo di conclusioni (che tali non sono, anche perché, come Pirandello ci insegna, “non si conclude mai” – nessuna storia può concludere in modo netto e chiaro, i finali di Pirandello – sia quelli dei romanzi che quelli delle opere teatrali – sono sempre aperti e non potrebbero essere altrimenti).
E, infine, giunge il momento delle domande e delle osservazioni, delle riflessioni a voce alta dei più coraggiosi e meno timidi. Alza la mano una signora che avrà sui 60 anni e inizia a sparlare male di Mattia Pascal: “A me non è piaciuto per niente! Ma come si fa? Come può uno andare in giro per il mondo con quell’atteggiamento?”. Le chiedo che intende dire e la donna, ormai in preda ad un attacco isterico, continua, senza freni, senza censure: “Perfino l’operazione agli occhi! Non è lui a prendere la decisione, segue il consiglio dell’affittuario! E Adriana? Avrebbe potuto rifarsi davvero una vita, una vita vera, con una bella ragazza come Adriana e lui che fa? La molla, perché, diciamocela tutta, non ha le palle di dire la verità e di vivere una storia d’amore vero e sincero con lei! È uno totalmente passivo e in balia degli eventi!”.

C’è chi sorride; chi guarda in basso; chi guarda in alto; chi attende con un certo piacere che io apra bocca e cerchi di dare una spiegazione all’interpretazione (del tutto soggettiva e, perciò, legittima) della signora. E allora nel mio cervello si accende una lampadina e inizio a spiegare (con tono pacato e diplomatico) che, in realtà, non solo nel caso de Il Fu Mattia Pascal, ma in gran parte della letteratura del Novecento, assistiamo ad un vero e proprio proliferare di personaggi “passivi”, che non agiscono e che sembrano lasciarsi guidare dal caso e dalle forze oscure della vita: pensiamo alla figura dell’ “inetto”, così centrale per capire l’opera di Italo Svevo, a partire proprio da quel romanzo “rivoluzionario” che fu La coscienza di Zeno; o pensiamo al capolavoro di Robert Musil che, non a caso, s’intitola proprio L’uomo senza qualità; o pensiamo anche al Leopold Bloom, l’uomo qualunque, protagonista dell’Ulysses di Joyce, che fu amico intimo di Svevo; ma pensiamo anche a quel gigantesco uomo “passivo” e “riflessivo” che è il Marcel della Recherche proustiana, uno che impiega migliaia e migliaia di pagine per cercare di scandagliare il suo “io” e di ricostruire la propria “identità” a partire dalla riflessione sul proprio passato; e pensiamo, infine, anche al povero K., il protagonista de Il processo di Kafka, uno che la mattina viene prelevato dalla propria camera da un paio di poliziotti e accusato di un reato che non si sa bene in cosa consista e che finisce davanti ad un Tribunale che non si sa bene quando e perché lo condannerà alla pena capitale. E allora, mi fermo, faccio un bel respiro e lancio la domanda alla sala: “Perché? Secondo voi perché nei primi anni 20 e 30 del XX secolo c’è un boom così eclatante ed evidente ed esplicito di “personaggi passivi”? Pensate anche ad Hans Castorp, il protagonista de La montagna incantata di Thomas Mann. È un altro “passivo” famosissimo: uno che doveva andare a fare visita al cugino nel sanatorio di montagna in cui fa le cure per l’asma (o il tumore, o la malaria, o non ricordo più cosa) e che resta lì per ben 7 anni! Perché? Perché tanta “passività” o “riflessività” proprio in quel periodo? Dobbiamo ricordarci del fatto che si tratta di romanzi apparsi subito dopo la Prima Guerra Mondiale e subito prima dello scoppio della Seconda! Perché?”. 

Silenzio di tomba. Il gelo cala sull’intera aula. Lancio la domanda, ma, in realtà, nemmeno io so darmi una risposta. Una giovane dottoranda in prima fila alza la mano: “E pensiamo alla generazione attuale! Ai giovani che non studiano né cercano un lavoro” (quanta letteratura del Novecento potrebbe sembrare anticipare i problemi e la crisi di oggi – come se, davvero, le stesse cose ritornassero sempre). Il dibattito prosegue. E io gioisco internamente, perché se incontri di questo tipo hanno un senso è proprio perché favoriscono o danno luogo allo scambio d’idee tra lettori appassionati. E poi torno a casa e ne parlo anche con la mia compagna d’avventure. Si rallegra della buona riuscita della chiacchierata su Pirandello. E poi m’invita a cercare le date esatte dei romanzi che ho citato al volo. E questo è il risultato assurdo che trovo dopo una rapida ricerca su internet:

1 – Il Fu Mattia Pascal (1904);
2 – La coscienza di Zeno (1923);
3 – Ulisse (1922);
4 – Recherche (1913-1927);
5 – L’uomo senza qualità  (1930-1933);
6 – Il processo (1925)
7 – La montagna incantata (1924)

E uno pensa: ma com’è stato possibile? Com’è successa una concentrazione così alta di capolavori epocali in un così ristretto arco temporale? E Pirandello, da par suo, non sta per caso anticipando questa schiera di “passivi” e “inetti” o “riflessivi” cronici che caratterizzerà i primi 30 anni del Novecento? E ritorna, imperterrita, la domanda: ma perché tanti “passivi” e “inetti” e “riflessivi”?


lunes, septiembre 25, 2017

Il Fu Mattia Pascal (o della forza delle abitudini)




Dopodomani dovrò chiacchierare (per così dire) de Il Fu Mattia Pascal all'Università; non sono un esperto di Letteratura Italiana e tanto meno un profondo conoscitore dell'opera di Luigi Pirandello. E però due cose sono certe e le ho capite: a) è vero, Pirandello è un autore complesso, anche solo per quel continuo e costante ragionare dei suoi personaggi (qui Anselmo Paleari è tra i più riusciti, in quanto a stravaganza e tendenza al grottesco); b) è vero, Pirandello potrebbe a tratti peccare di “pirandellismo”, ma ci sono brani, all'interno di quest'opera, che riescono a scavalcare questo ostacolo con brillantezza e un certo senso di leggerezza che non guasta affatto, all'interno di una trama in cui la pesantezza sembra avere la meglio (anche quando cambia nome e passa a chiamarsi Adriano Meis, il povero Mattia Pascal continua a restare attaccato alla sua identità; hai voglia a viaggiare, lontano, lontanissimo da quella casa in periferia in una città di provincia in cui la suocera e la moglie fanno il bello e cattivo tempo; hai voglia a vincere somme ingenti di denaro al casinò di Nizza; hai voglia a vivere in affitto presso pensioni decadenti! Mattia Pascal non può re-inventarsi davvero un destino nemmeno indossando la maschera di Adriano Meis...ed è tutto qui il dramma (anche il nostro dramma...ahinoi!).

Uno di questi brani in cui Pirandello sembra riuscire a salvarsi dal pirandellismo è proprio quello in cui, verso il finale, Mattia Pascal torna a casa, sotto le vere spoglie (non è morto, come credevano moglie e suocera, ma ha solo fatto finta di impossessarsi della morte di un altro per scappare e rifarsi una vita). Ebbene: ormai, a distanza di tanto tempo, la moglie si è rifatta una vita (come si suol dire), è diventata sposa di Pomino, uno dei vecchi amici e soci in affari di Mattia, ha avuto dei figli da lui e, quindi, come rimediare? Dove collocare questo “morto in vita” che torna dall'aldilà?

Si tratta di una scena drammatica, ricca di tensione, proprio perché ci obbliga a pensare e a domandarci: cosa faremmo noi con un nostro caro morto se tornasse a bussare alla nostra porta? Se tornasse alla vita, essendo creduto morto per tanto tempo? Come trattare un risorto, quando le nostre condizioni di vita sono cambiate? Dove metterlo? Cosa dirgli? Come giustificarci di fronte ai suoi occhi increduli? Cosa fare con i soldi che noi credevamo di avere ereditato? Cosa?

E allora, a un certo punto, Romilda, la ex-moglie ed ex-vedova ora non più vedova di Mattia Pascal, si mette a fare il caffè e, qui, in questo momento, Pirandello s'inventa questo dialogo:

Nel porgermi la tazza, mi guardò, con su le labbra un lieve, mesto sorriso, quasi lontano, e disse:
  • Tu, al solito, senza zucchero, vero?
Che lesse in quell'attimo negli occhi miei? Abbassò subito lo sguardo”.

Ecco che in questa scena il lettore avverte tutta l'irresistibile forza, la potenza inevitabile delle abitudini. La viva chiede al presunto morto se il caffè lo prende sempre uguale, come quando vivevano insieme, sotto lo stesso tetto, e lei era sua moglie legittima e lui suo marito e non c'era Pomino né dei figli nuovi appena nati...

La scena va avanti e il tono familiare continua in questo nuovo dialogo:
A proposito, Romilda: avresti ancora, per caso, qualcosa di mio...abiti, biancheria?”.
No, nulla...”, mi rispose dolente, aprendo le mani. “Capirai...dopo la disgrazia”.
Chi poteva immaginarselo?”, esclamò Pomino”.


Ed è qui che noi capiamo il dramma di un revenant, di uno zombie, di un morto in vita che torna alla vita quando ormai la vita è andata avanti, il tempo non si è fermato, sua moglie si è rifatta una vita, e il morto vivo non ha più vestiti o biancheria da riciclare... I nostri vestiti, una volta dati per morti, non li indosserà più nessuno; al massimo, verranno riciclati o dati in beneficenza. Ed è così che Mattia Pascal – in una scena ricca di pathos – riceve l'ennesima riprova del fatto che non si può scappare ai fili che ci legano alla vita; che chi si finge morto poi la paga cara; che chi torna alla vita dopo essere stato in fuga dalla stessa non ritroverà più né la moglie ad attenderlo né i vestiti ad aspettarlo affinché vengano riutilizzati. Resta solo quella abitudine di sempre di prendere il caffè senza zucchero. Sono trascorsi, in realtà, due anni dalla fuga di Mattia Pascal e dal suo presunto decesso; eppure, Romilda, sua moglie vedova ormai solo ex-moglie e non più vedova, si ricorda ancora di come suo marito prendeva il caffè... Ci sono fili che sembrano non spezzarsi mai, sembra suggerirci Luigi Pirandello. Ci sono fili e rapporti che durano anche dopo che si sono interrotti o spezzati.

Letture pasquali Provo a leggere, in queste vacanze pasquali, tra una corsa in bicicletta in alta montagna e le mangiate assurde previste da...