miércoles, enero 27, 2016

David Bowie e "Lazarus"



E poi c’è David Bowie, morto il 10 di Gennaio (esattamente 17 giorni fa), dopo una vita di successi, di apparizioni stellari, di camei o partecipazioni in primo piano in vari film “cult” o, a volte, di serie B o Z, star protagonista della cultura “pop” che finirà nei libri di Storia che vogliano delucidare cosa accadde tra gli anni 70 del XX sec. e i primi anni 20 del XXI…

E ovviamente, manco a farlo apposta, torna fuori Lazzaro (lo so, ormai è una vera e propia ossessione, le mie tre o quattro lettrici ne avranno già piene le scatole di questa storia e di questo personaggio biblico-mitico), sin dal titolo di quella che viene giustamente presentata come una delle ultime canzoni del “Duca Bianco”, uno dei suoi ultimi “single” per il lancio dell’ultimo album, Blackstar: mi riferisco, ovviamente, a Lazarus, una canzone strana promozionata da un video ancor più strano, un cortometraggio angosciante che ci mostra David Bowie nei panni del “resuscitato”, qui disteso in un letto di una stanza spoglia e piena di angoli bui. La benda che porta sugli occhi è anch’essa angosciante e stramba, perché, proprio all’altezza degli occhi, presenta due bulloni, due pezzi di metallo sferici che sembrano stare lì al posto delle pupille.

Si vedono chiaramente le vene delle mani del morto che è tornato alla vita; la macchina da presa si concentra su questi dettagli che non fanno altro che esaltare la “vecchiezza” della pelle di Lazzaro.

Ai primi piani si succedono campi lunghi in cui lo stesso personaggio appare vestito completamente di nero, a lutto. Canta e trema. Trema e canta. A tratti pare essere vittima di attacchi epilettici. A tratti sembra spaventato da un’essere che si accuccia sotto ad un tavolino. Sullo stesso, Lazzaro scrive una specie di diario. In realtà, sembra che sia proprio la strana presenza al di sotto del tavolini ad obbligarlo a muovere la penna sulle pagine in bianco.

Alla fine, Lazzaro torna indietro, come in una specie di replay, fino a infilarsi dentro ad un armadio nero, più buio degli angoli bui della stanza.

E scompare, completamente e inesorabilmente, dalla nostra visuale.

L’armadio è come una tomba, come il sepolcro da cui Gesù ha fatto risorgere l’amico, almeno stando alle Sacre Scritture.

Ma di che parla Lazarus?

“Look up here, I’m in Heaven
I’ve got scars that can’t be seen”.

Lazzaro parla direttamente dal Paradiso. Ci dice che “Everybody knows me now”, tutti lo conoscono. Ma tutti chi? A chi si riferisce? E perché dice che ha “scars”, cicatrici, che non possono essere viste? A che tipo di cicatrici si riferisce qui Lazzaro?

“Look up here, man, I’m in danger
I’ve got nothing left to loose”

Che possiamo tradurre così:

“Guarda quassù, uomo, sono in pericolo
Non ho più niente da perdere”

E dal punto di vista di un morto che torna in vita, la cosa è del tutto verosimile. Ma poi continua:

“I’m so high it makes my brain whirl
Dropped my cell phone down below”

Che possiamo tradurre con:

“Sono così in alto che il mio cervello gira
Il cellulare caduto laggiù”.

E qui inziano i riferimenti a oggetti reali e quotidiani e perfino banali. Lazzaro, ascendendo al Paradiso, ha perso il cellulare; ora inizia a ricordare chi era prima di andare all’altro mondo: ci dice che viveva a New York, che era ricco, (“living like a King”), ma che poi ha perso tutto (non sappiamo come, non ce lo dice) e che comunque ora si sente libero, “Oh, I’ll be free”, canta, come in una specie di rito liberatorio, ora sarà libero, ma se seguiamo lo sviluppo di questa canzone attraverso il video vedremo che è esattamente il contrario, Lazzaro, qui, non è affatto libero, sia perché sembra incatenato al letto, sia perché poi, quando si alza, sembra essere obbligato a scrivere sul diario dalla presenza oscura e angosciosa di quell’essere demoniaco che si nasconde sotto al tavolo, sia, soprattutto, perché il video finisce con Lazzaro che entra in un armadio che si chiude, come una bara, come una tomba, come il sepolcro del passo biblico.


Il mistero resta. David Bowie – l’autore di questo testo – non c’è più. E chissà se si trova lassù, se è in “Heaven”, e si sente davvero “free”.

https://youtu.be/y-JqH1M4Ya8

viernes, enero 15, 2016

Lazzaro e Gesù: resurrezioni scandalose ab eterno


I casi della vita: Lazzaro sembra venirmi incontro anche quando non lo cerco. E’ stato il caso a farmelo ritrovare nel cap. 6 della “Parte prima” del Proemio dei morti, la prima delle tre macro-sezioni in cui si divide Gli increati, romanzo monstre di Antonio Moresco, ultimo capitolo di quella trilogia iniziata con Gli esordi, sviluppata nei Canti del caos e qui, finalmente, giunta alla sua conclusione.

Mi risulta davvero difficile riuscire a parlare di questo libro: sono 1013 pagine di narrazione estrema portata agli estremi perché estremi sono pure i temi di cui parla chi narra, ovvero, vita e morte e i labili confini tra il mondo dei vivi e quello dei morti. E proprio perché (attraverso la maschera del suo narratore, a tratti molto, molto autobiografico) Moresco ci parla di questi temi è inevitabile che a un certo punto iniziasse a mettere in scena la vita di Lazzaro, uno dei primi risorti grazie ai miracoli (e al volere supremo) di Gesù, un personaggio funzionale a tutto il messaggio della religione cristiana e cattolica e a tutti i Vangeli dei quattro autori canonici. Senza Lazzaro non c’è Gesù; o meglio ancora: la resurrezione di Lazzaro è una prova d’orchestra, una specie di esercitazione per quell’altra resurrezione fondamentale, quella di Cristo dopo essere stato condannato alla croce del Golgota.

Moresco ri-scrive quell’episodio emblematico della Bibbia per farci sentire cosa sente, cosa prova un morto. E ci riesce, perché ci sono brani che fanno venire i brividi.
La scena è la segunte: in mondo che sta crollando e in cui i confini tra vivi e morti sono sul punto di svanire, il narratore viene strattonato per la giacca da un sacco di morti, esseri che – come lui – vagano in un buio immenso. Alla fine, a prevalere è lui, Lazzaro. Il narratore – che lo riconsoce dopo aver sentito il suo nome - gli dice che conosce già la sua storia, ma Lazzaro lo smentisce subito, in modo quasi rude. E comincia:

“Ero là, solo, sepolto…” sento che la sua voce ha ripreso a dire “non sentivo niente, non avvertivo niente. Mi sembrava di non essere da nessuna parte, eppure c’ero…” (cfr. A. Moresco, Gli increati, Milano, Mondadori, 2015, p. 53).

E’ una descrizione che fa tesoro della brevità, ma che evoca qualcosa di enorme: il non-luogo che è la morte per chi ci “vive” dentro; ho tralasciato di dire che, in realtà, e in questo momento della trama, anche il narratore è morto, anzi, possiamo dire che per tutto il Proemio de morti non fa altro che cercare di rendere l’idea di ciò che “vive” essendo “morto” e quel che sente Lazzaro sembra coincidere con ciò che egli stesso esperimenta. La mancanza di sensazioni fisiche precise; la sensazione vaga di essere presente (fisicamente) in un non-luogo, in uno spazio che non si può delimitare. E tutto intorno a sé la solitudine immensa di chi sta dentro un sepolcro, il buio sconfinato che non dà spazio nemmeno alla luce più tenue.

Poi arriva la voce dell’amico:

“Lazzaro, vieni fuori!”, gridava. Come a dire: “Che cosa fai lì dentro? Falla finita con quella pantomima della morte con la quale mi hai attirato fin qui!”. E allora io, anche se ero morto gli ho gridato: “No, vieni dentro tu!” (id.)

Ecco un primo, sorprendente ribaltamento della scena memorabile tra Lazzaro e Gesù: se il primo grida la famosa frase “vieni fuori!” (da non confondere con “alzati e cammina!”, trasmissione erronea del testo originale), il secondo gli risponde per le rime, creando una specie di contrasto ironico tra l’imperativo del Signore e il rifiuto del morto: lo sfida ad entrare nel sepolcro, nel luogo in cui regna sovrana la Morte.

E Gesù – che è il Signore e che si trova lì perché ha una missione ben alta da compiere – accetta la sfida, entra, ma poi si sorprende del fatto che Lazzaro non gli parli, non emetta parola. E glielo fa notare:

“Non mi dici niente?” ho sentito che la sua voce ha sussurrato d’un tratto, da molto vicino alla mia testa bendata, perché si era seduto per terra accanto al mio corpo morto disteso sopra la pietra. (p. 54).

E anche questo è strano: Gesù si abbassa, anzi, si accascia letteralmente affianco al cadavere (bendato) dell’amico perché si aspetta una sua reazione verbale, che dica qualcosa, che lo ringrazi, o che comunque esterni il suo stato d’animo. Gesù si sdraia accanto a Lazzaro, sulla stessa pietra fredda su cui giaceva da morto. Gli ha detto “vieni fuori!”, anzi, gliel’ha gridato, e Lazzaro, in effetti, ha risposto, ha parlato, anche se si è rifiutato d’uscire dalla sua tomba e ha sfidato lui, il Signore, a venire dentro.

E Gesù continua a parlargli, per sussurri, accanto alla sua testa fasciata, fino a che è Lazzaro a prendere il là, inizia a fargli una serie di domande sconcertanti, che la Bibbia, ovviamente, non contempla, ma che Lazzaro, in quanto risorto che sa che tornerà a camminare fuori dal sepolcro, si porge esplicitamente, con tono quasi accorato:

““Perché sei venuto a resuscitarmi? Perché vuoi trascinarmi nella catastrofe della resurrezione?”. Non ha detto niente. Adesso avvertivo soltanto il suo leggero respiro molto vicino alla mia testa morta” (id.)

E questo è davvero sconvolgente: Lazzaro si arrabbia, chiede il perché di questo miracolo, e Gesù…non ha una risposta pronta. Non dice nulla. Respira e basta. E allora Lazzaro continua:

“Perché vuoi gettarmi di nuovo nella catastrofe della vita?”, gli ho chiesto ancora, e intanto sentivo contro le ossa della mia testa il freddo della pietra su cui ero disteso. Silenzio. “Perché vuoi farmi risorgere solo per farmi morire di nuovo?” ho continuato a domandargli nel buio. “E’ questa la vita che porti nel mondo? Sei venuto nel mondo solo per portare una simile resurrezione? Per perpetuare il ciclo delle resurrezioni dentro la vita e dentro la morte?” (id.)

Le domande di Lazzaro sono incalzanti: il risorto (da poco) prospetta al resurrettore (così s’intitolerà il successivo cap. 7) l’idea di un futuro tremebondo, un futuro in cui chi fa risorgere è costretto a far risorgere in continuazione, come in una catena perpetua, in un ciclo o circolo vizioso eterno. Poi alle domande Lazzaro fa seguire il ragionamento sillogistico:

“Perché, se adesso mi fai risorgere, io dovrò morire un’altra volta dentro la vita. E allora dovrai farmi risorgere ancora, per farmi morire ancora, per farmi risorgere ancora… Perché o mi fai risorgere continuamente o è come se non mi facessi mai risorgere!” (id.).

E Gesù stavolta risponde:

“Io devo morire perché tu possa risorgere”.

Ed è per questo che poco prima Lazzaro ha visto il suo amico piangere:

“Piangevo per te, ma piangevo anche per me”, aggiunge Gesù.

Stavolta è Lazzaro a restare in silenzio. E’ da questo momento in poi che Moresco (attraverso la maschera del narratore) s’inventa la teoria che tutte le cose sono “spaccate in due dall’interno”: sia la vita che la morte; tutto diviso in due. E la scena, in effetti, prende una piega del tutto nuova, per un lettore “classico” della Bibbia, una piega imprevedibile e sorprendente. Perché Gesù decide di vestire i panni di Lazzaro e di mandare Lazzaro fuori dal sepolcro con i suoi sandali e le sue vesti, al posto suo, in un voluto scambio d’indentità.

““Adesso tocca a te aiutarmi” ho sentito che la sua voce mi stava dicendo con dolcezza, nel buio. L’ho aiutato ad avvolgersi nelle bende, come lui aveva aiutato me ad uscirne, muovendo le mani sul suo corpo, alla cieca, nel buio. Poi ho capito che era andato a distendersi sulla pietra da cui mi ero appena alzato, mentre io camminavo al buio verso l’uscita” (p. 55).

Lo shock è ancora più esplicito quando, effettivamente, Lazzaro si è rivestito coi panni di Gesù e lo sente da dietro che gli dice:

“Rimetti a posto la pietra!”, con tono dolce, sottovoce, “sorrindendo con dolcezza nel buio”.

Che scena memorabile, che paradosso, che brividi provoca questo nuovo ordine di Gesù e questo suo sorriso dolce nel buio! Non ce lo saremmo mai aspettati e, invece, Moresco mette in scena l’impossibile: il ribaltamento speculare del rapporto tra chi risorge e chi fa risorgere (tra miracolato e profeta che fa miracoli); lo sconvolgimento ontologico dell’essenza di questo stesso, fondamentale, centrale miracolo. Lazzaro tornerà alla vita, ma sotto le spoglie di Cristo.

E in effetti, d’ora in avanti, tutti cominciano a prendere Lazzaro per Gesù; lui si sorprende, ma va avanti, fino alle estreme conseguenze, ovvero, fino al Golgota e alla crocefissione. E qui Lazzaro ci consegna (per via del narratore) le parole più tristi, angoscianti e spiazzanti di tutto il racconto:

“Oh, Signore, io non so neppure se tu mi hai abbandonato o non mi hai abbandonato! Io non ho neppure la consolazione di sapere che tu mi hai abbandonato!” (p. 59).

E’ come se Moresco amplificasse l’effetto distruttivo, dirompente, umanamente atroce del grido di Gesù sulla croce (un grido davvero umano: colui che sa che risorgerà trema, per un momento mostra tutta la sua fragilità, ed è per questo che si rivolge al Padre, che chiama in causa direttamente suo Padre, Dio onnipotente); è come se Moresco, attraverso questo Lazzaro che prende il posto di Cristo, volesse metterci sotto gli occhi lo scandolo della resurrezione in quanto tale, in quanto “miracolo” che permette a un morto di tornare alla vita.

E uno si domanda quale Dio potrebbe mai rispondere alle domande di questo Lazzaro-Gesù redivivo. Quale essere (per quanto supremo possa essere o concepirsi) potrebbe mai dare ascolto alle lamentazioni, alla crisi, al dolore di questo resuscitato così solo, così abbandonato a se stesso e al suo destino, così …umano. Troppo umano.

P.S.: attorno alle pp. 520-525 assistiamo a un’altra scena che ribalta il senso di un’altra, seconda scena centrale all’interno della Bibbia, ovvero, quella della nascita di Gesù; quando Maria e Giuseppe arrivano a Betlemme e Maria si appresta a dare alla luce il figlio, i due scoprono con sconcerto che la capanna in cui vorrebbero riposarsi è già occupata da un neonato che piange come un agnellino, in mezzo al fiato caldo di un bue e un asinello. Attorno al bambino ci sono altri due Maria e Giuseppe che lasceranno nello sconforto più totale la prima Maria che ha appena partorito ed è ancora sudata e sporca del sangue del frutto del suo ventre…


Ecco, di fronte a certe scene il lettore di Moresco non può non restare a bocca aperta. E sorprendersi di come l’immaginazione dell’autore possa arrivare a tanto. E congratularsi con l’autore per come riesce a narrare anche le cose più impossibili e impensabili. Pensare l’impensabile. Ecco. E’ questo ciò che riesce a fare uno come Antonio Moresco (quasi prete, fuoriuscito dal seno della Chiesa per sposare l’ideologia di sinistra più estremista, per poi sopravvivere alle Brigate Rosse e alle lotte armate e diventare quello che è diventato oggi, uno scrittore di qualità, uno che ha – ancora – un mondo intero da raccontarci, con uno stile personale che non ha uguali nel panorama letterario italiano di oggi).

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