miércoles, octubre 21, 2015

Madrid, ancora e sempre



Dunque, domani a quest’ora (23:03) sarò già a Madrid, la capitale del Regno… Dovrò andarci per lavoro, ma per me, rimettere piede nella Villa y Corte è sempre sinonimo di “piacere”. Là ho trascorso parte della mia vita: 4 anni e mezzo, se faccio la somma di tutte le volte che ci sono andato per viverci (anche se si è sempre trattato di una vita “a tempo”, ben circoscritta a una determinata frangia temporale – di solito, i 2 o 3 mesi che dura l’estate in Spagna, da Giugno ad Agosto, e a volte anche fino a Settembre, inclusi). Là ho vissuto alcune delle disavventure più assurde e rocambolesche e romanzesche della mia vita (da scriverne un paio di racconti grotteschi e altrettanti di tono umoristico amaro).

A Madrid rivedrò Ana, che è il mio porto sicuro nel mare in tempesta della capitale. Ana è come una specie di sorella per me, un’amica, una confidente, una su cui puoi sempre contare, una che sa apprezzarti per quello che sei e una che se ti devi criticare perché stai sbagliando lo fa, senza peli sulla lingua.

Abbiamo già deciso qual è il bar che incornicerà il nostro reincontro: uno di quelli un po’ grezzi e un po’ popolani in cui si mangia una tortilla da paura e in cui si beve birra fino alle 3 del mattino.

Certo, il giorno dopo siamo costretti entrambi ad andare a lavoro e per questo motivo abbiamo già pattuito che non faremo più tardi dell’una (a Madrid fare l’una di notte è normale amministrazione; d’altronde, si sa, gli spagnoli adorano mangiare e cenare tardi, qui in Spagna alle 22:30 è un buon orario per mettersi a tavola, e basti pensare che il tg della sera inizia alle 21:00, per finire una mezz’oretta dopo).

Non so cosa mi riserberà Madrid questa volta. Non so proprio immaginarlo. Di sicuro so che, come sempre, mi risentirò giovane e “pieno di vita”, come direbbe Jovanotti, ed entusiasta e voglioso (desideroso) di vivere al massimo, come se non esistesse un domani, come se non ci fosse il tempo di fare e vedere e toccare e sperimentare le mille cose, paesaggi, persone, fatti che offre la capitale.


Domani sarò a Madrid e rivedrò persone amiche e ripasseggerò davanti al Museo del Prado e risperimenterò le stesse emozioni provate tutte le altre volte. Perché Madrid fa parte della mia vita così come la mia vita è (continua a svolgersi) a Madrid, anche quando non ci sono fisicamente, anche quando non le appartengo in quanto transeunte. Madrid, ancora e sempre, finché ci sarà fiato in gola per camminare, viaggiare, contemplare, parlare e leggere e scrivere. Madrid. La Corte y Villa.

viernes, octubre 09, 2015

Pinocchio, o dell’“originalità” durevole dei “classici”



Italo Calvino sosteneva che “classico” è un libro che “non ha finito di dire ciò che aveva da dire”. È una bella definizione, ne converrete... E si attaglia alla perfezione a opere come, chessò io, l’Odissea (o la sua versione moderna e modernista: Ulysses di Joyce); il Don Chisciotte di Cervantes; L’infinito di Leopardi; o Hamlet di Shakespeare...

E la definizione è applicabile anche a Pinocchio, un “classico” sempreverde della letteratura cosiddetta “infantile” che, in questi giorni di iper-lavoro e di stress costante (devo finire un libro, un saggio che sta toccando quota 250 pagine!), mi sta aiutando ad andare avanti, a prendere fiato e a guardarmi intorno con occhi meno angosciati e più allegri...

Credo di non averlo mai letto Pinocchio per intero. Immagino che pochi lo abbiamo mai letto per intero. Con Pinocchio succede come con gli altri “classici”: ecco una seconda definizione “calviniana” di “classico”: quel libro che “non abbiamo mai letto ma che conosciamo anche senza averlo mai letto”. E leggendolo, invece, si scoprono subito un sacco di cose interessanti per la loro freschezza, schiettezza ed originalità. Prendiamo l’incipit:

“C’era una volta...
-          Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori.
No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno”.

È un prologo che spiazza perché scombina le carte in tavola: sembra proprio che Carlo Collodi si sia divertito a scrivere le avventure di questo “pezzo di legno” che poi assume i tratti (umani) di un bambino e che ne combina di tutti i colori. Dietro questo incipit io ci vedo l’allegria di scrivere per il piacere di scrivere, senza obiettivi prefissati, senza una trama già studiata a tavolino, senza una meta da raggiungere a tutti i costi (“bambinata”, sembra che Collodi definì i primi abbozzi di quello che solo in un secondo momento sarebbe diventato un “romanzo” per fanciulli; e mentre lo definiva tale, si scusava con l’editore per come lo aveva scritto).

Andando avanti, questa freschezza, questa allegria, questa voglia di scrivere per il piacere di scrivere (e di raccontare delle storielle interessanti o che possano catturare l’attenzione del lettore) si percepisce in modo ancora più lampante, come in questo episodio del cap. V: Pinocchio è da solo e deve cercare di calmare la fame. Vede un uovo e si prepara a cucinare:

“Detto fatto, pose un tegamino sopra un caldano pieno di brace accesa, messe nel tegamino, invece d’olio o di burro, un po’ d’acqua e, quando l’acqua principiò a fumare, tac!... spezzò il guscio dell’uovo e fece l’atto di scodellarvelo dentro.
Ma, invece della chiara e del torlo, scappò fuori un pulcino tutto allegro e complimentoso il quale, facendo una bella riverenza, disse:
-          Mille grazie, signor Pinocchio, d’avermi risparmiato la fatica di rompere il guscio. Arrivedella, stia bene e tanti saluti a casa.
Ciò detto, distese le ali e, infilata la finestra che era aperta, se ne volò via a perdita d’occhio” (tutte le citazioni da Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio, Torino, Einaudi, 1971).

È inevitabile: non si può non sorridere (o ridere) delle parole del pulcino che fuoriesce dall’uovo e, così, ottiene la libertà; non si può non meravigliarsi della genialità di Collodi nel far interagire tra loro un burattino (parlante), un uovo e il contenuto dello stesso... L’immaginazione dello scrittore è libera (liberrima, direi) di modificare i dati della realtà per mescolarli e riordinarli in base a principi che con la realtà hanno poco a che vedere. È come quando Charlie Chaplin, nel meraviglioso e poetico La febbre dell’oro, in attesa dell’amata e già prevedendo che la ragazza non si presenterà alla cena galante che lui le ha preparato con tanto affetto, inizia a intrattenersi (e a far passare il tempo) creando una coreografia perfettamente disegnata con tre panini infilzati da un paio di forchette. Chaplin fa letteralmente danzare i panini e noi spettatori (con lui) restiamo a bocca aperta, estasiati da tanta eleganza, colpiti dal nuovo uso che si può fare di un oggetto, di un prodotto comune, come due tozzi di pane.


Ecco, il pulcino educato di Pinocchio mi fa pensare ai panini ballerini di Chaplin. Non ci sono freni né tabù né inibizioni di sorta. Quando Collodi si dimentica per un po’ della morale (e dell’intenzione moraleggiante delle avventure della sua “creatura”) è davvero capace di sorprenderci, di farci ridere o sorridere, di farci riflettere su come cambia o potrebbe cambiare la percezione della realtà se solo si fosse in grado di sposare un nuovo, più creativo, meno razionale e meno freddo punto di vista. Ovvero (forse): se solo si fosse capaci di tornare (per un attimo) un po’ bambini...

Letture pasquali Provo a leggere, in queste vacanze pasquali, tra una corsa in bicicletta in alta montagna e le mangiate assurde previste da...