jueves, noviembre 20, 2014

Dormono i morti?


"I morti. Dormono, i morti? Perché dovrebbero dormire, se noi non possiamo".

Questa è la domanda che si pone uno dei narratori "mobili" (e "cangianti") del già citato (e più sotto esaltato) Under the Volcano, di Malcom Lowry (romanzo che più vado avanti a leggere e più mi appassiona).

Se i morti non dormono cosa fanno? Parlano? E se parlano tra di loro quali saranno i loro argomenti preferiti di conversazione?

Nel romanzo Tu rostro mañana (Il tuo volto domani), uscito in 3 parti, tra il 2002 e il 2007 (la tr. it. è a cura del defunto e bravissimo Glauco Felici), Javier Marías immagina l'Ultimo Giorno, il Giorno del Gran Ballo (o quello del Giudizio Universale, come viene definito da Giovanni nell'Apocalisse) quando "tutti i vivi saranno ormai morti" e quando "tutti i morti saranno ormai morti e convocati davanti al cospetto dell'Essere Supremo".

In quel romanzo Marías immagina che Dio sarà stufo di ascoltare le recriminazioni, le discolpe, le giustificazioni che ogni morto addurrà per diferende la sua causa (o per farsi perdonare i propri peccati): l'Umanità viene descritta come un "pollaio universale" in cui tutti i morti parleranno davanti a Dio e fra di loro creando un caso generale assordante...

Anche per Shakespeare l'al di là, ovvero, "the undiscovered country from whose bourn no traveller returns" (Hamlet, atto III,scena 3, dal monologo di Amleto che comincia con le arcinote parole "To be or not to be", etc.), è un mondo in cui i morti parlano: ed è qui che l'autore - forse senza rendersene conto, forse senza volerlo - incappa in un bel paradosso: Amleto Junior viene a sapere del delitto di suo zio Claudio proprio grazie alle parole che Amleto Senior (suo padre) gli comunica di notte sotto le parvenze d'un fantasma - ma se l'al di là è "un mondo sconosciuto da cui mai nessun viaggiatore ritorna" allora perché lui, Amleto Senior, sì che ritorna? Contraddizione irrisolvibile, come mostra con la sua consueta eleganza ed erudizione il Prof. Piero Boitani nel saggio (citato ed elogiato anch'esso dentro questo blog) Il Vangelo secondo Shakespeare...

E anche un contemporaneo del Bardo credeva nell'esistenza del mondo dell'al di là in quanto mondo abitato da morti "parlanti": nel Prologo alla sua opera postuma (la meno letta di quante arrivò a pubblicare), ovvero a Los trabajos de Persiles y Sigismunda, Miguel de Cervantes (che, a quanto sostengono alcuni, morì il 23 Aprile 1616, ovvero, lo stesso giorno in cui esalò l'ultimo respiro pure William Shakespeare) ipotizza un mondo in cui ritroverà i suoi amici e familiari più cari, anzi, anticipa quel mondo e li saluta mentre è ancora vivo: "Adiós, amigos, adiós donaires, adiós regocijos", cito non verbatim e quindi sicuramente sbagliando, ma la sostanza è quella, e cioè: "Addio, amici, addio allegrie, addio divertimenti", e poi continua: "Vi rivedrò di là", come se "di là" fosse il luogo predisposto a riprendere i divertimenti della Terra, e lo spazio ideale in cui riannodare il filo delle conversazioni passate...

E se torniamo indietro nel tempo, ci accorgeremo che anche i greci e i romani credevano che "di là" i morti non dormissero affatto e fossero piuttosto pronti a parlare: è quanto succede nelle scene della catabasi o discesa agli Inferi (o all'Ade) presenti sia nell'Odissea di Omero che nell'Eneide di Virgilio... Nel primo caso Ulisse ritrova sua madre, prima di ascoltare la profezia di Tiresia (e tutti ricorderanno quella scena, piena di pathos e di lacrime e d'emozioni forti); nel secondo caso Enea ritrova Didone, amata e poi tradita e qui pronta a scaricare sull'eroe tutta la sua delusione amara e la sua rabbia di morta che ancora si sente legata alla vita...

Evidentemente, Dante (allievo di Virgilio per molti versi) si ricorderà di queste due famosissime scene e le terrà presenti nel corso di tutta la scrittura (e l'originalissima invenzione) del suo Inferno, un mondo in cui tutti i peccatori vogliono parlare o avvertono l'irresistibile desiderio di farsi conoscere dal Nostro affinché porti notizie ai parenti o ai conoscenti rimasti in vita sulla Terra.

Dopo la domanda iniziale che ho riportato integralmente, Lowry (attraverso il narratore) aggiunge (in corsivo e in francese nel testo): 

"Mais tout dort, et l'armée, et les vents, et Neptune", che tradotto letteralmente (più o meno) significa: "Ma tutto dorme - o tutti dormono - e l'armata - o l'esercito - e i venti e Nettuno"...

E uno si domanda: ma da dove li avrà pescati questi versi Malcom Lowry? E poi ancora: ma perché li cita in francese? E, infine, si dirà e penserà: forse è così, una volta morti tutti dormono, perfino gli eserciti, perfino i venti, perfino Nettuno.

martes, noviembre 11, 2014

FRANKENSTEIN IN QUANTO “PARLANTE IN FASCE”


Quando si leggono i “classici” si fanno delle scoperte sensazionali. Magari si tratta di libri letti tanti anni fa, quando ancora non avevamo la stessa “enciclpedia culturale”, quando eravamo ancora dei lettori in erba o dei giovani di buone speranze (o di Great Expectations, come direbbe il caro vecchio Charles Dickens). E il tempo, ovviamente, cambia le carte in tavola, modifica la percezione del “classico”.

È quanto ho sperimentato l’estate scorsa tornando a rileggere Frankenstein (or, The Modern Prometheus), di Mary Shelley, uno dei capostipiti del cosiddetto genere “gotico”, romanzo cult che ha fatto paura a infinità di lettori di ogni parte o latitudine del Mondo, pubblicato nel 1818 e tradotto al cinema un numero svariato di volte (essendo il “mostro” un personaggio perfetto per la settima arte: tutti i mostri lo sono, ma uno come Frankestein – che, è bene ricordarlo, non è il nome del “mostro” bensì quello del Dottore che lo crea – lo è ancor di più, essendo un cadavere che torna a vivere e quale attore non lo è una volta morto e una volta che torna in vita solo grazie alla visione del film da parte dello spettatore che lo vede “agire” in quanto “personaggio”… ma non divaghiamo…).

Ebbene, rileggendo il classico che la moglie del Poeta s’inventò in una tetra notte d’inverno e nel corso di una scommessa tra amici (“vediamo chi riesce a scrivere il racconto di terrore più pauroso”), mi sono accorto di un fenomeno stranissimo che coinvolge il personaggio: Frankenstein (chiamiamolo così, anche se non è il suo vero nome, perché, semplicemente, il “nuovo Prometeo” non ha un nome) non sa parlare la lingua degli esseri umani. È un mostro anche per questo motivo; non può utilizzare il linguaggio verbale che usano gli altri per poter comunicare tra di loro. È privo del dono della parola. Ed è per questo che il lettore assiste quasi affascinato, quasi esterrefatto, alla nascita del linguaggio in Frankenstein quando questi si avvicina alla casa dell’allegra famigliola nei cui pressi si rifugia dopo essere scappato dall’antro dello scienziato pazzo o mad doctor che lo ha creato. A forza di spiare, a furia di captare i suoni dei suoi vicini di casa, Frankenstein inizia a capire il significato delle parole che essi utilizzano quotidianamente per comunicare; Frankenstein impara letteralmente l’inglese grazie agli abitanti della casa nei cui pressi fissa la sua dimora. E come Adamo nel Paradiso terrestre, così Frankenstein, nel limbo in cui è costretto a muoversi –causa del suo aspetto mostruoso non può mostrarsi in pubblico, pena lo spavento e la fuga della persona che gli capita davanti – inizia a nominare le cose che lo circondano, a capire che il verso che fa la rondine che si posa sul ramo dell’albero ha un nome (cinguettare), che ogni cosa, ogni oggetto, ogni elemento che lo circonda può essere “nominato”, e la scoperta ha un che di straordinario, Frankenstein potrebbe imparare qualsiasi lingua, oltre all’inglese, e potrebbe perfino sperare di venire capito da quegli esseri umani che tanto lo temono.

La scena in cui Frankenstein tenta di entrare in contatto con i suoi vicini è memorabile e mitica proprio per questo: perché noi lettori assistiamo al disperato tentativo di un “bambino” del linguaggio verbale, di un “parlante in fasce”, di un poppante della lingua inglese che cerca di balbettare un messaggio di senso compiuto e, nel fare ciò, si dimentica per un attimo dell’ostacolo più grosso che si frappone tra lui e il resto dell’umanità, ovvero, si dimentica di quell’aspetto mostruoso, di essere deforme e gigantesco, fatto di pezzi di cadaveri rattoppati sotto un’unico cervello pensante e senziente, che tanto panico provoca nel prossimo. In questa scena Frankenstein fa letteralmente pena: perché le sue intenzioni sono nobili, ma il suo aspetto è terribile e provoca rigetto. Entra nella casa e non riesce a parlare e a spiccicare bene le parole e la reazione dei vicini è quella di sempre: grida, schifo, terrore.

È anche questa impossibilità di comunicare con gli altri ad aggravare la situazione; il mostro diverrà più “mostro” anche per questo motivo. E giurerà eterna vendetta al Dottore che l’ha creato senza uno strumento così importante come la capacità di sapersi esprimere a parole. Se Frankenstein parlerà sarà per spargere odio e terrore; per lasciare tracce del suo passaggio da animale braccato, per gridare ai quattro venti che non l’ha voluto lui, che non è stata colpa sua, se qualcuno ha deciso di “metterlo al mondo” in quel modo, con quelle fattezze e senza quella lingua che ci rende umani.

È stata una lettura estiva fatta sotto il sole. Ma è stato bello anche così: leggere di brume, nebbie, inseguimenti e rapimenti, coccolato dalla brezza marina e dal rumore (sempre ipnotico) delle onde del mare in bonaccia.

miércoles, noviembre 05, 2014

POLONIA




Tra poco meno di un mese dovrò andare in Polonia per motivi di lavoro; parteciperò a un congresso in cui avrò modo di rivedere e riabbracciare vecchi colleghi e cari amici. Eppure… da quando ho accettato l’invito e ho pagato la mia quota d’iscrizione; da quando mi hanno dato risposta affermativa e mi hanno mandato il programma provvisorio del congresso stesso; da quando ho fatto i biglietti aerei e del treno che mi porteranno da Madrid a Varsavia… mi è venuta una strana paura, un timore reverenziale, una sorta d’inesplicabile senso d’angoscia nei confronti della Polonia e di Varsavia…

Non so perché, non c'è nulla di razionale in questa mia angoscia, però è così: ho come la sensazione che questo viaggio andrà male; ho il vago sentore che durante questo viaggio potrei rimetterci la pelle. Può cadere l’aereo; il treno potrebbe deragliare; così,  pure, la metro di Madrid (che è all’avanguardia e una delle metro migliori del mondo, ma il guasto tecnico, oltre che umano, può sempre scapparci); a Varsavia potrebbero scipparmi, o potrei perdermi e non ritrovare mai più la giusta direzione; potrei imbattermi in qualche delinquente pronto a tirare fuori un coltello per sgozzarmi, potrebbe cadermi addosso un ramo d’albero sulla strada pubblica (è successo a Madrid, sono già svariati i morti per “crollo di ramo d’albero”, che razza di morte assurda...). 
Insomma, non so perché ma ho come l’impressione che io morirò in terra polacca. E la cosa, ovviamente, non mi fa per niente piacere. Né mi fa ridere. Anzi, tutto il contrario.

Ho cominciato a parlare con la mia compagna di sventure (che avrebbe tanto voluto, ma che non può, partecipare a questa spedizione accademica); e poi con mia madre, che si è giustamente spaventata (quando si è trattato di viaggiare, ho sempre cercato di rasserenarla e rassicurarla, mia madre è un tipo ansioso, ho sempre tentato di risparmiarle qualche spavento di troppo, come se fossi un esperto nomade, un navigato globe-trotter). E avrei voglia di confidarmi con mia sorella, ma anche lei si agita facilmente, meglio evitare (e lei odia viaggiare, a differenza mia). O con mio fratello, più disponibile agli spostamenti rispetto a mia sorella, ma ho paura che mi prenda per matto o per scemo o per tutte e due le cose.

E il bello è che ormai non solo ho già pagato quanto dovevo pagare; non solo il mio nome e cognome reali appaiono nel programma (a quella data ora e in quel dato giorno); non solo ho già quasi fatto la valigia, ma…ho già scritto anche il mio intervento sul tema del congresso che, guarda un po’ la casualità, ruota attorno al concetto di “paura” (le immagini della paura nelle letterature europee)…

Forse è solo una mia paranoia temporanea. Forse è perché ultimamente vedo troppi film horror. Forse è solo un po’ di stress. Una cosa è certa: io della Polonia non so quasi nulla; a Varsavia non ci ho mai messo piede; non so cosa mangiano lì, né ricordo come si chiama la moneta corrente nazionale; vorrei tanto che non diventasse il luogo in cui morirò. Non so se m'imbatterò in un lupo mannaro (i vampiri, no, quelli vivono in Romania).

Polonia: ufficialmente “Repubblica di Polonia”; fa più di 38 milioni di abitanti (noi italiani siamo quasi il doppio); fu invasa da Hitler nel 1939 e da tale invasione derivò lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale; fu poi annessa all’URSS di Stalin, diventando, di fatto, uno stato satellite della Russia; poi ci fu la cosiddetta Solidarnosc, un movimento sindacale contrario al regime totalitario comunista. Poi non so com’è finita questa storia.

Polonia: scrittori famosi che conosco: nessuno.


Polonia: registi famosi che conosco: Krizystov Kieslowski (quello del Decalogo e dei Tre film sui colori della bandiera francese, oltre che dello stranissimo La doppia vita di Veronica). E basta. Quanta ignoranza. Quante cose ancora da scoprire. Speriamo solo di non lasciarci la pelle. E di non imbattermi in fantasmi o lupi mannari o vampiri assetati di sangue...

martes, noviembre 04, 2014

Under the volcano, di Malcom Lowry (1947): la discesa agli Inferi di un’antieroe dei nostri tempi



Ci sono romanzi che lasciano il segno, sin dalle prime righe, sin dal prologo. E ci sono romanzi che, oltre a lasciare il segno, ti rendono subito partecipi delle ansie, delle angosce, delle paure e dei traumi dei loro protagonisti. È questo il caso di un classico della letteratura del Novecento, Under the volcano, di Malcom Lowry, un romanzo rifiutato dagli editori, scritto e riscritto dall’autore, e alla fine assurto alla categoria di “classico”, quando forse nemmeno Lowry ci sperava più…

Mix perfetto di sentimentalismo non sdolcinato e di romanticismo triste, il romanzo narra la discesa agli Inferi di un console che finisce col lavorare in un paese del Messico perduto in mezzo ad una foresta di stampo amazzonico e sito alle falde di due vulcani a riposo. Laurelle è il testimone oculare dell’autodistruzione del console, Geoffry, un uomo buono, uno qualunque, che si ritrova a vivere un dramma moderno quale è il divorzio da Yvonne, sua moglie, giovane e paziente, tornata a Quauhnahuac (così si chiama il paesino di cui sopra) per tentare di salvarlo dall’alcolismo (essendo diventato il whiskey l’arma che Geoffry usa contro se stesso, quasi per morire in vita, o per sotterrarsi con le sue stesse mani).

C’è anche un altro personaggio a occupare il primo piano: il giornaliste free-lance (si direbbe oggi) Hugh, uno che è stato in Spagna allo scoppio della Guerra Civile, un americano che – come tanti all’epoca – ha subito il fascino della lotta repubblicana contro i franchisti e ha quasi finito con l’arruolarsi tra i soldati volontari delle Brigate Internazionali (ma l’intero romanzo è punteggiato dai ricordi di questa fase della storia recente; oltre che da molti ammiccamenti a Don Chiosciotte, personaggio letterario evocato spesso dal Console).

E a proposito di Cervantes e della sua creatura fittizia, è proprio Don Chisciotte a dare il là ad una sorta di monologo interiore di Geoffry, o meglio, alla lettera che questi rievoca e che spedì anni prima a sua moglie Yvonne… Una lettera che mi ha fatto quasi piangere, che commuove e smuove l’animo del lettore, che ci spinge a riflettere sul dolore che può scatenare una dipendenza, sia essa dovuta all’alcohol o sia essa collegata a un amore che si percepisce ormai come finito o spezzato per sempre…


E non resisto alla tentazione di trascrivere parte di questa lettera, che dà l’idea dello stile cinematografico di Lowry e che - penso e spero - fa giustizia a un romanzo che strega e lascia il segno e penetra dentro l’anima del lettore e lo scuote e lo spinge a riflettere e a ricordare e a piangere e a sospirare:

“Ma, oh, povero Cavaliere della Trista Figura! Perché , sì, Yvonne, sono così continuamente ossessionato dal pensiero delle tue canzoni, del tuo calore e della tua letizia, della tua semplicità e comunicativa, delle tue capacità in cento cose, della tua fondamentale sanità, del tuo disordine, della tua ugualmente eccessiva lindura… i dolci inizi del nostro matrimonio. Ricordi i Lieder di Strauss che solevamo cantare? Una volta all’anno i morti vivono per un giorno. Oh, ritorna a me come una volta in maggio. I Giardini del Generalife e quelli dell’Alhambra. E ombre del nostro destino al nostro incontro in Spagna. Il bar Hollywood a Granata. Perché Hollywood? E quel monastero: perché Los Angeles? E la Pensión México, a Malaga. E tuttavia nessuna cosa potrà mai sostituire l’unità che noi conoscemmo una volta e che Cristo solo sa che deve esistere ancora in qualche luogo” (p. 49 dell’ed. Feltrinelli del 1977, con traduzione – un po’ invecchiata, come si nota anche da questo brano – di Giorgio Monicelli).


Che potenza! Che delirio! Che tristezza infinita! E uno si domanda: esatto, è così, è proprio vero, dove diavolo (o dove Cristo) sarà finita quell’unità che conoscemmo una volta con quella persona che amammo in passato? In che luogo? Dove finiscono le forti intese che cementavano rapporti amorosi che sembravano destinati a durare per sempre? Lowry, anche lui, è un'antieroe donchisciottesco, per le domande che si pone e che ci spinge a porci.

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...