Mr. Apollinax (by T. S. Eliot): un incontro veneziano
Venezia.
La città lagunare. La città condannata a sparire sott’acqua. Non avevo
minimamente idea del fatto che, per trasferirsi dall’aeroporto di “Marco Polo”
alla terra ferma, occorresse per forza di cose prendere un vaporetto. Sì, deve prenderlo,
a meno che non preferisce dormire qui, mi fa l’addetta allo sportello di
vendita dei biglietti (carissimi). Mi guardo attorno, sconsolato. Su alcune
panchine barboni e indigenti dormono avvolti da stracci; qualche cane
abbandonato pernotta fuori dalle porte scorrevoli; inizia a piovere; fa freddo;
questo spiega il bisogno dei barboni di addobbarsi con stracci e lenzuola
vecchie e cappotti decisamente fuori stagione.
L’idea
stessa di stare su un’isola provoca le vertigini; usciamo dalle porte
scorrevoli con i nostri pochi bagagli e ci accoglie una luna piena freddissima.
Folate di vento, poi, calma piatta (lo sciabordare dell’acqua nera sui frangiflutti),
prima che inizi a piovere forte, come fossimo in pieno inverno (è
una pioggia cattiva, quella che ci dà il benvenuto, una pioggia che ti
schiaffeggia la faccia senza tanti complimenti).
Ci
ripariamo dentro il gabbiotto della Linea Arancio. Sono le 23,15, il vaporetto
è appena andato via. Il prossimo passa a mezzanotte meno un quarto. Aspettiamo
con pazienza, osservando il diverbio di una coppia che sembra uscita da un film
di Alain Resnais. Lui, grasso, sudato, coi pantaloncini corti e le scarpe da
trekking, le occhiaie più profonde delle mie, i capelli brizzolati tutti
scompigliati; lei, bionda e magra, con una borsa di Louis Vuitton, gli stivali
neri luccicanti, la gonna corta che lascia intravedere un paio di gambe di
notevole muscolatura avvolte in calze nere velate (anche queste, come i
cappotti dei barboni, decisamente fuori stagione). È come se tutti sapessero
con anticipo che avrebbe piovuto, stasera.
Arriva
il vaporetto, chiedo: si ferma anche all’Ospedale, vero? Il conducente (il
marinaio?) mi dice di no, affatto, quello che passa per l’Ospedale è della
Linea Azzurra, l’ultimo parte a mezzanotte e un quarto… Vedo la disperazione
ritratta nel volto della mia compagna di sventure. Avrei voglia di bestemmiare.
La coppia continua a litigare, mentre sale sul vaporetto della Linea Arancio.
Hai chiesto? Ho chiesto. E mi ha detto che era l’Arancio, che bastava
richiedere la fermata e ci avrebbero lasciati all’Ospedale. Non è vero. È vero.
Non è vero. Discutiamo con ferocia. La mia compagna d’avventure, come i barboni
del “Marco Polo”, si avvolge nell’unico indumento pesante che abbiamo in
valigia: un asciugamano, giallo, quasi fluorescente, si nota a distanza di
kilometri.
Aspettiamo
con pazienza. Passa il nostro vaporetto, questa volta è quello giusto. L’unico
rumore che si sente nel cuore della notte è il motore dell’attrezzo che ci
trasporta da un punto all’altro della cartina geografica. Non ci sono luci;
bisogna aspettare una mezz’oretta prima di avvistare l’isola di Murano. Sui
moli non c’è anima viva. Quando arriviamo alla nostra destinazione e scendiamo,
non c’è nessuno ad accoglierci. Nemmeno un vecchietto cui chiedere indicazioni.
Ha smesso di piovere, almeno questo. Le strade labirintiche di Venezia possono
condurre alla pazzia anche il più assennato e razionale e calmo degli esseri
umani. Mi metto in contatto telefonico con la proprietaria dell’ostello in cui
abbiamo prenotato un posto letto per ben 6 volte, prima di capire dove devo andare.
Ha una voce suadente, sembra molto simpatica, ed anche lei è molto paziente,
come la mia compagna di sventure che si trascina dietro la valigia divenuta improvisamente
pesante, come se dentro vi trasportasse un cadavere.
Arriviamo a destinazione all’una in punto, dopo esserci persi almeno un paio di volte. Ci giravamo intorno. Odio Venezia. È questo il pensiero fisso, per ora. Poi la proprietaria dell’ostello ci apre le porte di casa sua, è una casa museo, la nostra camera matrimoniale è enorme, il letto è circondate da statue di ogni tipo e grandezza, sulle pareti un’infinità di quadri, maschere e cappelli agli angoli, una intera biblioteca sulla parete di fronte, mi sembra di essere finito all’interno di un set cinematografico (un film di Luis Buñuel o Federico Fellini, un film di un qualche regista onirico, o un quadro di De Chirico).
Mentre
la mia compagna di sventure si fa la doccia, io apro a caso un paio di libri,
poi m’imbatto nell’opera completa di T. S. Eliot (uno dei miei poeti preferiti)
e leggo “Mr. Apollinax” in originale e poi guardo la traduzione di Roberto
Sanesi. L’atmosfera diventa ancora più surreale.
“When Mr. Apollinax visited the
United States”, inizia… E il lettore si chiede immediatamente
chi sia questo Mr. Apollinax, perché e quando e come visita gli Stati Uniti (d’America)
e da dove parte, se parte dall’Europa… E poi parla di una risata, anzi, della
risata particolare di questo tizio, una risata che “tintinna” (o “squilla”) tra
le tazze da tè (tipica strategia eliotiana: parlare di un essere umano, della
vita e dell’opera di una persona anche importante, magari mitica, magari simbolicamente
rilevante, abbassandone i tratti con il constante raffronto alla realtà più
quotidiana e banale: qui, le tazze da tè).
Poi
l’io del poeta inizia a parlare di altri personaggi mitici o semi-mitici, come
Priapo (noto per la lunghezza del suo pene e – nella mitologia greca – símbolo per
eccellenza della “fertilità”) e Fragilion (who’s him?) e una tale Mrs. Phlaccus
(Quinto Fulvio Flacco? Lucio Valerio Flacco? Perché questa radice così
esplicitamente latina per il cognome di questa signora? Di nuovo: who’s her?) e un tale
Prof. Channing-Cheetah (di nuovo: who’s him? Costante
il mix tra personaggi reali apparentemente umili e personaggi irreali dichiaratamente
mitici).
E
poi uno dei versi più misteriosi e inquietanti di tutta la poesia:
“He laughed like an irresponsible
foetus”
Che
possiamo tradurre con “Rise come un feto irresponsabile”. O anche: “Rideva come
un irresponsabile feto”. O anche: “Rise come un feto irresponsabile”. Ma il
punto è: che cosa significa davvero che uno ride come un feto? E perché “in
modo irresponsabile”?
E
poi la strofa più bella e più shakespeariana, una serie di versi che mi fanno
venire i brividi e che mi fanno pensare anche al Coleridge di The Rime of The Anciet Mariner.
“His laughter was submarine and
profound
Like the old man of the sea’s
Hidden under coral islands
Where worried bodies of drowned men
drift down in the green silence,
Dropping from fingers of surf”.
Versi
straordinari che rendono belle anche le immagini più mostruose e legate alla
Morte.
“La
sua risata era sottomarina e profonda
Come
quella del vecchio del mare
Nascosto
sotto isole coralline
Dove
cadaveri preoccupati di uomini annegati galleggiano nel verde silenzio,
Gocciolando
dalle dita della spuma”.
E
qui traduco senza guardare la versione di Sanesi; cerco di sentire il ritmo dei
versi; mi lascio guidare da queste immagini allucinanti di “morti per acqua”
(cfr. The Waste Land) e di cadaveri
galleggianti (quant’è sconfinato quel “green silence” – fa pensare al silenzio
siderale).
E
poi parla di un desiderio, quello del poeta stesso di guardare la testa di Mr.
Apollinax mentre “rolling under a chair”, rotola sotto una sedia, o sorride “over
a screen”…
E
poi c’è un nuovo riferimento al mito: parla di “centaur”, del galoppare di un
cavallo sulla dura terra. E di nuovo parla di Mr. Apollinax, del suo modo di
parlare “dry” e “passionate” (un evidente ossimoro: difficile che la
conversazione di un essere umano possa essere al contempo “secca” e “appassionata”,
o “razionale” e “passionale”). E poi seguono – incredibilmente, in appena 2
versi – i pareri, i pettegolezzi, i rumori di fondo intorno a questo famoso (e
misterioso) Mr. Apollinax, c’è chi sostiene fosse “a charming man”, chi dice
che aveva le orecchie a punta (“pointed ears”), chi afferma che fosse uno
squilibrato (“He must be unbalanced”) e c’è pure chi si pone la domanda
centrale di tutto il poema: “But after all what did he mean?” (“Ma alla fine
cosa voleva dire?”, pensandoci bene è la stessa identica domanda che ci
facciamo noi lettori arrivati al punto finale: “Ma in fin dei conti cosa
diavolo vuole dire? Che significa tutto ciò?”).
Nella
lista dei pareri c’è pure chi si mostra contrario al modo di fare (o di
pensare) di Mr. Apollinax: “There was something he said that I might have
challanged”, che possiamo tradurre più o meno così: “C’era qualcosa che disse
su cui io avrei potuto oppormi” o “avrei avuto da ridire” o “mi sarei opposto”.
E
poi, finalmente, i 2 versi finali:
“Of dowager Mrs. Phlaccus, and
Professor and Mrs. Cheetah
I remember a slice of lemon, and a
bitten macaroon”.
Che possiamo rendere con:
“Della
vedova Mrs. Phlaccus e del Professore e di Mrs. Cheetah
Io
ricordo una fettina di limone e un dolcetto masticato”.
C’è
tutto Eliot qui dentro. Il senso trascendetale delle conversazioni banali di
tutti i giorni; il senso della morte che tutto ricopre; il senso del tempo che
fugge e che tutto distrugge; una rara (e strana) capacità di ritrarre la morte
in azione (nel caso della strofa della “morte per acqua”).
La
mia compagna di sventure torna dal bagno e mi guarda preoccupata. Cosa leggi?,
mi chiede. Le mostro la copertina del libro. Le dico che è Eliot. Le faccio
notare che è ben strano che proprio lì, a Venezia, una città che galleggia sull’acqua
e che è condannata a sparire sott’acqua, mi sia imbattuto in una poesia che
parla di un “vecchio del mare” e di un’isola corallina e di morti che
galleggiano nel “silezio verde” dei flutti. Poi la stringo forte a me, l’abbraccio
stretta e ci infiliamo a letto, col pensiero che domani dovremo svegliarci
presto, se vogliamo arrivare a Roma per tempo. Ma mi è impossibile
addormentarmi subito. Continuo a chiedermi chi sia (chi si nasconda davvero
dietro) Mr. Apollinax…