lunes, junio 23, 2014

Mr. Apollinax (by T. S. Eliot): un incontro veneziano


Venezia. La città lagunare. La città condannata a sparire sott’acqua. Non avevo minimamente idea del fatto che, per trasferirsi dall’aeroporto di “Marco Polo” alla terra ferma, occorresse per forza di cose prendere un vaporetto. Sì, deve prenderlo, a meno che non preferisce dormire qui, mi fa l’addetta allo sportello di vendita dei biglietti (carissimi). Mi guardo attorno, sconsolato. Su alcune panchine barboni e indigenti dormono avvolti da stracci; qualche cane abbandonato pernotta fuori dalle porte scorrevoli; inizia a piovere; fa freddo; questo spiega il bisogno dei barboni di addobbarsi con stracci e lenzuola vecchie e cappotti decisamente fuori stagione.

L’idea stessa di stare su un’isola provoca le vertigini; usciamo dalle porte scorrevoli con i nostri pochi bagagli e ci accoglie una luna piena freddissima. Folate di vento, poi, calma piatta (lo sciabordare dell’acqua nera sui frangiflutti), prima che inizi a piovere forte, come fossimo in pieno inverno (è una pioggia cattiva, quella che ci dà il benvenuto, una pioggia che ti schiaffeggia la faccia senza tanti complimenti).

Ci ripariamo dentro il gabbiotto della Linea Arancio. Sono le 23,15, il vaporetto è appena andato via. Il prossimo passa a mezzanotte meno un quarto. Aspettiamo con pazienza, osservando il diverbio di una coppia che sembra uscita da un film di Alain Resnais. Lui, grasso, sudato, coi pantaloncini corti e le scarpe da trekking, le occhiaie più profonde delle mie, i capelli brizzolati tutti scompigliati; lei, bionda e magra, con una borsa di Louis Vuitton, gli stivali neri luccicanti, la gonna corta che lascia intravedere un paio di gambe di notevole muscolatura avvolte in calze nere velate (anche queste, come i cappotti dei barboni, decisamente fuori stagione). È come se tutti sapessero con anticipo che avrebbe piovuto, stasera.

Arriva il vaporetto, chiedo: si ferma anche all’Ospedale, vero? Il conducente (il marinaio?) mi dice di no, affatto, quello che passa per l’Ospedale è della Linea Azzurra, l’ultimo parte a mezzanotte e un quarto… Vedo la disperazione ritratta nel volto della mia compagna di sventure. Avrei voglia di bestemmiare. La coppia continua a litigare, mentre sale sul vaporetto della Linea Arancio. Hai chiesto? Ho chiesto. E mi ha detto che era l’Arancio, che bastava richiedere la fermata e ci avrebbero lasciati all’Ospedale. Non è vero. È vero. Non è vero. Discutiamo con ferocia. La mia compagna d’avventure, come i barboni del “Marco Polo”, si avvolge nell’unico indumento pesante che abbiamo in valigia: un asciugamano, giallo, quasi fluorescente, si nota a distanza di kilometri.

Aspettiamo con pazienza. Passa il nostro vaporetto, questa volta è quello giusto. L’unico rumore che si sente nel cuore della notte è il motore dell’attrezzo che ci trasporta da un punto all’altro della cartina geografica. Non ci sono luci; bisogna aspettare una mezz’oretta prima di avvistare l’isola di Murano. Sui moli non c’è anima viva. Quando arriviamo alla nostra destinazione e scendiamo, non c’è nessuno ad accoglierci. Nemmeno un vecchietto cui chiedere indicazioni. Ha smesso di piovere, almeno questo. Le strade labirintiche di Venezia possono condurre alla pazzia anche il più assennato e razionale e calmo degli esseri umani. Mi metto in contatto telefonico con la proprietaria dell’ostello in cui abbiamo prenotato un posto letto per ben 6 volte, prima di capire dove devo andare. Ha una voce suadente, sembra molto simpatica, ed anche lei è molto paziente, come la mia compagna di sventure che si trascina dietro la valigia divenuta improvisamente pesante, come se dentro vi trasportasse un cadavere.

Arriviamo a destinazione all’una in punto, dopo esserci persi almeno un paio di volte. Ci giravamo intorno. Odio Venezia. È questo il pensiero fisso, per ora. Poi la proprietaria dell’ostello ci apre le porte di casa sua, è una casa museo, la nostra camera matrimoniale è enorme, il letto è circondate da statue di ogni tipo e grandezza, sulle pareti un’infinità di quadri, maschere e cappelli agli angoli, una intera biblioteca sulla parete di fronte, mi sembra di essere finito all’interno di un set cinematografico (un film di Luis Buñuel o Federico Fellini, un film di un qualche regista onirico, o un quadro di De Chirico).

Mentre la mia compagna di sventure si fa la doccia, io apro a caso un paio di libri, poi m’imbatto nell’opera completa di T. S. Eliot (uno dei miei poeti preferiti) e leggo “Mr. Apollinax” in originale e poi guardo la traduzione di Roberto Sanesi. L’atmosfera diventa ancora più surreale.

“When Mr. Apollinax visited the United States”, inizia… E il lettore si chiede immediatamente chi sia questo Mr. Apollinax, perché e quando e come visita gli Stati Uniti (d’America) e da dove parte, se parte dall’Europa… E poi parla di una risata, anzi, della risata particolare di questo tizio, una risata che “tintinna” (o “squilla”) tra le tazze da tè (tipica strategia eliotiana: parlare di un essere umano, della vita e dell’opera di una persona anche importante, magari mitica, magari simbolicamente rilevante, abbassandone i tratti con il constante raffronto alla realtà più quotidiana e banale: qui, le tazze da tè).

Poi l’io del poeta inizia a parlare di altri personaggi mitici o semi-mitici, come Priapo (noto per la lunghezza del suo pene e – nella mitologia greca – símbolo per eccellenza della “fertilità”) e Fragilion (who’s him?) e una tale Mrs. Phlaccus (Quinto Fulvio Flacco? Lucio Valerio Flacco? Perché questa radice così esplicitamente latina per il cognome di questa signora? Di nuovo: who’s her?) e un tale Prof. Channing-Cheetah (di nuovo: who’s him? Costante il mix tra personaggi reali apparentemente umili e personaggi irreali dichiaratamente mitici).

E poi uno dei versi più misteriosi e inquietanti di tutta la poesia:

“He laughed like an irresponsible foetus”

Che possiamo tradurre con “Rise come un feto irresponsabile”. O anche: “Rideva come un irresponsabile feto”. O anche: “Rise come un feto irresponsabile”. Ma il punto è: che cosa significa davvero che uno ride come un feto? E perché “in modo irresponsabile”?

E poi la strofa più bella e più shakespeariana, una serie di versi che mi fanno venire i brividi e che mi fanno pensare anche al Coleridge di The Rime of The Anciet Mariner.

“His laughter was submarine and profound
Like the old man of the sea’s
Hidden under coral islands
Where worried bodies of drowned men drift down in the green silence,
Dropping from fingers of surf”.

Versi straordinari che rendono belle anche le immagini più mostruose e legate alla Morte.

“La sua risata era sottomarina e profonda
Come quella del vecchio del mare
Nascosto sotto isole coralline
Dove cadaveri preoccupati di uomini annegati galleggiano nel verde silenzio,
Gocciolando dalle dita della spuma”.

E qui traduco senza guardare la versione di Sanesi; cerco di sentire il ritmo dei versi; mi lascio guidare da queste immagini allucinanti di “morti per acqua” (cfr. The Waste Land) e di cadaveri galleggianti (quant’è sconfinato quel “green silence” – fa pensare al silenzio siderale).

E poi parla di un desiderio, quello del poeta stesso di guardare la testa di Mr. Apollinax mentre “rolling under a chair”, rotola sotto una sedia, o sorride “over a screen”…

E poi c’è un nuovo riferimento al mito: parla di “centaur”, del galoppare di un cavallo sulla dura terra. E di nuovo parla di Mr. Apollinax, del suo modo di parlare “dry” e “passionate” (un evidente ossimoro: difficile che la conversazione di un essere umano possa essere al contempo “secca” e “appassionata”, o “razionale” e “passionale”). E poi seguono – incredibilmente, in appena 2 versi – i pareri, i pettegolezzi, i rumori di fondo intorno a questo famoso (e misterioso) Mr. Apollinax, c’è chi sostiene fosse “a charming man”, chi dice che aveva le orecchie a punta (“pointed ears”), chi afferma che fosse uno squilibrato (“He must be unbalanced”) e c’è pure chi si pone la domanda centrale di tutto il poema: “But after all what did he mean?” (“Ma alla fine cosa voleva dire?”, pensandoci bene è la stessa identica domanda che ci facciamo noi lettori arrivati al punto finale: “Ma in fin dei conti cosa diavolo vuole dire? Che significa tutto ciò?”).

Nella lista dei pareri c’è pure chi si mostra contrario al modo di fare (o di pensare) di Mr. Apollinax: “There was something he said that I might have challanged”, che possiamo tradurre più o meno così: “C’era qualcosa che disse su cui io avrei potuto oppormi” o “avrei avuto da ridire” o “mi sarei opposto”.

E poi, finalmente, i 2 versi finali:

“Of dowager Mrs. Phlaccus, and Professor and Mrs. Cheetah
I remember a slice of lemon, and a bitten macaroon”.

Che possiamo rendere con:

“Della vedova Mrs. Phlaccus e del Professore e di Mrs. Cheetah
Io ricordo una fettina di limone e un dolcetto masticato”.

C’è tutto Eliot qui dentro. Il senso trascendetale delle conversazioni banali di tutti i giorni; il senso della morte che tutto ricopre; il senso del tempo che fugge e che tutto distrugge; una rara (e strana) capacità di ritrarre la morte in azione (nel caso della strofa della “morte per acqua”).



La mia compagna di sventure torna dal bagno e mi guarda preoccupata. Cosa leggi?, mi chiede. Le mostro la copertina del libro. Le dico che è Eliot. Le faccio notare che è ben strano che proprio lì, a Venezia, una città che galleggia sull’acqua e che è condannata a sparire sott’acqua, mi sia imbattuto in una poesia che parla di un “vecchio del mare” e di un’isola corallina e di morti che galleggiano nel “silezio verde” dei flutti. Poi la stringo forte a me, l’abbraccio stretta e ci infiliamo a letto, col pensiero che domani dovremo svegliarci presto, se vogliamo arrivare a Roma per tempo. Ma mi è impossibile addormentarmi subito. Continuo a chiedermi chi sia (chi si nasconda davvero dietro) Mr. Apollinax…

jueves, junio 12, 2014





È quanto mi è capitato ieri con Nicanor Parra, conosciuto grazie a quel genio di Roberto Bolaño (che lo ha sempre presentato come “il” poeta cileno per eccellenza, un maestro e un modello per tanti), nato nel 1914 e ancora in vita e, dunque, poeta centenario, ha attraversato un secolo intero, incredibile la quantità di rughe che ha accumulato sul volto nobile, da aristocratico in decadenza, anche se lui è un ex professore di matematica, un artista a tutto tondo, una sorpresa per il lettore che cerchi una voce originale, ammaliante, amica…

E questa è una delle sue poesie che io preferisco:

Cartas a una desconocida

Cuando pasen los años, cuando pasen
los años y el aire haya cavado un foso
entre tu alma y la mía; cuando pasen los años
y yo sólo sea un hombre que amó,
un ser que se detuvo un instante frente a tus labios,
un pobre hombre cansado de andar por los jardines,
¿dónde estarás tú? ¡Dónde
estarás, oh hija de mis besos!

E questa è una (mia) possibile traduzione della poesia in italiano (e che Nicanor Parra non me ne voglia, e non aggiungo ulteriori commenti, perché, a volte, di fronte all’arte, i commenti non servono):

Lettere a una sconosciuta

Quando passino gli anni, quando passino
gli anni e l’aria avrà scavato una fossa
tra la tua anima e la mia; quando passino gli anni
e io sia solo un uomo che ha amato,
un essere che si fermò un istante davanti alle tue labbra,
un pover'uomo stanco di camminare nei giardini,
dove sarai tu? Dove

sarai, oh, figlia dei miei baci!

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...