martes, diciembre 31, 2013

I libri di Natale

Dal 21 di Dicembre sono cominciate le vacanze; torno in Italia e mi lascio sorprendere da un pacco postale che ho ordinato io stesso via internet dalla Spagna. E' il pacco degli auto-regali, ovvero, dei libri che mi sono auto-regalato e che tenterò di leggere (per intero) entro il 6 di Gennaio.

1) Umberto Eco, "Scritti sul pensiero medievale" (Milano, Bompiani, 2012): perché il Medio Evo è una di quelle epoche storiche che mi hanno sempre affascinato e attratto (anche se poi, all'esame di Storia Medievale, presi solo un 25 - i Normanni e Federico II si sono rivelati ben più ostici di quanto andavo pensando prima di sedermi davanti alla prof.);

2) Sandro Veronesi, "Viaggi e viaggetti. Finché il cuore non è contento" (Milano, Bompiani, 2013): perché io di questo autore leggerò tutto; anche se so già che non si tratta di un capolavoro ("ni mucho menos") e anche se so già che non si tratta di uno dei suoi romanzi. E' che ci sono scrittori che uno impara a conoscere da ragazzo e che poi seguirà anche in futuro, anche nelle prove più "scadenti" o "passabili". Certo è che con Veronesi io non mi annoio mai... E forse non mi annoierò nemmeno leggendo questa raccolta di pezzi di diario dei suoi viaggi per il mondo;

3) Vladimir Nabokov, "Un mondo sinistro" (Milano, Adelphi, 2013): perché non si può inaugurare un nuovo anno senza una nuova traduzione di un libro di Nabokov; questo viene accostato a "Invito a una decapitazione" (bellissimo e ferocissimo) e al "1984" di George Orwell. Insomma, si tratta di un romanzo "distopico" e tra i più "politicizzati" dell'a-politico autore russo. Non vedo l'ora di godermelo davanti al fuoco del camino;

4) Geoff Dyer, "In cerca" (Roma, Instar, 1996): perché Dyer è uno scrittore che non delude mai e che, anzi, al contrario, sorprende sempre. Lo scoprii per il saggio-romanzesco (o per il romanzo-saggistico) "L'infinito istante" (sulla fotografia) e lo apprezzai per "Natura morta con custodia di sax. Storie di jazz" (sulla musica jazz). In questo caso parliamo di un "thriller" o "poliziesco" che sfrutta tutti i "topoi" del caso per smantellare il genere. Intanto, aspetto la traduzione del suo ultimo romanzo-saggistico o saggio-romanzesco che s'intitola "Zona: A Book About A Film About A Journey To A Room" (sul film "Stalker" di Andreij Tarkowskij);

5) John Cheever, "Cronache dalla famiglia Wapshot" (Milano, Feltrinelli, 2013): perché Cheever lo conosco come fosse un amico dai suoi incredibili "Diari" e avevo davvero voglia di vederlo all'opera (o in azione) nel campo del romanzo. Philip Roth lo considera come uno degli scrittori americani più bravi e "onesti" di tutti i tempi. Cheever considerava Roth un "fuori-classe". E quando venne a fare una vacanza a Roma e si mise a leggere Nabokov si sentì una cacchetta, rispetto alle abilità romanzesche del russo. Staremo a vedere.

Intanto, apprestiamoci a festeggiare la fine di un 2013 che è stato per me foriero di tanti cambiamenti e avventure e disavventure. Uno degli anni più folli e travolgenti della mia vita...

jueves, diciembre 19, 2013

Una video-chiamata (del 1968)

E poi, riguardando per bene quel capolavoro della storia del cinema che è 2001: A Space Odissey di Stanley Kubrick, uno si accorge di un piccolo dettaglio, una breve scena della durata di 2 minuti e 25 secondi, una specie di siparietto in cui un'ingegnere aerospaziale sta viaggiando in direzione Giove (o Saturno) e, all'improvviso, avverte il bisogno di fare una chiamata a casa, in realtà, una "video-chiamata", di quelle che facciamo tutti, oggi, nel 2013, via Skype, quando parli a distanza anche di migliaia di kilometri e vedi chi ti sta davanti, e così fa l'ingegnere aerospaziale del film di Kubrick, entra in una specie di stanzetta o cabina pseudo-telefonica, usa la tastiera per digitare il numero di telefono e si pone in contatto con sua figlia, una bambina piccola di circa 5 o 6 anni che gli risponde e che gli fa capire che è arrabbiata perché per colpa del lavoro, in viaggio nello spazio, lontano migliaia di kilometri da casa, non potrà andare al suo compleanno, la bimba gli dice che vorrebbe una "scimmietta" come regalo (e chi ha visto il film sa benissimo che importanza hanno le scimmie in 2001: Odissea nello spazio) e il papà le risponde con una risata che va bene, che le farà il regalino, è una promessa, e la figlia ride, si sente più tranquilla, farà la brava, avviserà la mamma della chiamata (o video-chiamata), e solo dopo qualche secondo uno s'accorge che la stessa è avvenuta grazie all'uso di un pc e di una "web-cam" (benché enorme, rispetto a quelle che poi avremmo costruito dal 1968 in là), una telecamerina posizionata sopra la testa dell'utente, un'attrezzo che oggi tutti "consumiamo" giornalmente, ma che, se pensiamo al momento in cui Kubrick gira il film, fa venire i brividi, Kubrick anticipa di parecchi anni l'uso quotidiano (oserei dire anche "banale") della stessa "web-cam", parte ormai integrante (e fondamentale) dei computer e permette al suo attore di chiacchierare con la figlioletta, e non solo, fa anche un'altra cosa: la bimba che parla è sua figlia, che nel periodo in cui il padre sta girando quel capolavoro della storia del cinema che è 2001: A Space Odissey si sente trascurata e un po' messa da parte per colpa del troppo lavoro, e allora il padre si scusa, le chiede scusa facendola partecipare alla lavorazione del film, la figlia entra dentro lo schermo cinematografico in quanto figlia che si sente bistrattata, e il grande e geniale Kubrick le chiede scusa attraverso le parole dell'attore che fa l'ingegnere aerospaziale e a uno viene in mente anche questa ipotesi: "la bimba chiede una scimmietta come regalo e, forse, il padre l'accontenta, le regalerà una scimmietta, magari dopo averle mostrato anche i vari scimmioni che popolano la prima parte del film, qualcuno deve esser rimasto sul set del film, la realtà che entre dentro la finzione, la finzione che diventa il luogo ideale, perfetto, in cui chiedere venia a una figlia che mal sopporta che il padre si dimentichi di lei per il troppo lavoro, una scenetta familiare ambientata in un futuro - il 2001 - che noi abbiamo già sorpassato da ben 12 anni, quasi 13, essendo figli di questo 2013 che volge al termine - in cui le "web-cam" non sono più così grandi come quella che Kubrick monta sopra la testa del personaggio, ma svolgono comunque la funzione che Kubrick attribuisce loro in questi brevi frammenti di un film di fantascienza...Semplicemente impressionante (e che ironia darci il totale: chissà a quanti soldi corrisponderebbero oggi quei dollari spesi per la video-chiamata...)".





miércoles, diciembre 18, 2013

Incubi


Incubi. Mi affascinano gli incubi. Non a caso sono un fan di un fumetto dell’orrore come Dylan Dog (che, di mestiere, come tutti sanno, fa “l’indagatore dell’incubo” – ciò non toglie che, a volte, gli incubi facciano tremendamente paura anche a lui). Ultimamente, però, ne faccio troppi e troppo strambi, incubi atroci o sogni grotteschi che poi mi fanno stare male tutto il giorno, mi riducono a uno zombie, mi fanno camminare a passo lento e spento, mi spingono a riflettere su temi scottanti come la Morte, la Paura, il Suicidio, l’Eutanasia, la Violenza, l’Apocalisse, la Perdita Improvvisa dell’Identità… Insomma, temi che non ti lasciano respirare sereno e tranquillo.

L’altro aspetto inquietante è che questi incubi si ripetono: a volte con piccole variazioni, altre con aggiunte che vengono dalla notte precedente, altre ancora con cambi di ruoli e di personaggi basati su persone che conosco nel piano della realtà.

In uno di questi incubi ricorrenti faccio l’amore con la mia ex. Il set cambia velocemente: da Firenze, passiamo a Roma (una stanza d’hotel di lusso), poi al ridente paesello sui monti abruzzesi in cui sono nato (un prato fiorito in un bosco), infine a Salerno (il vecchio attico – o mansarda – in cui ho vissuto per un anno e mezzo). All’improvviso, entra in camera un essere mostruoso, una specie di oca gigantesca (o struzzo o papero) che mi afferra per la gola e tenta di cavarmi gli occhi con il becco.

In un altro incubo, invece, vengo rapito da un macellaio, un tipo all’apparenza bonario, con barba e pochi capelli sulla testa. In perfetto stile Hostel, il macellaio mi immobilizza su una sedia metallica con manette e corde strette e mi impianta dei bottoni sui polsi, facendomi sanguinare fino allo svenimento (questa scena mi ricorda, inevitabilmente, quella biblica di Gesù appeso sulla croce: sento ancora il fastidioso rumore della carne che si rompe sotto i colpi dei chiodi sul palmo delle mani).

Nell’incubo più recente, invece, cammino da solo per strada in una Roma stranamente deserta. M’inerpico su Via delle Quattro Fontane, sbuco su Via Nazionale, decido di andare fino a Largo Argentina per prendere il 64 e arrivare fino a San Pietro, quando, sempre senza previo avviso, dal cielo luminoso della capitale iniziano a cadere pezzi di metallo acuminati e ruote giganti. Ci vuole un minuto per capire che sono pezzi e ruote d’aereo. Dal cielo piovono aerei che vanno a schiantarsi sui monumenti più famosi e sui palazzi più alti (in perfetto stile “11 Settembre”). Il rumore degli schianti fa venire i brividi. Non so come riesco a non urlare e chiamo mio fratello da una cabina telefonica (solo nei sogni esistono ancora questi attrezzi ormai estinti per colpa dei cellulari) e lui mi conferma che anche a La Habana stanno piovendo aerei dal cielo. La cosa più brutta di tutte è sentire il rumore da Formula 1 prodotto dalle ruote giganti che ti sfiorano le orecchie (o il corpo). Basta poco e si viene ridotti in poltiglia (come succede a qualche sventurato pedone che attraversa la strada prima di me).

C’ho riflettuto a lungo e alla fine ho capito che, almeno quest’ultimo incubo, deriva, in parte, dalla visione (recente) di uno dei film sugli zombie più originali che abbia mai visto negli ultimi vent’anni, e cioè, da Juan de los muertos (2011) di Alejandro Brugués, uno dei primi film di zombie ambientato a Cuba (ecco perché parlo per telefono con mio fratello da La Habana).

Provo a riflettere anche sugli altri 2 o a mettere in relazione tutti e 3 gli incubi con le mie esperienze degli ultimi mesi e…non trovo un filo comune…


Una cosa sì è certa: i protagonisti a volte cambiano faccia (il macellaio può benissimo diventare il padre della mia ex, ovvero, il mio ex-suocero; il papero gigante può trasformarsi in uno dei miei più cari prof dei tempi dell’Università; la telefonata posso farla tranquillamente a Mosca, invece che a Cuba; etc. etc.), la paura che provocano questi incubi resta la stessa (anzi, a volte aumenta: perché quando s’apre il set, intuisco e capisco già cosa m’aspetta, so già in quale incubo sono finito).

martes, diciembre 10, 2013

Androidi e umani (ancora su Ma gli androidi sognano pecore elettriche?)



Stamattina l’ho finito e la prima cosa che ho pensato è stata la seguente: “Ma dove diavolo è finito il famoso monologo finale di Roy Baty, quell’androide impersonato al cinema da Rutger Hauer? Quello più feroce e, al contempo, più filosofico del grupo degli androidi cui da la caccia Rick Deckard? Quel monologo che comincia con la famosa frase (entrata ormai nell’immaginario collettivo – la sanno tutti, anche quelli che non hanno mai visto Blade Runner): ‘Io ho visto cose che voi umani non potreste nemmeno immaginare, navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni d’Orione’…” e finisce con la frase dal tono shakespeariano: ‘È tempo di morire’”? Risposta: “Non c’è, Philip Dick non ha mai scritto quel monologo, dunque, deve essere per forza di cose frutto del regista Ridley Scott – e dei suoi sceneggiatori –, non c’è altra spiegazione”.

E qui ti viene da pensare come, a volte, il regista sia davvero bravo non solo a trasferire in immagini i contenuti di un romanzo (operazione per niente facile né scontata), ma anche a ricrearne lo stesso spirito, perché – è evidente a chiunque abbia letto Ma gli androidi sognano pecore elettriche? – quelle frasi, in quel monologo, sono perfette se messe in bocca a uno come Roy Baty, sono lo specchio dei suoi ragionamenti straniati e l’occasione perfetta per riflettere su cosa pensano le macchine (create dall’uomo), se davvero arriveranno un giorno a pensare (pensiero oscuro e che mette i brividi).

E poi c’è la scena di sesso (nel film mai esplicita) tra il cacciatore di taglie e l’androide donna: Rick finisce a letto con Rachael sapendo che così sta trasgredendo la legge, non bisogna mai “mischiarsi” con le macchine, si rischia di confondere le parti in gioco… È una scena davvero bella, anche perché sviluppata tutta per ellissi. Rick accetta di cedere alla tentazione, ben sapendo che in quel modo sta tradendo sia sua moglie sia il codice morale della società post-bellica in cui è costretto a vivere…

“Amore è solo un altro nome del sesso”, dice Rachael (o Rick, ora non ricordo più bene), e forse ha ragione.

Questo spiegherebbe anche la gelosia dell’androide quando, tornato a casa, Rick trova sua moglie sconvolta sul terrazzo. Rick aveva comprato da poco una capra (anche questa elettrica) e Rachael – ingelosita e quasi per vendetta – si introduce in casa e spinge giù l’animale dall’ultimo piano, davanti agli occhi terrorizzati della moglie di Rick.

Ecco un altro aspetto affascinante e perturbante del romanzo: la San Francisco che riproduce Phil Dick (San Francisco, non Los Angeles, come scrivevo nel post precedente) è una città devastata dalla polvere radioattiva, dove le scorie, gli scarti, i rifiuti occupano la scena principale. Eppure, anche in queste condizioni, l’essere umano tenta di sopravvivere, di lottare, di diffondere la vita.

In tal senso, la voglia di allevare animali è il simbolo (e il sintomo) di un’umanità che ancora ha delle speranze. Peccato che questi animali siano (spesso) riproduzioni perfette, ma artificiali, degli animali veri.

Ecco allora l’importanza della scena finale: Rick, esausto dopo la caccia agli androidi, trova per caso quello che sembra l’ultimo rospo rimasto sulla Terra e lo raccoglie con grande emozione e tatto, lo custodisce all’interno di una scatola e lo porta in trofeo da sua moglie. Quel rospo è considerato ormai un animale in via d’estinzione. Rick vi scorge la fonte di una vita vera che ancora pulsa. Peccato che poi sua moglie lo disilluderà per l’ennesima volta.


Philip Dick ci spinge a riflettere su cos’è che ci rende davvero umani anche attraverso un animale così semplice, quotidiano e banale come un rospo… E questo fa del suo romanzo un libro degno d’essere letto (anche se poi non vi ritroviamo il monologo che al cinema ci ha fatto emozionare tanto, quel monologo che termina con le parole: “E tutti questi momento andranno perduti per sempre… È tempo di morire...”).

miércoles, diciembre 04, 2013

Ma gli androidi sognano pecore elettriche?


C’è una scena, all’interno del cap. 12 del romanzo di Philip Dick Do Androids Dream of Electric Sheeps? (1968), che colpisce e resta impressa nella mente del lettore (soprattutto di quel lettore che ha visto quel classico della storia del cinema che è Blade Runner (1982), geniale trasposizione in immagini dello stesso romanzo di Dick ad opera di Ridley Scott), ed è la scena in cui il “cacciatore di taglie” Rick Deckard deve “ritirare” insieme  all’ispettore di polizia Phil Resch la cantante d’opera lirica Luba Luft, una androide in tutto simile ad un essere umano e in quel momento intenta ad ammirare le sale di un museo in cui si espongono i quadri di Edvard Munch.

La situazione asumme tratti drammatici perché Rick non capisce ancora bene se l’ispettore di polizia che lo accompagna è anch’egli un androide. Come molti ricorderanno, il romanzo è ambientato a Los Angeles, nel 1992, quando la Terza Guerra Mondiale ha distrutto in parte il pianeta Terra e ha spinto molti americani ad emigrare su Marte. Tra gli effetti devastanti del conflitto, la permanenza di una polvere sottile che uccide lentamente ogni forma di vita e la presenza di androidi del modelo Nexus-6 che potrebbero mettere a repentaglio la vita degli stessi umani perché molto abili a mimetizzarsi e camuffarsi tra i “normali”.

Philip Dick ci presenta, dunque, un mondo apocalittico in cui la distinzione tra uomo e macchina diventa labile e pericolosamente indecifrabile. In tal senso, sono particolarmente efficaci le scene in cui il narratore ci presenta gli ultimi sopravvissuti intenti a vezzeggiare e nutrire animali domestici come cani e gatti: sulla Terra, gli animali veri sono diventati un lusso, ormai sono tutti frutto di tecnologie modernissime che ne mimetizzano i corpi, i versi, i movimenti (ma sempre di artifici si tratta).

Ci si muove, dunque, in un mondo angosciante in cui il “cacciatore di taglie” Rick Deckard deve agire per il bene dei più, anche quando l’esame cui sottopone i presunti “umanoidi” non dà risultati certi.

È quello che succede nella scena del museo. Luba Luft sta osservando il famoso quadro di Munch intitolato L’urlo e, intanto, risponde alle domande dell’ispettore Resch, insinuando l’ipotesi che anche Resch possa essere un androide, uno di quelli più intelligenti, che si finge polizziotto per incastrare lo stesso Deckard. Mentre contempla il gesto angoscioso del protagonista del quadro, Deckard non fa in tempo a fermare l’ispettore che afferra per il polso Luba, la spinge in un ascensore e la uccide senza pietà con un raggio laser che la fa accasciare a terra, priva di vita. Rick resta scosso da tanta facilità e riflette sul fatto che gli androidi, a differenza degli umani, non provano “empatia”. Non sanno accordarsi allo stato d’animo di chi hanno davanti. L’ispettore Resch, invece, lo tratta con condiscenza e inizia una chiacchierata sui concetti di realismo e di iperrealismo nella pittura di Munch.

Chi ha ragione? Luba Luft, quando avvisa Rick e gli dice di stare attento a Resch perché anche lui è un androide o Resch, quando avvisa Rick e gli dice che deve agire con freddezza se non vuole soccombere all’astuzia degli androidi?

Philip Dick viene considerato come uno scrittore di genere. Ma basta leggere alcuni brani di questo romanzo distopico per capire che è uno scrittore tout court e anche molto bravo.

Basta leggere il cap. 12 con la scena appena ricordata. O anche questa descrizione (dal cap. 2) del palazzone in cui vive John Isidore, un altro personaggio “sperduto”, che percepisce tutto il vuoto che si è creato sulla Terra dopo lo scoppio della guerra:

“Abitava da solo in questo palazzo cieco e sempre più fatiscente, tra mille appartamenti disabitati. Un edificio che, come tutti quelli simili, cadeva di giorno in giorno, in uno stato sempre maggiore di entropia. Con il tempo tutto ciò che c’era nel palazzo si sarebbe fuso – una cosa nell’altra –, avrebbe perso individualità, sarebbe diventato identico a ogni altra cosa, un mero pasticcio di palta ammonticchiato dal pavimento al soffitto di ogni apartamento. E dopo di ciò lo stesso palazzo, senza che nessuno ne curasse la manutenzione, avrebbe raggiunto uno stadio di equilibrio informe, sepolto dall’ubiquità della polvere. Quando ciò si fosse verificato, naturalmente, lui sarebbe stato già morto da un pezzo; ecco un altro interessante argomento su cui meditare, lì in piedi in quel salotto sfatto, solo con l’onnipervasiva assenza di respiro del possente silenzio del mondo” (p. 27).


Ecco una citazione interessante su cui riflettere: una riflessione dal tono quasi biblico sul tempo in quanto “divinità distruttrice” che tutto consuma e livella; una frase dal ritmo musicale che fa pensare a uno scrittore a metà tra Marcel Proust e W. G. Sebald.

lunes, diciembre 02, 2013

Pisa (coi suoi fantasmi)



E così, dopo ben 2 anni d’assenza, torno a Pisa, la città che mi ha visto crescere come studioso e che mi ha accolto come dottorando, per ben 3 anni (vissuti intensamente), quando ancora si era giovani e non si sapeva minimamente che si sarebbe finiti a fare i prof. (o i docenti, o gli insegnanti, o i maestri, che tanto – in molti casi – è uguale, anche se – spesso – cambia lo stipendio e la metodologia da utilizzare in classe, la fauna umana che ci si ritrova davanti o i libri su cui si studia, ma non lo stress, non l’impegno o il sudore che implica un lavoro del genere, usare le parole per convincere, persuadere, informare, smuovere dal torpore dei ragionamenti della società del momento, etc.).

Pisa, con il suo fantastico Lungarno (superiore anche a quello di Firenze, a detta di Giacomo Leopardi) e la Torre arcinota nella bellissima Piazza dei Miracoli, e la sua Scuola Normale Superiore, con Piazza dei Cavalieri a far da sfondo alle nostre chiacchiere da congresso (o conferenza o simposio) e Piazza delle Vettovaglie, vero centro nevralgico della gioventù studentesca del luogo, punto di riferimento per chiunque voglia sbronzarsi a suon di vino economico e birretta in bottiglia… E Piazza Garibaldi, una delle mie preferite, anche perché lì ci trovi una delle gelaterie migliori di Pisa, e le Piagge (dove andavo a correre quando ero troppo stanco e stressato per la scrittura della tesi), e la stazione, e l’aeroporto, entrambe vicine, ai miei occhi di “romano” o di “madrileño” giramondo…

È davvero bello tornare, quando si è stati assenti tanti mesi da un posto in cui abbiamo lasciato un pezzo di cuore. Perché a Pisa ho conosciuto alcune delle persone più simpatiche e intelligenti che conosca; perché qui ho lasciato almeno un paio di buoni amici, di quelli che non ti dimenticherai d’invitare al matrimonio, il giorno in cui deciderai di sposarti, gente come Nico o Selene, gente che ti fa un caffè quando più ne hai voglia, o che ti aiuta a fare la valigia quando mancano pochi minuti alla partenza del tuo aereo…

Ecco: io a Pisa mi trovo come a casa mia, perché ci sono alcuni di quegli amici fondamentali che ti rendono la vita più facile, più sopportabile, più interessante o intrigante, più degna d’essere vissuta, insomma.
Come Nico, che mi parla delle sue potenziali fidanzate (ma nessuna gliel’ha ancora data, povero), e come Selene, che si sorprende se infilo un dito dentro il bollitore del latte per verificare se è caldo (e mi sgrida contro: “Non conoscevo il tuo lato primitivo!”).

E poi ci sono i colleghi (che fanno parte integrante inevitabile dei congressi o i convegni o i simposi), tra i quali si contano sia persone amiche che persone sgradevolissime, impossibile fare di tutt’erba un fascio…

E molti che mi chiedono: “Ma come ci sei finito in Spagna?”. E altri: “Chissà come te la starai spassando in Spagna?!”. E altri ancora: “Beato te, che sei in Spagna!”, come se la Spagna – la cui crisi è, per certi versi, ancora peggiore della nostra – fosse il Paradiso sulla Terra, come se davvero qui uno fosse in grado di vivere senza le angoscie tipiche d’Italia (ma non è così, non è che la Spagna sia meglio dell’Italia, è semplicemente che qui si vive con una mentalità diversa dalla nostra – e un giorno mi metterò ad analizzare da vicino in che senso l’una mentalità sia diversa dall’altra e perché gli spagnoli – al di là e nonostante la crisi – vivano con uno spirito un po’ più allegro del nostro).

A cena andiamo in un hotel di lusso del centro: c’invita l’Ambasciatore di Spagna in Roma. Ovvero: l’Ambasciatore si è scomodato e si è spostato da Roma ed è arrivato fino a Pisa per omaggiare professori come noi, che si dedicano allo studio (e alla diffusione) della lingua, della letteratura e della civiltà spagnola…

E quante risate, chiacchierando e criticando il vicino, insieme a Selene, quanti commenti che non ho captato, quanti ricordi, parlando con l’uno e con l’altro, quante teste ingrigite (ma i capelli bianchi stanno crescendo anche sul mio cranio), quanti tuffi nel passato, quanti ricordi legati a Pisa, quanti volti noti e meno noti, quante parole vacue e vane e vuote di senso e quante, invece, talmente intrise di significato da lasciarti a bocca aperta quando le senti in bocca a qualcuno che hai amato in passato, perché a Pisa ci sono anche persone che ho amato in passato, persone che mi hanno reso ciò che sono oggi, ragazze che oggi sono donne, donne che oggi sono spose, spose che domani saranno madri, madri che dopodomani saranno nonne… E allora questa città diventa il centro di gravità permanente dei miei ricordi, la città dei fantasmi del passato, fantasmi grati, che non mi fanno paura, anzi, tutto il contrario, sono fantasmi che mi coccolano, che mi ricordano ciò che fui e che mi dicono – senza esserne consapevoli – ciò che potrò essere, lontano da Pisa, lontano dall’Italia, lontano dagli anni belli della beata gioventù.

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...