miércoles, julio 17, 2013

Traslochi (d'inizio stagione)



Mi piace quando un'amica (come Nadia, ad es.) mi chiama al telefono e mi chiede: "Oggi in quale parte di mondo ti trovi?". Mi piace perché mi fa sentire davvero "cittadino del mondo", che è come si sentivano (o almeno, dichiaravano di sentirsi) persone come Karl Marx e Federico García Lorca... (e mi domando se scorresse buon sangue tra i due, o meglio, se il poeta granadino avesse mai letto Il Capitale, se il suo volersi sempre schierare dalla parte dei più deboli, degli emarginati, dei poveri, delle vittime del sistema capitalista - che ebbe modo di contemplare dal vivo a New York l'anno in cui ci fu la disfatta economica - derivi, in parte, anche dalla frequentazione del pensiero marxista).

Mi piace e mi fa anche un po' sorridere, perché quella domanda mi fa capire chiaramente che sono uno che: a) ancora non ha una fissa dimora; b) ancora non sa se l'avrà mai; c) è nomade nell'animo, è viaggiatore "dentro".

E a volte mi domando: ma da chi diavolo l'ho presa la tendenza al "nomadismo", quando i miei due genitori, mamma e papà, sono tra le persone più "stanziali" che conosca? (per mio padre anche solo prendere la macchina per andare a Roma Nord è un viaggio come dall'Abruzzo al Nebraska a cavallo).

E così, non dovrebbe stupirmi o angosciarmi o spingermi all'ansia il fatto di dover abbandonare l'ennesima casa, l'ennesimo appartamento preso in affitto, a due passi dalla Stazione Termini, a uno da Piazza Vittorio, a uno e mezzo da Santa Maria Maggiore...

E invece, stranamente, l'idea di dover affrontare quest'ennesimo trasloco un po' mi turba: mi sposto in un'altra casa, in un palazzo a circa 500 metri da qui, eppure, mi sento strambo, mi fa un po' effetto, dover ripartire di nuovo da zero (e che scocciatura caricarsi sulle spalle i pochi vestiti e i tanti, troppi libri, dove li metterò?).

E mi vengono in mente le tante (troppe?) case che ho abitato, da solo, o più spesso in compagnia di altri, coinquilini o donne che - a suo tempo - avevo amato a tal punto da considerarle come compagne di una vita (quanti sogni sfumati, quante incomprensioni, quanti litigi inutili, quanto dolore, ogni volta che si è trattato di chiudersi una porta alle spalle, lasciandovi dietro la persona amata e non più amata o amata e ora abbandonata e piangente e disperata...).

E mi viene in mente Pisa, Firenze, Salerno, ma anche Madrid e, ovviamente, Roma (che conosco ancora poco, ma che ho vissuto e contemplato dai punti di vista più disparati - per dire: da San Basilio ai Parioli; da Colle Oppio a Largo Preneste - e chi ha la fortuna/digrazia di vivere nella capitale mi capirà).

Uno passa la vita a fare traslochi; si diventa "traslocatori specialisti"; ci si prepara psicologicamente e, invece, mi sa che è sempre come la prima volta. Ti senti insicuro, incerto, non sai se ti troverai bene come in questa casa qua, non sai se andrai d'accordo con i nuovi compagni di sventura, non sai fino a quando resterai là, fermo, in attesa di un nuovo, ennesimo, trasloco.

E sogno il giorno in cui, finalmente, riuscirò a fermarmi, a stabilrmi in una fissa dimora (magari con lei, la mia amata attuale) e a farmi una famiglia, a organizzarmi intorno a un nucleo centrale, con dei figli (due o tre, almeno) e una biblioteca non più ambulante, una biblioteca fatta di tutte le librerie che ho costruito in questi anni nei posti più disparati, una in cui far convivere tutti i libri che ho tenuti sparsi tra la cittadina sui monti abruzzesi in cui vivono i miei e Roma, Pisa, Firenze, Salerno, Madrid, etc. etc.

E poi penso che se pure arriverà quel giorno in cui diventerò "stanziale", sono quasi certo che, dopo un po', prenderei la valigia e me ne andrei lontano. Non sopporto l'idea di stare fisso e fermo sempre in uno stesso luogo. Viaggerei per necessità, come fosse un bisogno fisiologico. Viaggiatore nato. Come Ulisse. Come chi ha ancora tanta voglia di scoperta. E che prova ancora curiosità per questo immenso, assurdo e complicato mondo. Oltre le Colonne d'Ercole. Verso l'infinito. E oltre (come recita l'ultimo capitolo di 2001: A Space Odissey).

jueves, julio 11, 2013

Giorgio Scerbanenco, scrittore filosofo






Come per Philip K. Dick, così per Giorgio Scerbanenco: la critica t’insegna che sono scrittori “di genere” (fantascienza l’uno, giallo l’altro) e tu – povero lettore innocente e costante, che cerchi di non seguire la corrente e che te ne freghi alquanto delle “mode del momento” – scopri che non è affatto così, che le cose non stanno nel modo in cui le presenta la “vulgata”, che due così sono scrittori “puros y duros”, di razza, di qualità, di spessore…



L’ho capito leggendo le prime pagine di Venere privata (Milano, Garzanti, 1998), lì dove si descrive fin nei minimi dettagli (ma anche con uso abbondante di “ellissi”) la scena di un incontro a quattro tra il protagonista, l’investigatore malgré lui Duca Lamberti (medico radiato dall’albo per aver applicato la “dolce morte” a una paziente avanti negli anni), il suo “protetto” (o necessitato di “protezione” – soprattutto di tipo psicologico) Davide Auseri e due fanciulle che non disdegnano la compagnia maschile, il buon wiskey e il sesso senza impegni:




“ ‘È più bello qui, ma spegni la radio’ [è una delle fanciulle a parlare, rivolgendosi a Duca Lamberti e questi continua, permettendoci d’intendere i suoi pensieri più intimi] C’era stato un gerarca fascista che durante la guerra di Spagna faceva l’amore lasciando suonare il disco del Bolero di Ravel: lui non voleva arrivare a questo punto” (id., p. 33).




Il lettore curioso a questo punto si ferma e inizia a domandarsi: come suona il Bolero di Ravel? E poi: cosa ne sapeva Scerbanenco della guerra civile spagnola? (Venere privata lo scrisse nel ‘66 e lo pubblicò l’anno dopo; Franco era ancora al potere, dal 1939, per l’esattezza, da quando, cioè, il bando nazionalista aveva vinto la guerra contro il Fronte Popolare, e lo sarebbe stato fino alla sua morte naturale, avvenuta nel 1975). E a quale gerarca fascista sta qui alludendo lo scrittore, attraverso la maschera del suo Duca? Uno legge un giallo (apparentemente buono per la spiaggia, tutto da gustare sotto l’ombrellone) e s’imbatte in questa notazione storica tanto ambigua quanto misteriosa…




E poi ci si imbatte in descrizioni come questa:




“In quel tratto di viale che dall’Arco del Sempione mira al Castello Sforzesco, anche appena passate le dieci del mattino, vi sono sul bordo dello stradone accattivanti figure femminili, d’estate sommariamente ma aderentissimamente vestite che sanno di operare in una grande metropoli dove non vi sono provinciali limiti di orario o conformistiche divisioni tra notte e giorno e che a qualunque ora, dalle 0,00 alle 24,00, un cittadino può rallentare con la sua auto, e fermarsi a chiedere la loro cooperazione” (id., p. 58).




Osservate, cari lettori (o meglio: lettrici, quelle 3 o 4 che ancora mi sopportano), osservate attentamente l’uso degli avverbi: “sommariamente”, ma soprattutto “aderentissimamente”; notate l’uso degli aggettivi: “provinciali” riferito ai “limiti di orario”; “conformistiche” riferito alle “divisioni” tra notte e giorno; guardate l’uso (pieno d’ironia) di quel sostantivo: “cittadino”, applicato al passante (automunito) che chiede la “cooperazione” di quelle donne appostate ai bordi della strada…




Chi vi ricorda? Che stile risuona in questo breve brano descrittivo carico di un tono a metà tra la malinconia e la satira sociale, tra l’ironia amara e l’uso umoristico del linguaggio? Ma Gadda, è ovvio, non ci sono dubbi…




Prendete l’ispettore Ingravallo; mettetelo a passeggiare in questo particolare quartiere di Milano (mai stato a Milano, ma Scerbanenco è geniale nella rappresentazione romanzesca della città; a tratti sembra di essere nella città “perduta” di Blade Runner – Philip K. Dick docet: è una Milano triste, cupa, dove piove sempre o dove fa sempre troppo caldo e la gente passeggia in bici in zone periferiche ancora dedite all’agricoltura; dove le auto sono già troppe e il traffico dà alla testa; dove i taxi non si trovano mai e i tram fanno il loro tipico rumore a ogni curva); attribuitegli la descrizione paesaggistica di cui sopra (spostando il set alla Stazione Termini o a Tiburtina) e essa funzionerebbe ancora, alla perfezione.




E poi la descrizione dei personaggi, primo fra tutti del protagonista, il Duca, un anti-eroe malinconico e stralunato che si ritrova a indagare nonostante il parere contrario dei suoi amici sbirri e che si ritrova a fare da psichiatra per il figlio di un ricco imprenditore che si sente in colpa per la morte di una prostituta con la quale ha avuto una relazione tanto breve quanto platonica… O quella, piena di tenerezza e di acuta empatia, di Livia Ussaro (l’aiutante), colei che collaborerà a risolvere le indagini e a scoprire il colpevole rimettendoci la faccia (nel senso letterale del termine).




Ecco come ce la presenta il narratore esterno, Livia Ussaro, ragazza intraprendente e indipendente, una che vorrebbe praticare la prostituzione solo per dimostrare la verità di una sua particolare “teoria sociologica”:




“Era un po’ troppo kantiana, dietro le sue parole c’erano degli imperativi categorici e dei prolegomeni a qualunque metafisica futura voglia presentarsi come scienza” (id., p. 115).




E prosegue, nella narrazione del coraggio, della voglia di andare fino in fondo, del desiderio di giustizia di Liva Ussaro (una che ti domandi se esiste, nell’Italia del 2013, una che sa vivere anche da sola, che non ha bisogno di un uomo accanto che la protegga, una che gli uomini li squadra e li codifica a partire da gesti, viso, movimenti).




Poi scopro che, prima di vivere della sua scrittura, Giorgio Scerbanenco – una volta morta sua madre, quando lui era ancora un adolescente – ha dovuto fare mille lavori e lavoretti vari, in una Milano in cui i coetanei gli chiedevano sempre: “Sei russo?”. Insomma, il successo di romanzi come Venere privata è arrivato tardi, quando ormai i soldi non avrebbe potuto goderseli e quando ormai la fama sarebbe divenuta postuma…

sábado, julio 06, 2013

La biblioteca-mondo di Stephen Dedalus: Ulysses come universo popolato dai fantasmi


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Ulysses (1922) di James Joyce: ecco, è questo il libro di cui possiedo più “doppioni” nella mia biblioteca personale (6 edizioni in tutto, di cui 2 sono traduzioni italiane). Sul frontespizio della prima copia (la traduzione di Giulio de Angelis per Mondadori) leggo la mia firma e la data: 16/05/1996, ovvero: avevo compiuto 19 anni quando iniziai ad appassionarmi a questo romanzo definito dalla critica uno degli anti-romanzi più rivoluzionari del Novecento. Perché – diciamocela tutta la verità – l’Ulisse di Joyce può piacere, nauseare, esaltare o fare schifo, ma una cosa è certa: ha cambiato la letteratura e il modo d’intenderla, di fruirla, di produrla.
16 Giugno del 1904: l’autore ha conosciuto Nora Barnacle in questo (per lui) fatidico giorno e decide di trasformare questa data nella giornata in cui si svolgerà la trama del suo capolavoro. Dalle 8 del mattino alle 2 di notte, Ulisse narra (si fa per dire) gli andirivieni (fisici e, soprattutto, mentali) di Leopold Bloom (il protagonista maschile), di Stephen Dedalus (il co-protagonista più giovane) e di Molly Bloom (la moglie di Leopold) in 18 capitoli scritti in 18 stili differenti sulla falsariga della struttura della trama dell’Odissea di Omero. Un’impresa non facile, come si può ben capire, anche perché Joyce si è divertito ad inserire in ogni capitolo dei piccoli misteri o enigmi la cui risoluzione non appare mai del tutto scontata o chiara (forse perché tale era il proposito dell’autore).
“Ci ho messo tanti enigmi e rebus che i professori avranno da fare per secoli per capire quello che volevo dire, e questo è il solo modo per assicurarsi l’immortalità”: così scriveva l’egocentrico scrittore giramondo (finì di scrivere la sua opera a Parigi, dopo averla concepita a Roma e iniziata a scrivere a Trieste – prima –  e a Zurigo – poi, in base ai vari viaggi e/o traslochi forzati per l’auto-esilio dall’amata-odiata Dublino e per cercare mezzi di sussistenza per lui e sua moglie tra lezioni private d’inglese – tra i suoi allievi anche l’amico Italo Svevo – e contratti a tempo determinato presso banche estere e imprese votate al fallimento – come quella di aprire un cinema, quando l’invenzione dei fratelli Lumière era ancora una novità) a uno dei suoi primissimi ammiratori, il ventenne traduttore francese Benoist-Mèchin…
Questo ci dà l’idea, appunto, dell’enorme megalomania di Joyce, ma anche della certosina pazienza con cui “inventò” la sua odissea personale, parlando, in fin dei conti, non solo e non tanto della Dublino amata-odiata, dell’Irlanda in cui era nato e cresciuto, quanto dell’Universo-Mondo (“de te fabula narratur”, come dicevano i latini; e l’insegna apposta in Via Frattina recita così: “In questa casa romana dove abitò dall’Agosto al Dicembre 1906 JAMES JOYCE esule volontario evocò la storia di Ulisse facendo della sua Dublino il nostro Universo”)
Joyce si concepiva come una sorta di Dio in terra che – con l’uso attento, ironico, istrionico e artigianale del linguaggio – poteva ricreare il mondo per farcelo vedere con occhi diversi. Ecco spiegato il mito di Joyce, un mito che lui stesso fomentò, sin dai primissimi tempi, e dalle primissime pagine del romanzo (c’era perfino chi pensava che Joyce fosse una spia al soldo del Governo inglese – quando viveva in Svizzera – tra le fila tedesche; c’era pure chi pensava che Ulysses contenesse messaggi cifrati o in codice per colpire il “nemico” politico… e quando poi finì con l’essere accusato di “oscenità”, venne bandito negli USA e in Inghilterra perché scambiato per un romanzo “pornografico”…). Anche questo mito può piacere, divertire o annoiare (dipende dai casi): certo è che Joyce si svenò per portare a termine un’opera che iniziò a scrivere effettivamente solo nel 1914 eper poi terminarla nel 1921, ovverossia: 8 anni per raccontare 1 giorno della vita di un piccolo gruppo di cittadini di Dublino…

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E come ogni mito che si rispetti, anche quello joyceano include i suoi rituali: ogni 16 Giugno schiere di fans appassionati celebrano il cosiddetto “Bloomsday” (“la giornata di Bloom”), ripercorrendo l’itinerario del personaggio del romanzo nella Dublino reale di oggi ed omaggiando Joyce con letture del suo romanzo-fiume (o romanzo scritto a suon di “stream of consciousness” o “flussi di coscienza” – una tecnica all’epoca molto in voga tra gente come Marcel Proust o Virginia Woolf, anche se ancora oggi la critica dibatte su cosa includere e cosa no sotto questa etichetta e su quali autori considerare come fautori o promotori di questa tecnica narrativa – a me ora viene in mente ad esempio Benjamin, il bambino disabile che parla a balbettii all’interno di The Sound and the Fury, di William Faulnker – ma la lista sarebbe lunga).
E come ogni fan, anch’io ho i miei capitoli preferiti, tra i 18 di cui sopra. A me piace, ad esempio, il cap. 6, quello che ricalca la discesa di Ulisse all’Ade (il mondo degli inferi), lì dove riceverà la profezia di Tiresia. Joyce fa andare Leopold Bloom al cimitero, per assistere al funerale di un conoscente, e qui il lettore s’imbatterà in una serie di riflessioni sulla morte davvero agghiaccianti (soprattutto per l’analisi spietata che fa il protagonista della nostra carne e degli organi interni del nostro corpo, una volta che si finisce sotto terra).
Ma ammiro molto (e rileggo sempre con piacere) il cap. 17, il penultimo (prima dell’apoteosico monologo finale di Molly Bloom nel 18), quello che rappresenta il “nostos”, ovvero, il ritorno a casa, “Itaca”, tutto sviluppato sotto forma di domande e risposte, secondo un modello dialettico (o presunto tale) che ricorda il catechismo (“Quante volte figliolo?” “Molte, padre”). Muoio dalle risate, ogni volta che lo rileggo, perché alcune domande che il narratore esterno pone ai due personaggi principali (Bloom e Dedalus, ovvero, un padre in cerca di figlio e un figlio in cerca di padre) sono talmente lambiccate, talmente retoriche, talmente arzigogolate che è impossibile non ridere.
E mi piace il cap. 9, “Scilla e Cariddi”, noto anche come il cap. della “Biblioteca”, perché è qui che si svolge un acceso dibattito tra Stephen Dedalus e alcuni suoi amici e compagni di sbronze (e di studi). E su questo capitolo oggi mi soffermo…

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Stephen Dedalus rappresenta, in parte, James Joyce da giovane; inevitabile vedervi rispecchiati alcuni lati del carattere dell’autore; un autodidatta che legge di tutto, che studia, che insegna e che vorrebbe fare lo scrittore (oltre che il critico letterario). Uno che, in quanto a letteratura, ne sa parecchio.
L’intero capitolo si svolge attorno a una teoria che Stephen sviluppa attorno al nodo (teorico) complesso dell’autobiografismo: in che modo e in che senso l’autore di un’opera letteraria è anche il Dio di quell’opera? In che modo chi scrive trascende la propria esperienza personale per parlare al lettore? In che senso si può affermare che dietro ogni opera d’arte si nasconda l’autore – anche quando non usa la prima persona personale e anche quando, intenzionalmente, cerca di sparire davanti agli occhi dei lettori o spettatori?
Stephen ha una teoria che convoglia il misticismo nel piano della letteratura: per spiegare questa sua teoria si appoggia a William Shakespeare. Chi era veramente costui? Dov’è Shakespeare, se ci mettiamo a rileggere i suoi drammi?
Per Stephen Shakespeare si nasconde soprattutto dietro un personaggio, in particolare, ovvero: dietro Amleto senior, il padre di Amleto, principe di Danimarca. Shakespeare si presenta come un fantasma che parla alla sua creatura; Shakespeare è il fantasma che mette in moto la mente e il corpo di Amleto junior, è colui che finge di tornare dal mondo dei morti per dare vita a un’astrazione come quella di Amleto, suo figlio, figlio del suo intelletto, pieno di dubbi e di ripensamenti (e di trame). Ogni dramma di Shakespeare è un dramma autobiografico e mai come in Amleto si capisce quanta base autobiografica vi sia nel teatro shakespeariano. “Nove vite vengono tolte per quell’unica di suo padre”, osserva Stephen, sottilizzando, davanti ai suoi colleghi (intenti ad ascoltarlo, a prenderlo in giro e a confutarne le teorie). Ma Shakespeare è anche Amleto junior, quello che dubita, che ha paura, che non sa se vendicare il padre contro sua madre Gertrude uccidendo suo zio Claudio…
A un certo punto uno dei colleghi di Stephen, con tono canzonatorio, arriva a paragonare il Bardo a Dio: “Egli è il fantasma ed il principe. E’ tutto in tutto”. Stephen gli da ragione. E intanto… mentre la conversazione va avanti, il lettore inizia a pensare: chi era davvero Amleto senior? E perché se Amleto junior ci presenta l’al di là, il mondo dei morti, come una “oscura regione da cui mai nessun viaggiatore ritorna”, Amleto senior torna e riesce perfino a parlare, a intavolare un dialogo con suo figlio? Chi è veramente William Shakespeare?
Cosa si nasconde dietro a un nome?, si chiede ancora qualcuno all’interno della Biblioteca…
Il nome è l’unica cosa che ci rimane attaccata (in modo costante e inviolabile) fino alla morte; ma quando i nostri genitori ci dicono che è quello il nostro nome facciamo fatica a capirlo e ad abituarci (è per questo che i genitori fanno scrivere più volte il nome al figlio, sul primo quaderno di scuola, prima ancora di andare a scuola).
Shakespeare ci viene presentato come una sorta di Dio perché ha saputo cambiare nome e anima e visione del mondo all’interno di ognuno dei suoi personaggi (né uomo né donna, il Bardo viene presentato da Stephen come una sorta di “androgino” – e forse ogni scrittore che si rispetti sfrutta entrambe le sfere in nome dell’androginia). Shakespeare è un fantasma che si è re-incarnato in Amleto (junior e senior), ma anche nel povero Otello e nel malefico, diabolico Yago; in Macbeth, ma pure in Lady Macbeth, la moglie machiavellica che lo induce ad uccidere il Re Duncan.
Stephen sugella la sua teoria (mescolando abilmente la letteratura col misticismo, citazioni da diverse opere letterarie e filosofiche a citazioni da San Tommaso d’Aquino e Sant’Agostino, passando per la Bibbia) con questa affermazione (dai toni, evidentemente, shakespeariani):
“Noi camminiamo attraverso noi stessi, incontrando ladroni, spettri, giganti, vecchi, giovani, mogli, vedove, fratelli adulterini, ma sempre incontrando noi stessi”.
Ecco: qui uno si ferma e capisce. Tutta la teoria di Stephen sull’Amleto e l’autobiografismo shakespeariano, in realtà, serve a dimostrare una cosa: che Ulisse è anch’essa un’opera letteraria autobiografica, che Joyce imita Shakespeare, in questa sua tendenza al nascondimento e che noi – in parte – siamo proprio come quei personaggi che vediamo muoversi sia all’interno del teatro del Bardo sia all’interno del romanzo joyceano. Finché dura la lettura (o la visione dello spettacolo), siamo loro, siamo fratelli adulterini, e mogli, e vedove, siamo Ulisse e siamo Penelope in attesa di suo marito, siamo Circe la maga e il povero e vecchio Anchise, siamo Desdemona la vittima e Otello il carnefice, mentre incontriamo sempre noi stessi… Noi camminiamo attraverso noi stessi… E Ulisse invita al cammino come pochi romanzi sanno fare.

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Questa teoria (o estetica) del fantasma è implicitamente accolta da Leopold Bloom (e dal narratore esterno che ne esplicita i pensieri più intimi) sin dal cap. 6, quello, appunto, che riguarda la personale “discesa agli Inferi” di Bloom. Ne parlerò più estesamente in un altro post (Joyce, come David Foster Wallace, induce alla logorrea e alla digressione). Certo è che se il romanzo nasce come ri-scrittura moderna (e modernista) dell’Odissea, è pur vero che senza Shakespeare e il costante “agone” con il modello shakespeariano probabilmente Ulysses non sarebbe il romanzo (anti-romanzo) che è. Come spiega bene Harold Bloom, la cosiddetta “angoscia dell’influenza” (o “the anxiety of influnce”) può essere estremamente produttiva: Joyce ha studiato l’intero canone occidentale; si è confrontato con Omero e Dante e Goethe e Sterne; ma è solo con Shakespeare che si ferma a riflettere in modo così esplicito; lo rilegge, lo emula, lo ammira, ne resta forse schiacciato, e il fantasma del Bardo non lo abbandonerà più, fino a Finnegans Wake.


P.S.: il fatto che il Bardo faccia la sua apparizione più estesa e diretta all’interno di una biblioteca non può essere ovviamente un fatto puramente casuale. Stephen e i suoi compagni sono circondati dai libri della biblioteca, dalle riviste specializzate, dai giornali e dalla carta stampata del momento; ma l’argomento di discussione che richiama e accende e mantiene viva l’attenzione degli astanti è sempre e solo lui… (anche se appaiono velate allusioni o citazioni dal Don Giovanni di Mozart & Da Ponte, dal Wilhelm Meister di Goethe, dalla Bibbia et alii... et cetera et cetera...)

Certe scoperte



Che poi certe volte bisogna staccare e avere il coraggio di smetterla di lavorare tanto, il lavoro nobilita quello per cui sgobbi dalla mattina alla sera (e se sei uno di quelli che lavora in proprio, beh, allora non nobilita nessuno, abbrutisce e imbastardisce come poche cose in questa vita).

E allora uno prende coraggio e chiama il suo miglior amico, Roby si chiama (come tutti i migliori amici), e andiamo in piscina (a Palombara Sabina - nemmeno sapevo esistesse un posto simile, nel Lazio), è Martedì e, quindi, in teoria, c'è poca gente e lo spazio è ricco di vegetazione, ci sono interi prati a nostra completa disposizione, e alberi sotto cui ripararsi dal solleone, e godersi anche un poco di ombra, che cribbio!

Troppo sole fa male. E così, io e Roby ci mettiamo a parlare del più e del meno, della vita e della morte, delle rispettive compagne per la vita (lui la sua l'ha sposata ben 9 anni fa, io la mia la frequento da quasi 1 anno e già si parla di matrimonio, senza imbarazzi, senza paure, senza angoscia, una cosa strana, fantastica, quasi inverosimile, e invece, per me, stavolta è così, non ho paura) e della Roma e della Lazio e della nazionale che perde ai rigori contro la Spagna (ingiustamente, aggiungiamo in coro, entrambi) e degli ospedali e degli infarti che possono colpire chiunque si trovi a camminare sotto il sole, e delle fanciulle che ci stanno a fianco, due belle ragazze romane de Roma che quando parlano sembrano sempre scazzate, arrabbiate col mondo, avranno sì e no 19 anni, ma sembrano donne vissute, che hanno già visto tutto, già sperimentato tutto, già bevuto di tutto, già fumato, anche, di tutto...

Ma noi siamo troppo vecchi per loro; Roby ha i capelli brizzolati, io tra poco avrò la gobba, insomma, meglio starcene per i fatti nostri, molto meglio stare fermi, non agire, non smuovere le acque, ti va di fare un tuffo? Ho detto: "Non smuovere le acque", e vabbè, tanto poi alla fine l'istinto è quello, siamo cacciatori, in cerca di prede...

Roby si tuffa, io mangio un panino col prosciutto cotto. Una delle due fanciulle parla con la mamma: "Sì, a ma, t'ho detto che tornamo presto, nun te preoccupà! Nun me scoccià!".

E poi uno decide di farsi un caffè a casa, con la schiena scottata dal troppo sole (mica ci hai una crema?) e decide anche di restare a cena, daglie, nun te fa pregà, aspettamo Mery e poi se magnamo quarcosa e poi te ne vai affanculo!

Roby è un romano de Roma di quelli della vecchia guardia: ti offre pure la casa, se vuoi, ma poi ... "vedi d'annattene affanterculo!"...

E così gli chiedo se posso guardare le email (impossibile per certe persone staccare dal lavoro, maledetto lavoro) e a Roby si illuminano gli occhi, non poi sape che ho sgamato su un sito porno, ce stanno le chat, apri la chat!

Acconsento, cos'altro posso fare? Roby è il mio migliore amico e non gli si può certo dire di no. Entriamo in un altro mondo, un universo fatto di coppie esibizioniste che amano farsi vedere mentre fanno l'amore (amore?) e di donne sole mentre si toccano (si toccano?) e di uomini soli intenti a guardare coppie che fanno l'amore (amore?) e donne che si toccano (toccano?). Non avevo mai frequentato una chat di questo tipo, ma ne sono contento, non mi scandalizzano certe cose, non sono un puritano né un falso puritano - come tanti italiani - e così guardo e osservo e interagisco...

C'è Lucia che si sta spogliando e ride e chiede nel gruppo (nel gruppo?) se c'è qualcuno che fa il dottore, avrebbe bisogno di qualche consiglio per la pelle, ha la schiena tutta rossa, oggi ha preso troppo sole...

C'è Stellina81, che sembra davvero giovane, ma il trucco l'invecchia. Sorride a cani e porci, giocando con un orsacchiotto di peluche che fa una tristezza che nemmeno Giobbe quando fu punito da Dio ingiustamente, o meglio, solo per metterne alla prova il carattere e temprarlo lungo il cammino della fede (Dio mio, mio Dio, perché?).

C'è Monika con la "k" che scrive solo in inglese e c'è Sara che dice di essere italiana ma poi, se le diciamo "che bella, complimenti", risponde: "English only" (e Roby dice che si auto-definiscono "italiane" solo per attirare più spettatori o clienti, si vede che dire "italiana" eccita le menti degli utenti - menti? Utenti? Menti degli utenti?).

E poi c'è una tipa molto atletica e dai capelli corti rossi rossi, quasi rasati... Un seno piccolino, ma ben fatto, una pancina pronunciata, ma piacevole, un sorriso accattivante, ma davvero molto, che scrive agli utenti titillando la loro fantasia (le loro menti?) e intanto balla, si muove al ritmo di una canzone che - lì per lì - mi pare di avere già ascoltato, è una canzone bellissima, dal ritmo quasi ipnotico, e allora Roby si accorge che mi sono imbambolato, aho, daglie, diglie quarcosa, daglie, prima che torna mi moje, sinnò poi che glie dimo a Mery? 

E mi viene spontaneo chiederle: "Nice song, whose song is this?", e lei - Nina78 - mi risponde, dopo aver risposto ad altri 100 utenti arrapati: "Maybe you are" del cantante ebreo Asaf Avidan, e io vado subito su Youtube per mettere quella stessa canzone che lei sta ballando in quello stesso momento per uso e consumo dei suoi molti clienti (clienti?) o utenti (utenti?) e le due colonne sonore a un certo punto si mescolano, lei balla, io e Roby ascoltiamo la canzone di Asaf Avidan, apprezzando la bravura di Nina78 nel portare il tempo della canzone stessa...

Che razza di scoperte si fanno su internet, ai giorni d'oggi... Roby mi dice di cambiare canale, daglie, Nina78 ha quasi rotto, balla solamente, daglie, cambia, metti Stellina81, e io non gli do retta, scrivo: "Thank you, Nina78, you have a very good musical taste" (ormai il mio inglese è penoso, altro che "basic") e lei mi manda un emoticon, un sorriso enorme, per un po' ha anche smesso di ballare, e sorride, sorride in primo piano e anche a me viene un po' da sorridere, per la situazione in sé, per Roby e Mery che sta per tornare da lavoro, per le centinaia di utenti che sono collegati con Nina78 per vederle le tette o godersela mentre si masturba, ignari del fatto che quella splendida canzone che ne accompagna le movenze s'intitola "Maybe you are" ed è una canzone di Asaf Avidan...

Che razza di mondo, che vita di merda, che scoperte assurde si fanno in questa terra abitata da gente così strana, c'è chi si scotta la schiena per troppo sole preso al mare (o in piscina), chi gode facendosi vedere in web-cam da perfetti sconosciuti e chi - come me - approfitta di un consiglio di un amico per rubare una canzone di Asaf Avidan a una spogliarellista (cam-girl?) che risponde al fantomatico nick-name di Nina78...

Letture pasquali Provo a leggere, in queste vacanze pasquali, tra una corsa in bicicletta in alta montagna e le mangiate assurde previste da...