jueves, enero 31, 2013


T. S. Eliot’s Four Quartets, musica per la mente e poesia (metafisica) che si nutre di dubbi…


Non sono un lettore accanito di poesia; diciamo pure (subito) che non leggo quasi (mai) poesia e che il genere che preferisco è la narrativa, in particolare, il romanzo. E però… quando mi capita di leggere (o di ri-leggere) i miei poeti favoriti (Shakespeare, Luis Cernuda, Pier Paolo Pasolini e pochi altri) ecco che mi sorprendo a stupirmi di fronte alla sfuggevolezza del significato quand’esso è incastrato o abilmente infilato all’interno di significanti disposti in versi…T. S. Eliot è un altro di quei poeti che non mi stanco di ri-leggere, proprio perché non lo capisco bene fino in fondo e perché la sua poesia è piena di riferimenti nascosti, di significati misteriosi, di rimandi a cose che non so decifrare. All’interno dell’opera eliotiana, i Four Quartets (Quattro quartetti) occupano senz’ombra di dubbio una posizione strategica, sia perché sono l’ultima prova importante dell’autore sia perché coronano quel percorso accidentato e pieno di domande che conduce Eliot verso la conversione alla religione cristiana (per cui, il lettore attento si rende conto di come cambia il “pensiero” del poeta dalla visione apocalittica e indelebilmente pessimista di The Waste Land (La terra desolata) e di The Hollow Men (Gli uomini vuoti) alla visione critica e “dubbiosa” di Ash Wednesday (Il mercoledì delle ceneri) fino a quella “convertita” e apparentemente risolta e pacificata dei Four Quartets succitati (l’arco temporale spazia dal 1922, annus mirabilis perché in quello stesso periodo uscirono Ulysses di Joyce e il primo vol. della Recherche proustiana, se non erro e non ricordo male, fino al 1942, l’anno in cui uscì Little Gidding, che è l’ultimo dei quattro quartetti dopo, nell’ordine, Burnt Norton – del 1936 – East Coker – del 40 – e Dry Salvages – del 41).

Se dico che la visione di T. S. Eliot diventa “risolta” e “pacificata” solo apparentemente è perché – credo – anche i Four Quartets si nutrono di dubbi, al di là della fede in Dio o in una giustizia divina che punirà i malvagi e premierà i buoni di cuore. In tutti e quattro i lunghi componimenti, sembra come se Eliot si sforzasse di credere in un ordine superiore e divino, ma è come se non ci riuscisse fino in fondo e hai voglia a citare il Paradiso dantesco, il poeta americano si sporge sull’abisso, si pone domande esistenziali sui limiti umani, costruisce a grandi linee una metafisica del “perdono” e dell’ “umiltà”, ma, alla fine, sembra non dare credito lui per primo alle visioni celestiali che dovrebbero attenderci di là, una volta scampati all’Inferno e ai demoni delle tentazioni…

Uno dei problemi metafisici più complicati che Eliot sviluppa all’interno di tutti e quattro i quartetti è il tempo. Lo si può intuire da subito, basta leggere le due epigrafi in greco tratte da Eraclito, il filosofo del pantha rei, del “tutto scorre” (ovvero, del tempo come una freccia: non ci può bagnare due volte dentro l’acqua dello stesso fiume). E come comincia Burnt Norton? Con una serie di aforismi che fanno venire il capogiro, se uno si ferma a sviscerare i singoli versi…

Time present and time past
Are both perhaps present in time future,
And time future contained in time past.

Sembra proprio uno scioglilingua, più che un aforisma smontato e rimontato in versi:

Tempo presente e tempo passato
Sono forse entrambi presenti nel tempo futuro,
e il tempo futuro è contenuto nel tempo passato.

Se è vero che ci è possibile intuire che sia il passato sia il presente sono entrambi presenti nel futuro (confluiscono verso il tempo futuro, anche perché noi siamo fatti di tempo che si proietta costantemente verso il tempo futuro, io sono il “progetto di me” in vista di quello che farò o penserò di fare domani o fra un anno), diventa piuttosto difficile (per non dire impossibile) capire il terzo verso: che diavolo significa che il tempo futuro è “contenuto” dentro il tempo passato? Come fa il futuro a stare anche dentro al passato? Lascio aperta la domanda (e trovo questa possibile o plausibile piccola risposta: anche quando eravamo passato proiettavamo il nostro tempo presente di allora verso il futuro…).

Ecco come continua la prima strofa della prima parte del primo quartetto:

If all time is eternally present
All time is unredeemable.

Ovvero:

Se tutto il tempo è eternamente presente
Allora tutto il tempo è irredimibile.

E qui la cosa si complica per la semplice presenza di un aggettivo legato al verbo (ultra-connotato) “redimire”: si redimono i peccati, il Dio cristiano, in particolare, si è fatto uomo ed è sceso sulla Terra per “redimire” i peccati dell’uomo… Solo che qui Eliot sta indossando i panni del filosofo, più che le vesti del prete: “Se tutto il tempo è eternamente presente, se si vive in un eterno “tutto scorre”, allora si vive in un tempo e si vive una vita che non si possono redimere”… Insomma, il tempo non può essere eterno presente, il presente deve avere un senso, nel senso anche di “direzione”, ovvero: deve andare verso qualche altro tempo, un tempo altro dal presente, quale? Quello dell’eternità così come ce lo racconta la Bibbia? L’eternità è assenza di tempo, anche perché, nell’eternità, e se crediamo alla buona novella, il tempo scompare, e tutti siamo redenti… se crediamo e abbiamo fatto il Bene…

E subito dopo Eliot torna a filosofeggiare:

What might have been is an abstraction
Remaining a perpetual possibility
Only in a world of speculation.

Che possiamo tradurre così:

Ciò che avrebbe potuto essere è un’astrazione
Che resta una perpetua possibilità
Solo in un mondo di speculazione.

E qui – a quanto capisco – mi sembra che Eliot stia criticando sottilmente i sofisti e i filosofi che si nutrono di speculazione, che costruiscono interi universi basandosi sul “se” o sul “come se” kantiano: “come sarebbe stata la mia vita se, invece che A, avessi scelto B”…
Ecco dunque la sua versione dei fatti: bando alle ciance, bando ai filosofemi, bando ai tanti “se” che non portano a nulla:

What might have been and what has been
Point to one end, which is always present.

L’affermazione è contundente, netta, decisa, non lascia adito ai tanti dubbi sollevati dai versi precedenti:

Ciò che avrebbe potuto essere e ciò che è stato
Mirano a un solo fine, che è sempre presente.

E qui il verbo “to point to” fa davvero la differenza: mirare, puntare, indicare, segnalare, questo verbo – come fanno i segnali autostradali – guida ogni “come se”, ogni “possibilità” o “ipotesi” non realizzata verso un destino preciso, netto, su cui non si può dubitare: l’eterno presente, ciò che è sempre presente (e uno può anche tranquillamente pensare – in questo contesto – a colui che è sempre presente, l’Onnipresente, Dio stesso). Poi il componimento prende un’altra piega; Eliot abbandona la riflessione sul tempo per entrare di colpo in un ambito diverso, quello delle immagini (e lui è bravissimo a creare poesia a partire dalle immagini, sensoriali, tattili, visive, o uditive – non è un caso se i Four Quartets si chiamano così, il riferimento all’udito, alla musica, oltre che alla musicalità – dei versi, delle rime, delle assonanze interne e dei parallelismi, insomma, della poesia tout court – è voluto, auspicato e perseguito sin dal titolo dell’opera):

Footfalls echo in the memory
Down the passage which we did not take
Towards the door we never opened
Into the rose-garden. My words echo
Thus, in your mind.

Non è facile tradurre questi versi; questa è la mia versione:

Eco di passi nella memoria
Verso il passaggio che non prendemmo
Verso la porta che non aprimmo
Nel giardino delle rose. Le mie parole fanno eco
Dunque nella tua mente.

Il tema del tempo viene qui esplicitato attraverso varie metafore: la memoria come un passaggio (una strada, un corridoio, un cammino) che non abbiamo percorso; come uno spazio in cui risuona l’eco dei passi (in questo senso Eliot sposa il punto di vista di molti filosofi ed esperti in materia – a partire da Sant’Agostino – secondo i quali il tempo è sempre spazio che si ricorda o si evoca, tendendo l’essere umano a “spazializzare” costantemente il tempo stesso); memoria del passato come ricordo di quella scelta (proprio quella) che abbiamo scartato e dimenticato: qui questa scelta è indicata dal “correlativo oggettivo” della porta che non aprimmo (verso dove? Che cosa c’era dietro quella porta? Quante volte ci chiediamo: e se avessi varcato quella soglia? Insomma, quel “regno delle possibilità” più sopra criticato torna qui a farsi sentire – e vedere – con la potenza delle immagini; Sliding doors, come nell’omonimo film, Eliot ci fa venire in mente – con pochi versi – tutte quelle volte in cui abbiamo preso una strada piuttosto che l’altra, abbiamo aperto (o chiuso) una porta piuttosto che l’altra…). In realtà, qui la porta non aperta introduce in un luogo preciso: il “rose-garden”, il giardino delle rose… E chissà a quale giardino concreto stava pensando il poeta? Ma non è pure il Paradiso un giardino? Ci sono le rose nel Paradiso? Non era per caso per Dante – e secondo la sua visione medievale delle cose – la Rosa il simbolo dell’Empireo?
“Le mie parole dunque – ma anche “perciò”, “quindi” – fanno eco nella tua mente”. E qui il limite tra citazione e espressione dei propri stati d’animo si fa sottile: a chi si sta riferendo il poeta dicendo “your”? Di chi è la mente a cui si riferisce? In quale mente riecheggiano le parole di Eliot? Nella “mia” di lettore? In quella di una donna amata in passato?

Ecco: qui capisco una cosa, e cioè che la poesia è “sempre” eco delle parole di un altro; parole che riecheggiano anche a lettura completata; parole che evocano paesaggi, passaggi, momenti che non ricordiamo, o che non credevamo potessimo ancora ricordare…

The Four Quartets, in tal senso, è poesia allo stato puro…


domingo, enero 13, 2013


David Lynch si perde (e noi con lui) e tutto ciò è meraviglioso




Se qualcuno mi chiedesse qual è il mio regista preferito (è successo di recente, a Madrid, mentre aspettavo un aereo per andare ad Alicante), risponderei nel seguente modo: a) Orson Welles, perché a 24 anni (o giù di lì) ha rivoluzionato il linguaggio cinematografico inventandosi un capolavoro immenso e spericolato come Citizen Kane (“Quarto potere”); b) Francis Ford Coppola, perché con Apocalypse Now (forse il mio film preferito) non solo ha saputo trasporre in immagini gli incubi che Joseph Conrad ci racconta dalla penombra con la voce di Marlow in Heart of Darkness, ma è riuscito anche come pochi altri a descrivere l’orrore della guerra, la follia insita in ogni impresa guerresca; c) Stanley Kubrick, perché con 2001: A Space Odyssey (e tutti gli altri suoi film) ci fa viaggiare verso l’infinito (e oltre); d) Woody Allen, perché anche se sforna film come fossero panini, riesce sempre a strapparci un sorriso – e questo non ha prezzo (cfr. la scena in cui la sorella del protagonista di Mariti e mogli confessa al fratello e tra le lacrime che il suo ultimo amante temporaneo voleva farle la cacca… sulla pancia); e) Ingmar Bergman, perché come lui sono pochi i registi che sanno usare così bene il primo piano (cfr. Sussuri e grida o Persona) e come lui nessuno sa fare meglio e con maggiore eleganza la radiografia dei rapporti di coppia (cfr. l’horror domestico Scene da un matrimonio); infine, f) David Lynch, perché è il regista più folle, geniale, anormale, spiazzante, coinvolgente e paranoico che ci sia (cfr. il suo primo lungometraggio Eraserhead – La mente che cancella, del 1977, un film che ancora oggi mi fa paura, fa venire la nausea, il mal di testa, le vertigini, e di sicuro ancora oggi mi sentirei di vietarlo alle donne in stato interessante – chi lo ha visto sa a cosa mi riferisco).

Insomma, in sintesi e in soldoni, non ho un regista preferito, ma se devo scegliere su quello più affascinante proprio perché non riesco a decifrarlo e mi spiazza sempre, ebbene, costui è l’unico, l’inimitabile David Lynch (uno dei pochi registi il cui cognome è diventato anche un aggettivo: “lynchiano” come sinonimo, appunto, di strano, grottesco, violento, angosciante, inquietante, etc. etc. – e sono davvero pochi i registi che hanno questo privilegio – anche se i nostrani non se la cavano male, si pensi a Pasolini, Fellini, Rossellini, Moretti…).

Da Minimun Fax è uscita di recente una raccolta d’interviste dal significativo titolo: David Lynch. Perdersi è meraviglioso, ovvero, un’occasione d’oro per avvicinarsi al mondo lynchiano e cercare di capirci qualcosa.

In realtà, il libro è uno spassoso campionario dei tentativi falliti da parte dei vari intervistatori di carpire la natura del regista e del senso dei suoi film. Una costante invariabile, nel corso degli anni, è proprio questa sorta di auto-censura di Lynch quando si tratta di “aprirsi” o di “condividere” col pubblico il suo mondo interiore. Guai al giornalista che osi chiedergli “che cosa signfica” o “che cosa ha voluto dire” con quel particolare film o in quella particolare inquadratura: la risposta di Lynch sarà sempre la stessa, lui non lo sa, e non vuole spiegare i film, ciò che conta per lui è l’atmosfera, e il senso di mistero che aleggia in molte di quelle “atmosfere” che tutti noi (spettatori) riconosciamo al volo come “lynchiane”…

I film non devono trasmettere un messaggio (unico e univoco), ma coinvolgere lo spettatore fino a fargli vivere un’altra vita, quella proiettata sullo schermo che il regista ha inventato per lui (bellissima la battuta di Lynch in una delle ultime interviste: “Sarebbe fantastico che gli spettatori dei nostri film avessero il desiderio di rivedere i film che facciamo, di rivevere più volte dentro gli universi di quei film”, cito non verbatim e al volo).

Fa quasi tenerezza, Lynch, quando ci svela che, tra i classici della letteratura, apprezza molto Franz Kafka; e ci colpisce, quando ci dice che adora Kubrick, ma anche Bergman e il Federico Fellini di 8 e ½, ma anche Billy Wilder (per il suo Viale del tramonto) e Jacques Tati… Ci fa sorridere, quando compara il sesso (un altro grande mistero) al jazz, perché è la stessa melodia ma basata su un sacco di variazioni; e ci fa riflettere, quando tenta di spiegare al giornalista di turno perché anche il corpo umano è un mistero insondabile (anche se la scienza ci ha apparentemente spiegato tutto). E fa di nuovo tenerezza, quando parla di quelle fasi della sua vita in cui ha perso il favore del pubblico e si è trovato costretto a fermarsi e a fare i conti con se stesso e con la sua arte (dopo i favolosi flop di Dune e di Fuoco cammina con me). E’ qui che ci rendiamo conto che, al di là dell’immagine che vuole offrire di sé, Lynch è un brav’uomo, un americano come tanti che crede (ancora) fermamente nella capacità che ha l’uomo di creare (dal niente) un qualcosa di nuovo e di originale (non è un caso, dunque, che, oltre che regista, Lynch sia anche pittore, musicista, cantante, scultore e… inventore di mobili! Uno più strano e inutilizzabile dell’altro, sia detto per inciso).

Ripenso – leggendo – a tutte le volte che ho avuto paura, guardando un film di Lynch, e a tutte le volte che ho riso, o che mi sono commosso fin quasi al pianto, a tutte le volte che ho sobbalzato dalla sedia, guardando Velluto blu o Mulholland Drive, Inland Empire o The Elephant Man, e poi sottolineo questa frase:

“E sono davvero grato che esistano i segreti e i misteri, perché danno l’impulso alla scoperta e all’esplorazione. E spero, in un certo senso, di non ottenere mai una risposta completa, a meno che questa non sia accompagnata da un’incredibile euforia. Adoro addentrarmi nei misteri”.

E così noi, spettatori e fan di Lynch, adoriamo addentrarci nei suoi universi senza ottenere mai una risposta completa… perché perdersi (al cinema) è (davvero) meraviglioso, quando dietro la cinepresa c’è un pazzo come lui…

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...