martes, diciembre 31, 2013

I libri di Natale

Dal 21 di Dicembre sono cominciate le vacanze; torno in Italia e mi lascio sorprendere da un pacco postale che ho ordinato io stesso via internet dalla Spagna. E' il pacco degli auto-regali, ovvero, dei libri che mi sono auto-regalato e che tenterò di leggere (per intero) entro il 6 di Gennaio.

1) Umberto Eco, "Scritti sul pensiero medievale" (Milano, Bompiani, 2012): perché il Medio Evo è una di quelle epoche storiche che mi hanno sempre affascinato e attratto (anche se poi, all'esame di Storia Medievale, presi solo un 25 - i Normanni e Federico II si sono rivelati ben più ostici di quanto andavo pensando prima di sedermi davanti alla prof.);

2) Sandro Veronesi, "Viaggi e viaggetti. Finché il cuore non è contento" (Milano, Bompiani, 2013): perché io di questo autore leggerò tutto; anche se so già che non si tratta di un capolavoro ("ni mucho menos") e anche se so già che non si tratta di uno dei suoi romanzi. E' che ci sono scrittori che uno impara a conoscere da ragazzo e che poi seguirà anche in futuro, anche nelle prove più "scadenti" o "passabili". Certo è che con Veronesi io non mi annoio mai... E forse non mi annoierò nemmeno leggendo questa raccolta di pezzi di diario dei suoi viaggi per il mondo;

3) Vladimir Nabokov, "Un mondo sinistro" (Milano, Adelphi, 2013): perché non si può inaugurare un nuovo anno senza una nuova traduzione di un libro di Nabokov; questo viene accostato a "Invito a una decapitazione" (bellissimo e ferocissimo) e al "1984" di George Orwell. Insomma, si tratta di un romanzo "distopico" e tra i più "politicizzati" dell'a-politico autore russo. Non vedo l'ora di godermelo davanti al fuoco del camino;

4) Geoff Dyer, "In cerca" (Roma, Instar, 1996): perché Dyer è uno scrittore che non delude mai e che, anzi, al contrario, sorprende sempre. Lo scoprii per il saggio-romanzesco (o per il romanzo-saggistico) "L'infinito istante" (sulla fotografia) e lo apprezzai per "Natura morta con custodia di sax. Storie di jazz" (sulla musica jazz). In questo caso parliamo di un "thriller" o "poliziesco" che sfrutta tutti i "topoi" del caso per smantellare il genere. Intanto, aspetto la traduzione del suo ultimo romanzo-saggistico o saggio-romanzesco che s'intitola "Zona: A Book About A Film About A Journey To A Room" (sul film "Stalker" di Andreij Tarkowskij);

5) John Cheever, "Cronache dalla famiglia Wapshot" (Milano, Feltrinelli, 2013): perché Cheever lo conosco come fosse un amico dai suoi incredibili "Diari" e avevo davvero voglia di vederlo all'opera (o in azione) nel campo del romanzo. Philip Roth lo considera come uno degli scrittori americani più bravi e "onesti" di tutti i tempi. Cheever considerava Roth un "fuori-classe". E quando venne a fare una vacanza a Roma e si mise a leggere Nabokov si sentì una cacchetta, rispetto alle abilità romanzesche del russo. Staremo a vedere.

Intanto, apprestiamoci a festeggiare la fine di un 2013 che è stato per me foriero di tanti cambiamenti e avventure e disavventure. Uno degli anni più folli e travolgenti della mia vita...

jueves, diciembre 19, 2013

Una video-chiamata (del 1968)

E poi, riguardando per bene quel capolavoro della storia del cinema che è 2001: A Space Odissey di Stanley Kubrick, uno si accorge di un piccolo dettaglio, una breve scena della durata di 2 minuti e 25 secondi, una specie di siparietto in cui un'ingegnere aerospaziale sta viaggiando in direzione Giove (o Saturno) e, all'improvviso, avverte il bisogno di fare una chiamata a casa, in realtà, una "video-chiamata", di quelle che facciamo tutti, oggi, nel 2013, via Skype, quando parli a distanza anche di migliaia di kilometri e vedi chi ti sta davanti, e così fa l'ingegnere aerospaziale del film di Kubrick, entra in una specie di stanzetta o cabina pseudo-telefonica, usa la tastiera per digitare il numero di telefono e si pone in contatto con sua figlia, una bambina piccola di circa 5 o 6 anni che gli risponde e che gli fa capire che è arrabbiata perché per colpa del lavoro, in viaggio nello spazio, lontano migliaia di kilometri da casa, non potrà andare al suo compleanno, la bimba gli dice che vorrebbe una "scimmietta" come regalo (e chi ha visto il film sa benissimo che importanza hanno le scimmie in 2001: Odissea nello spazio) e il papà le risponde con una risata che va bene, che le farà il regalino, è una promessa, e la figlia ride, si sente più tranquilla, farà la brava, avviserà la mamma della chiamata (o video-chiamata), e solo dopo qualche secondo uno s'accorge che la stessa è avvenuta grazie all'uso di un pc e di una "web-cam" (benché enorme, rispetto a quelle che poi avremmo costruito dal 1968 in là), una telecamerina posizionata sopra la testa dell'utente, un'attrezzo che oggi tutti "consumiamo" giornalmente, ma che, se pensiamo al momento in cui Kubrick gira il film, fa venire i brividi, Kubrick anticipa di parecchi anni l'uso quotidiano (oserei dire anche "banale") della stessa "web-cam", parte ormai integrante (e fondamentale) dei computer e permette al suo attore di chiacchierare con la figlioletta, e non solo, fa anche un'altra cosa: la bimba che parla è sua figlia, che nel periodo in cui il padre sta girando quel capolavoro della storia del cinema che è 2001: A Space Odissey si sente trascurata e un po' messa da parte per colpa del troppo lavoro, e allora il padre si scusa, le chiede scusa facendola partecipare alla lavorazione del film, la figlia entra dentro lo schermo cinematografico in quanto figlia che si sente bistrattata, e il grande e geniale Kubrick le chiede scusa attraverso le parole dell'attore che fa l'ingegnere aerospaziale e a uno viene in mente anche questa ipotesi: "la bimba chiede una scimmietta come regalo e, forse, il padre l'accontenta, le regalerà una scimmietta, magari dopo averle mostrato anche i vari scimmioni che popolano la prima parte del film, qualcuno deve esser rimasto sul set del film, la realtà che entre dentro la finzione, la finzione che diventa il luogo ideale, perfetto, in cui chiedere venia a una figlia che mal sopporta che il padre si dimentichi di lei per il troppo lavoro, una scenetta familiare ambientata in un futuro - il 2001 - che noi abbiamo già sorpassato da ben 12 anni, quasi 13, essendo figli di questo 2013 che volge al termine - in cui le "web-cam" non sono più così grandi come quella che Kubrick monta sopra la testa del personaggio, ma svolgono comunque la funzione che Kubrick attribuisce loro in questi brevi frammenti di un film di fantascienza...Semplicemente impressionante (e che ironia darci il totale: chissà a quanti soldi corrisponderebbero oggi quei dollari spesi per la video-chiamata...)".





miércoles, diciembre 18, 2013

Incubi


Incubi. Mi affascinano gli incubi. Non a caso sono un fan di un fumetto dell’orrore come Dylan Dog (che, di mestiere, come tutti sanno, fa “l’indagatore dell’incubo” – ciò non toglie che, a volte, gli incubi facciano tremendamente paura anche a lui). Ultimamente, però, ne faccio troppi e troppo strambi, incubi atroci o sogni grotteschi che poi mi fanno stare male tutto il giorno, mi riducono a uno zombie, mi fanno camminare a passo lento e spento, mi spingono a riflettere su temi scottanti come la Morte, la Paura, il Suicidio, l’Eutanasia, la Violenza, l’Apocalisse, la Perdita Improvvisa dell’Identità… Insomma, temi che non ti lasciano respirare sereno e tranquillo.

L’altro aspetto inquietante è che questi incubi si ripetono: a volte con piccole variazioni, altre con aggiunte che vengono dalla notte precedente, altre ancora con cambi di ruoli e di personaggi basati su persone che conosco nel piano della realtà.

In uno di questi incubi ricorrenti faccio l’amore con la mia ex. Il set cambia velocemente: da Firenze, passiamo a Roma (una stanza d’hotel di lusso), poi al ridente paesello sui monti abruzzesi in cui sono nato (un prato fiorito in un bosco), infine a Salerno (il vecchio attico – o mansarda – in cui ho vissuto per un anno e mezzo). All’improvviso, entra in camera un essere mostruoso, una specie di oca gigantesca (o struzzo o papero) che mi afferra per la gola e tenta di cavarmi gli occhi con il becco.

In un altro incubo, invece, vengo rapito da un macellaio, un tipo all’apparenza bonario, con barba e pochi capelli sulla testa. In perfetto stile Hostel, il macellaio mi immobilizza su una sedia metallica con manette e corde strette e mi impianta dei bottoni sui polsi, facendomi sanguinare fino allo svenimento (questa scena mi ricorda, inevitabilmente, quella biblica di Gesù appeso sulla croce: sento ancora il fastidioso rumore della carne che si rompe sotto i colpi dei chiodi sul palmo delle mani).

Nell’incubo più recente, invece, cammino da solo per strada in una Roma stranamente deserta. M’inerpico su Via delle Quattro Fontane, sbuco su Via Nazionale, decido di andare fino a Largo Argentina per prendere il 64 e arrivare fino a San Pietro, quando, sempre senza previo avviso, dal cielo luminoso della capitale iniziano a cadere pezzi di metallo acuminati e ruote giganti. Ci vuole un minuto per capire che sono pezzi e ruote d’aereo. Dal cielo piovono aerei che vanno a schiantarsi sui monumenti più famosi e sui palazzi più alti (in perfetto stile “11 Settembre”). Il rumore degli schianti fa venire i brividi. Non so come riesco a non urlare e chiamo mio fratello da una cabina telefonica (solo nei sogni esistono ancora questi attrezzi ormai estinti per colpa dei cellulari) e lui mi conferma che anche a La Habana stanno piovendo aerei dal cielo. La cosa più brutta di tutte è sentire il rumore da Formula 1 prodotto dalle ruote giganti che ti sfiorano le orecchie (o il corpo). Basta poco e si viene ridotti in poltiglia (come succede a qualche sventurato pedone che attraversa la strada prima di me).

C’ho riflettuto a lungo e alla fine ho capito che, almeno quest’ultimo incubo, deriva, in parte, dalla visione (recente) di uno dei film sugli zombie più originali che abbia mai visto negli ultimi vent’anni, e cioè, da Juan de los muertos (2011) di Alejandro Brugués, uno dei primi film di zombie ambientato a Cuba (ecco perché parlo per telefono con mio fratello da La Habana).

Provo a riflettere anche sugli altri 2 o a mettere in relazione tutti e 3 gli incubi con le mie esperienze degli ultimi mesi e…non trovo un filo comune…


Una cosa sì è certa: i protagonisti a volte cambiano faccia (il macellaio può benissimo diventare il padre della mia ex, ovvero, il mio ex-suocero; il papero gigante può trasformarsi in uno dei miei più cari prof dei tempi dell’Università; la telefonata posso farla tranquillamente a Mosca, invece che a Cuba; etc. etc.), la paura che provocano questi incubi resta la stessa (anzi, a volte aumenta: perché quando s’apre il set, intuisco e capisco già cosa m’aspetta, so già in quale incubo sono finito).

martes, diciembre 10, 2013

Androidi e umani (ancora su Ma gli androidi sognano pecore elettriche?)



Stamattina l’ho finito e la prima cosa che ho pensato è stata la seguente: “Ma dove diavolo è finito il famoso monologo finale di Roy Baty, quell’androide impersonato al cinema da Rutger Hauer? Quello più feroce e, al contempo, più filosofico del grupo degli androidi cui da la caccia Rick Deckard? Quel monologo che comincia con la famosa frase (entrata ormai nell’immaginario collettivo – la sanno tutti, anche quelli che non hanno mai visto Blade Runner): ‘Io ho visto cose che voi umani non potreste nemmeno immaginare, navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni d’Orione’…” e finisce con la frase dal tono shakespeariano: ‘È tempo di morire’”? Risposta: “Non c’è, Philip Dick non ha mai scritto quel monologo, dunque, deve essere per forza di cose frutto del regista Ridley Scott – e dei suoi sceneggiatori –, non c’è altra spiegazione”.

E qui ti viene da pensare come, a volte, il regista sia davvero bravo non solo a trasferire in immagini i contenuti di un romanzo (operazione per niente facile né scontata), ma anche a ricrearne lo stesso spirito, perché – è evidente a chiunque abbia letto Ma gli androidi sognano pecore elettriche? – quelle frasi, in quel monologo, sono perfette se messe in bocca a uno come Roy Baty, sono lo specchio dei suoi ragionamenti straniati e l’occasione perfetta per riflettere su cosa pensano le macchine (create dall’uomo), se davvero arriveranno un giorno a pensare (pensiero oscuro e che mette i brividi).

E poi c’è la scena di sesso (nel film mai esplicita) tra il cacciatore di taglie e l’androide donna: Rick finisce a letto con Rachael sapendo che così sta trasgredendo la legge, non bisogna mai “mischiarsi” con le macchine, si rischia di confondere le parti in gioco… È una scena davvero bella, anche perché sviluppata tutta per ellissi. Rick accetta di cedere alla tentazione, ben sapendo che in quel modo sta tradendo sia sua moglie sia il codice morale della società post-bellica in cui è costretto a vivere…

“Amore è solo un altro nome del sesso”, dice Rachael (o Rick, ora non ricordo più bene), e forse ha ragione.

Questo spiegherebbe anche la gelosia dell’androide quando, tornato a casa, Rick trova sua moglie sconvolta sul terrazzo. Rick aveva comprato da poco una capra (anche questa elettrica) e Rachael – ingelosita e quasi per vendetta – si introduce in casa e spinge giù l’animale dall’ultimo piano, davanti agli occhi terrorizzati della moglie di Rick.

Ecco un altro aspetto affascinante e perturbante del romanzo: la San Francisco che riproduce Phil Dick (San Francisco, non Los Angeles, come scrivevo nel post precedente) è una città devastata dalla polvere radioattiva, dove le scorie, gli scarti, i rifiuti occupano la scena principale. Eppure, anche in queste condizioni, l’essere umano tenta di sopravvivere, di lottare, di diffondere la vita.

In tal senso, la voglia di allevare animali è il simbolo (e il sintomo) di un’umanità che ancora ha delle speranze. Peccato che questi animali siano (spesso) riproduzioni perfette, ma artificiali, degli animali veri.

Ecco allora l’importanza della scena finale: Rick, esausto dopo la caccia agli androidi, trova per caso quello che sembra l’ultimo rospo rimasto sulla Terra e lo raccoglie con grande emozione e tatto, lo custodisce all’interno di una scatola e lo porta in trofeo da sua moglie. Quel rospo è considerato ormai un animale in via d’estinzione. Rick vi scorge la fonte di una vita vera che ancora pulsa. Peccato che poi sua moglie lo disilluderà per l’ennesima volta.


Philip Dick ci spinge a riflettere su cos’è che ci rende davvero umani anche attraverso un animale così semplice, quotidiano e banale come un rospo… E questo fa del suo romanzo un libro degno d’essere letto (anche se poi non vi ritroviamo il monologo che al cinema ci ha fatto emozionare tanto, quel monologo che termina con le parole: “E tutti questi momento andranno perduti per sempre… È tempo di morire...”).

miércoles, diciembre 04, 2013

Ma gli androidi sognano pecore elettriche?


C’è una scena, all’interno del cap. 12 del romanzo di Philip Dick Do Androids Dream of Electric Sheeps? (1968), che colpisce e resta impressa nella mente del lettore (soprattutto di quel lettore che ha visto quel classico della storia del cinema che è Blade Runner (1982), geniale trasposizione in immagini dello stesso romanzo di Dick ad opera di Ridley Scott), ed è la scena in cui il “cacciatore di taglie” Rick Deckard deve “ritirare” insieme  all’ispettore di polizia Phil Resch la cantante d’opera lirica Luba Luft, una androide in tutto simile ad un essere umano e in quel momento intenta ad ammirare le sale di un museo in cui si espongono i quadri di Edvard Munch.

La situazione asumme tratti drammatici perché Rick non capisce ancora bene se l’ispettore di polizia che lo accompagna è anch’egli un androide. Come molti ricorderanno, il romanzo è ambientato a Los Angeles, nel 1992, quando la Terza Guerra Mondiale ha distrutto in parte il pianeta Terra e ha spinto molti americani ad emigrare su Marte. Tra gli effetti devastanti del conflitto, la permanenza di una polvere sottile che uccide lentamente ogni forma di vita e la presenza di androidi del modelo Nexus-6 che potrebbero mettere a repentaglio la vita degli stessi umani perché molto abili a mimetizzarsi e camuffarsi tra i “normali”.

Philip Dick ci presenta, dunque, un mondo apocalittico in cui la distinzione tra uomo e macchina diventa labile e pericolosamente indecifrabile. In tal senso, sono particolarmente efficaci le scene in cui il narratore ci presenta gli ultimi sopravvissuti intenti a vezzeggiare e nutrire animali domestici come cani e gatti: sulla Terra, gli animali veri sono diventati un lusso, ormai sono tutti frutto di tecnologie modernissime che ne mimetizzano i corpi, i versi, i movimenti (ma sempre di artifici si tratta).

Ci si muove, dunque, in un mondo angosciante in cui il “cacciatore di taglie” Rick Deckard deve agire per il bene dei più, anche quando l’esame cui sottopone i presunti “umanoidi” non dà risultati certi.

È quello che succede nella scena del museo. Luba Luft sta osservando il famoso quadro di Munch intitolato L’urlo e, intanto, risponde alle domande dell’ispettore Resch, insinuando l’ipotesi che anche Resch possa essere un androide, uno di quelli più intelligenti, che si finge polizziotto per incastrare lo stesso Deckard. Mentre contempla il gesto angoscioso del protagonista del quadro, Deckard non fa in tempo a fermare l’ispettore che afferra per il polso Luba, la spinge in un ascensore e la uccide senza pietà con un raggio laser che la fa accasciare a terra, priva di vita. Rick resta scosso da tanta facilità e riflette sul fatto che gli androidi, a differenza degli umani, non provano “empatia”. Non sanno accordarsi allo stato d’animo di chi hanno davanti. L’ispettore Resch, invece, lo tratta con condiscenza e inizia una chiacchierata sui concetti di realismo e di iperrealismo nella pittura di Munch.

Chi ha ragione? Luba Luft, quando avvisa Rick e gli dice di stare attento a Resch perché anche lui è un androide o Resch, quando avvisa Rick e gli dice che deve agire con freddezza se non vuole soccombere all’astuzia degli androidi?

Philip Dick viene considerato come uno scrittore di genere. Ma basta leggere alcuni brani di questo romanzo distopico per capire che è uno scrittore tout court e anche molto bravo.

Basta leggere il cap. 12 con la scena appena ricordata. O anche questa descrizione (dal cap. 2) del palazzone in cui vive John Isidore, un altro personaggio “sperduto”, che percepisce tutto il vuoto che si è creato sulla Terra dopo lo scoppio della guerra:

“Abitava da solo in questo palazzo cieco e sempre più fatiscente, tra mille appartamenti disabitati. Un edificio che, come tutti quelli simili, cadeva di giorno in giorno, in uno stato sempre maggiore di entropia. Con il tempo tutto ciò che c’era nel palazzo si sarebbe fuso – una cosa nell’altra –, avrebbe perso individualità, sarebbe diventato identico a ogni altra cosa, un mero pasticcio di palta ammonticchiato dal pavimento al soffitto di ogni apartamento. E dopo di ciò lo stesso palazzo, senza che nessuno ne curasse la manutenzione, avrebbe raggiunto uno stadio di equilibrio informe, sepolto dall’ubiquità della polvere. Quando ciò si fosse verificato, naturalmente, lui sarebbe stato già morto da un pezzo; ecco un altro interessante argomento su cui meditare, lì in piedi in quel salotto sfatto, solo con l’onnipervasiva assenza di respiro del possente silenzio del mondo” (p. 27).


Ecco una citazione interessante su cui riflettere: una riflessione dal tono quasi biblico sul tempo in quanto “divinità distruttrice” che tutto consuma e livella; una frase dal ritmo musicale che fa pensare a uno scrittore a metà tra Marcel Proust e W. G. Sebald.

lunes, diciembre 02, 2013

Pisa (coi suoi fantasmi)



E così, dopo ben 2 anni d’assenza, torno a Pisa, la città che mi ha visto crescere come studioso e che mi ha accolto come dottorando, per ben 3 anni (vissuti intensamente), quando ancora si era giovani e non si sapeva minimamente che si sarebbe finiti a fare i prof. (o i docenti, o gli insegnanti, o i maestri, che tanto – in molti casi – è uguale, anche se – spesso – cambia lo stipendio e la metodologia da utilizzare in classe, la fauna umana che ci si ritrova davanti o i libri su cui si studia, ma non lo stress, non l’impegno o il sudore che implica un lavoro del genere, usare le parole per convincere, persuadere, informare, smuovere dal torpore dei ragionamenti della società del momento, etc.).

Pisa, con il suo fantastico Lungarno (superiore anche a quello di Firenze, a detta di Giacomo Leopardi) e la Torre arcinota nella bellissima Piazza dei Miracoli, e la sua Scuola Normale Superiore, con Piazza dei Cavalieri a far da sfondo alle nostre chiacchiere da congresso (o conferenza o simposio) e Piazza delle Vettovaglie, vero centro nevralgico della gioventù studentesca del luogo, punto di riferimento per chiunque voglia sbronzarsi a suon di vino economico e birretta in bottiglia… E Piazza Garibaldi, una delle mie preferite, anche perché lì ci trovi una delle gelaterie migliori di Pisa, e le Piagge (dove andavo a correre quando ero troppo stanco e stressato per la scrittura della tesi), e la stazione, e l’aeroporto, entrambe vicine, ai miei occhi di “romano” o di “madrileño” giramondo…

È davvero bello tornare, quando si è stati assenti tanti mesi da un posto in cui abbiamo lasciato un pezzo di cuore. Perché a Pisa ho conosciuto alcune delle persone più simpatiche e intelligenti che conosca; perché qui ho lasciato almeno un paio di buoni amici, di quelli che non ti dimenticherai d’invitare al matrimonio, il giorno in cui deciderai di sposarti, gente come Nico o Selene, gente che ti fa un caffè quando più ne hai voglia, o che ti aiuta a fare la valigia quando mancano pochi minuti alla partenza del tuo aereo…

Ecco: io a Pisa mi trovo come a casa mia, perché ci sono alcuni di quegli amici fondamentali che ti rendono la vita più facile, più sopportabile, più interessante o intrigante, più degna d’essere vissuta, insomma.
Come Nico, che mi parla delle sue potenziali fidanzate (ma nessuna gliel’ha ancora data, povero), e come Selene, che si sorprende se infilo un dito dentro il bollitore del latte per verificare se è caldo (e mi sgrida contro: “Non conoscevo il tuo lato primitivo!”).

E poi ci sono i colleghi (che fanno parte integrante inevitabile dei congressi o i convegni o i simposi), tra i quali si contano sia persone amiche che persone sgradevolissime, impossibile fare di tutt’erba un fascio…

E molti che mi chiedono: “Ma come ci sei finito in Spagna?”. E altri: “Chissà come te la starai spassando in Spagna?!”. E altri ancora: “Beato te, che sei in Spagna!”, come se la Spagna – la cui crisi è, per certi versi, ancora peggiore della nostra – fosse il Paradiso sulla Terra, come se davvero qui uno fosse in grado di vivere senza le angoscie tipiche d’Italia (ma non è così, non è che la Spagna sia meglio dell’Italia, è semplicemente che qui si vive con una mentalità diversa dalla nostra – e un giorno mi metterò ad analizzare da vicino in che senso l’una mentalità sia diversa dall’altra e perché gli spagnoli – al di là e nonostante la crisi – vivano con uno spirito un po’ più allegro del nostro).

A cena andiamo in un hotel di lusso del centro: c’invita l’Ambasciatore di Spagna in Roma. Ovvero: l’Ambasciatore si è scomodato e si è spostato da Roma ed è arrivato fino a Pisa per omaggiare professori come noi, che si dedicano allo studio (e alla diffusione) della lingua, della letteratura e della civiltà spagnola…

E quante risate, chiacchierando e criticando il vicino, insieme a Selene, quanti commenti che non ho captato, quanti ricordi, parlando con l’uno e con l’altro, quante teste ingrigite (ma i capelli bianchi stanno crescendo anche sul mio cranio), quanti tuffi nel passato, quanti ricordi legati a Pisa, quanti volti noti e meno noti, quante parole vacue e vane e vuote di senso e quante, invece, talmente intrise di significato da lasciarti a bocca aperta quando le senti in bocca a qualcuno che hai amato in passato, perché a Pisa ci sono anche persone che ho amato in passato, persone che mi hanno reso ciò che sono oggi, ragazze che oggi sono donne, donne che oggi sono spose, spose che domani saranno madri, madri che dopodomani saranno nonne… E allora questa città diventa il centro di gravità permanente dei miei ricordi, la città dei fantasmi del passato, fantasmi grati, che non mi fanno paura, anzi, tutto il contrario, sono fantasmi che mi coccolano, che mi ricordano ciò che fui e che mi dicono – senza esserne consapevoli – ciò che potrò essere, lontano da Pisa, lontano dall’Italia, lontano dagli anni belli della beata gioventù.

martes, noviembre 19, 2013

Un filosofo al cinema: Eugenio Trías, De cine: aventuras y extravíos (Barcelona, Galaxia Gutenberg/Círculo de Lectores, 2013)

Quando un filosofo si predispone a parlare di cinema, in genere, il rischio è quello di sovra-interpretare i testi filmici presi in esame, ovvero, quello di vedere nelle immagini in movimento schemi mentali o ragionamenti logici che il regista nemmena sospettava, al momento di girare o montare quelle stesse immagini.

Eugenio Trías, il filosofo "del limite", evita questo errore parlandoci in modo appassionato dei suoi registi (e dei suoi film) preferiti, con tatto, con ironia, con intelligenza. Personalmente, sono rimasto impressionato dalla quasi totale coincidenza di gusti. Trías studia e analizza, racconta con trasporto e ricorda le scene più belle di alcuni dei film dei registi che più ho amato anch'io nel corso degli anni (anche se ammetto che ultimamente sto perdendo colpi, non sono più così "cinefilo" come una volta... Mancanza di tempo? Scarsità di film memorabili o che ti restano impressi nella memoria? Biglietti del cinema troppo cari?).

Ecco, dunque, che il primo capitolo si apre con una riflessione sulle città (reali o immaginarie) nei film di Fritz Lang, il geniale autore di Metropolis (1927) e di M, il mostro di Düsserdolf (1931) (due film estremi sul Male, due esempi classici di cinema "espressionista" in cui la distorsione o la manipolazione dell'immagine è finalizzata a creare un universo in cui tutto è incerto e instabile e in cui l'essere umano diventa una specie di "burattino" o "pupazzo" nelle mani del Potere - o del Caso o del Destino).


Il capitolo 2 si concentra, invece, su Alfred Hitchcock, il "re del terrore" (o il "maestro della suspense"). A lui l'autore ha dedicato un intero saggio, dal titolo Vértigo y pasión (del 1998, se non erro) sul film omonimo (in italiano noto come La donna che visse due volte, del 1958). Qui Trías ripercorre le tappe della filmografia del regista americano mostrandoci come spesso e volentieri le sue siano storie d'amore, più che di paura (o del terrore). Si pensi a Rebecca, la prima moglie (1940) - film che anticipa diversi temi e aspetti iconografici di Vertigo - o a Marnie (1964): due opere che mettono in scena in modo drammatico due forme "malate" di amare. O si pensi ancora a quello che - a mio modesto giudizio - è il film migliore del Nostro (o dovrei dire: del "Mostro"?): mi riferisco a Rear window (o La finestra sul cortile), del 1954, con l'affascinante e splendida e splendente Grace Kelly e il simpatico, riflessivo e impaurito James Stewart, implicati in una specie di guerra interna tra gatti e topo in cui l'amore trionferà solo alla fine, dopo peripezie e scivoloni che rischiano di condurre alla morte.


Il capitolo 3 ripercorre, invece, i successi planetari di un altro genio come Stanley Kubrick (uno che di sicuro ammirava Hitchcock, o almeno credo). Dell'autore di 2001: A Space Odissey Trías analizza, in particolare, e con grande brio, Shining (1980), film dell'orrore filosofico, e Eyes Wide Shut (1999), film sull'adulterio e sull'eterna lotta tra sogno e realtà, tra Eros e Thanatos (sotto il segno di Freud).


Trías ci spiega come Kubrick sia sempre stato affascinato da una cosa e cioè: da come l'essere umano razionale possa fare un buono o un cattivo uso della stessa "ragione", uno degli strumenti più raffinati (ma anche tra i più pericolosi) che abbiamo. Perché si salva il piccolo Dany-Teseo nel labirinto dell'Overlook Hotel? Perché sa tornare sui suoi passi e cancellare le orme che suo padre (Jack Torrance-Minosse) insegue come un disperato fino a che non trova la morte per congelamento all'interno di una delle tante trappole del labirinto stesso. E perché Tom Cruise si salva dalle grinfie dei ricchi della mega-orgia in villa? Perché smette di cercare la verità (quella cruda verità che sua moglie, Nicole Kidman, gli ha fatto intravedere in una nottata a base di sesso e cannabis).

Col cap. 4 passiamo a un altro genio mostruoso, ossia, a Orson Welles. Dell'autore di Citizen Kane (o Quarto Potere, del 1941) Eugenio Trías studia, in particolare, The Magnificent Ambersons (L'orgoglio degli Amberson), del 1942, un'opera in cui l'invenzione precedente del "piano-sequenza" trova la sua migliore esplicitazione. 


Non mancano ottime analisi di quell'altro capolavoro wellesiano che è Touch of Evil (1958), da noi noto come L'infernale Quinlan, con una malinconica Marlene Dietrich nei panni di una zingara che legge le carte. Con questo film si capisce come l'analisi etica dei personaggi sia un tema caro a Welles e che lo ha assorbito fino ai film tratti da William Shakespeare e all'incompiuto Don Quixote.

Il cap. 5 studia il tema del tempo nel cinema di Andrej Tarkowskij, il regista di opere raffinate, complesse, affascinanti, perturbanti come L'infanzia di Ivan (1962), Solaris (1972) e Stalker (1979). Trías ci fa notare come l'uso del "piano-sequenza" sia finalizzato a quello che lo stesso autore russo chiama "scolpire il tempo": non interessa tanto narrare (o raccontare) cosa succede all'interno dell'inquadratura, quanto far vivere (in differita) allo spettatore quanto sta succedendo (in diretta) all'interno della stessa. Ogni oggetto, ogni foglia che cade, ogni specchio su cui si riflette l'immagine diventano elementi fondamentali per "sospendere" il movimento e "scolpire" il tempo, in modo drammaticamente incisivo (e lirico, come accade nel finale di Stalker).


Siamo arrivati al cap. 6 e c'imbattiamo in Ingmar Bergman, un autore che Trías non sa bene come catalogare perché - cito non a memoria - "i suoi temi non sono sintetizzabili in un'unica formula". Se al filosofo piacciano soprattutto film come Il settimo sigillo (1957) e Persona (1966), in cui i conflitti interni sono rappresentati per immagini attraverso "invenzioni" rimaste nell'immaginario collettivo come la partita a scacchi tra Antonius Blok e la Morte o come il doppio volto mostruoso tra le due protagoniste del secondo film citato, io preferisco Il posto delle fragole (1957) e, soprattutto, Sussurri e grida (1973), vero e proprio film horror sul senso della vita e sui limiti del corpo umano (mai visto così da vicino il volto di una persona che si appresta a morire dopo una lunga malattia incurabile).


E con il capitolo 7 arriviamo alla conclusione del libro, dedicata all'unico regista ancora vivo (e speriamo che ci resti ancora per molto): David Lynch, l'inventore di Twin Peaks ("Chi ha ucciso Laura Palmer?"), l'autore di opere magistrali come Blue Velvet (1986) o Una storia vera (1999). 


Di Lynch Trías studia soprattutto Mulholland Drive (2001) e Inland Empire (2006), spiegandoci come all'autore americano piaccia inventare mondi immaginari in cui il principio della verosimiglianza e quello di non contraddizione saltino non tanto (e non solo) perché nella "finzione" tutto è permesso, quanto (e soprattutto) perché i film di Lynch sono mondi immaginari che (si) aprono verso altri mondi in cui il mistero, l'inconscio, l'onirico sono tutti ingredienti (o elementi) onnipresenti e posti al servizio della "messa in scena" del conflitto (tra realtà e sogno, tra bello e brutto, tra razionale e irrazionale, tra bene e male, tra giusto e ingiusto). A Lynch, di fatto, interessa più l'aspetto conflittuale che quello pacificatore. I suoi film sono continui attentati contro il buon senso, il decoro, il bello, affinché lo spettatore sia in grado di porsi dall'altro lato del "limite" (concetto caro a Trías che, non a caso, viene chiamato anche "filosofo del limite").

In conclusione: la domanda che potremmo porci a lettura finita del libro è: "Ma che cos'hanno in comune questi 7 registi?". E la risposta che (mi) do è la seguente: "Tutti e 7 sono stati in grado di re-inventare il mondo reale in cui vive - e vegeta - lo spettatore allo scopo di trasportarci in mondi "altri" in cui il dubbio, l'interrogazione costante sul senso del nostro esistere, la riflessione su chi siamo sono elementi portanti di "messe in scena" che restano impresse (per sempre?) nella mente di chi guarda (o ha il coraggio di guardare) sempre oltre..."

martes, noviembre 12, 2013

Le mucche del Principato delle Asturie

Mai partecipato alla premiazione di un racconto breve nell'ambito di un concorso per "scrittori emergenti". E quest'anno, invece, ne ho avuto l'opportunità (preziosa) grazie alla mia compagnia d'avventure (sempre iperattiva e molto generosa nei miei confronti - non sopporta che stia con le mani in mano, s'innervosisce se mi vede spaparanzato per troppe ore sul divano, mentre mi dedico al "dolce far niente").

Ha vinto Edna López, una scrittrice di Tenerife, con un racconto che s'intitola Las reglas de la guerra (ovvero, "Le regole della guerra"), un buon racconto, un racconto che - come vuole la tradizione - capovolge il senso e il punto di vista di ciò che si legge proprio poco prima della fine, all'ultima pagina, quando meno te l'aspetti (e il finale ti obbliga a rileggere tutto dall'inizio, per apprezzare le sfumature che si sono perse ad una prima lettura).

È stato bello conoscere l'autrice (e consigliarle en passant di leggere Robbe-Grillet e poi dirle che l'autore de La jalousie una volta, nel corso di un congresso, disse pubblicamente e a chiare lettere che uno dei romanzi più belli della Letteratura del Novecento era La coscienza di Zeno, del nostro Italo Svevo) ed entrare in contatto con altre persone interessanti (e interessate alla letteratura). Ed è stato strano conoscere l'Associazione di Gijón (nel Nord della Spagna, per l'esattezza, nel Principato delle Asturie) che ha indetto il Premio Letterario per gli scrittori emergenti di cui non sapevo proprio nulla prima che la mia compagna d'avventure me ne parlasse (e mi coinvolgesse nell'avventura).

Ho dovuto leggermi ben 50 racconti (su 1600) ed è stato curioso anche questo: constatare come i temi si ripetessero da un autore all'altro, come - pur senza esserne a conoscenza - alcuni riprendevano o ripetevano i temi degli altri (un fil rouge che accomunava molti di questi racconti, ovviamente, il problema della "crisi" - mai letto tanti racconti in cui il denaro divenisse parte fondante e fondamentale della trama; sì, il denaro o, al contrario, la disperata mancanza di... come se, all'improvviso, le trame d'un Zola o quelle d'un Balzac fossero tornate prepotentemente di moda).

E così, dopo tante ore e ore di lettura a volte forzata, io e la mia compagna d'avventure ci siamo spostati in aereo (sia noi della giuria sia Edna che era la vincitrice) dal Sud del paese al Nord più estremo; pioggia, vento e freddo erano lì pronti a darci il benvenuto e ad offrirci la sensazione d'essere davvero in autunno (perché nel Sud in cui viviamo noi le temperature sono ancora estive, a mezzogiorno si sfiorano i 24 gradi centrigradi, a dispetto del freddo polare che sta attanagliando l'Italia in questi momenti).

Oh, che bellezza fare colazione davanti a un vasto prato in collina e vedere le mucche che pascolano placide sotto la pioggerellina delle Asturie... Che sensazione di morbidezza, di calore, di domesticità familiare, assaggiare i fantastici formaggi delle Asturie a pochi passi da quegli animali che ci offrono la materia prima per fare quegli stessi fantastici e strepitosi formaggi...

Ovvio che poi, di notte, dopo la lauta cena del gran galà, me ne tornassi a letto spossato e stanco e con la pancia stracolma (mai mangiato tanto e così bene nel ristorante di un hotel).

Ovvio pure che poi sognassi le mucche delle Asturie (con la mia compagna d'avventure che veniva incontro a uno dei miei desideri più caldi e proibiti del momento: fare l'amore dentro il bagno turco, immergendosi dentro i vapori e l'oscurità del luogo fino allo svenimento).

La mucca stava lì che mi guardava e mi parlava di Svevo con la voce di Edna, la vincitrice del Premio. Io le raccontavo che Svevo era stato il professore di lezioni private d'italiano di un altro scrittore famoso e importante, James Joyce. La mucca non capiva nulla di letteratura e voleva avvicinarmisi al viso per darmi una bella leccata con la sua saliva abbondante. Io la schivavo e passavo a descriverle le nuove ed originalissimi tecniche narrative che si era inventato Alain Robbe-Grillet per il suo nouveau-roman. Ma la mucca niente, non capiva un'acca e s'interstardiva, voleva aspergermi con la sua saliva. A questo punto ho cominciato a gridare ed è stata lei, la mia compagna d'avventure, a svegliarmi e a darmi le sue informazioni meteo:
"Anche oggi piove. E se ce ne restassimo tutto il santo giorni chiusi in camera a fare l'amore sotto le coperte calde di questo lettone gigante?".
Le ho chiesto: "E che facciamo con Edna, la vincitrice? Non avevamo detto che andavamo insieme a fare una piccola escursione alla spiaggia di Gijón?".
E allora lei ha risposto: "Con questa pioggia chi vuoi che vada a fare piccole - o anche grandi - escursioni sulla spiaggia di Gijón?".
E allora le ho detto: "Hai ragione, vieni qua, stringimi forte, che ho avuto un incubo, ho sognato di parlare di letteratura con una mucca asturiana che voleva lavarmi la faccia con la sua lingua piena di saliva".
E infine la mia compagna di avventure ha risposto: "Si vede che ieri sera hai proprio esagerato col vino".
E io: "Ho esagerato con tutto".

Nel primo pomeriggio siamo andati al bar della hall per farci due caffè forti (all'italiana, espresso, per favore).

Edna era già lì, col suo fidanzato, tutta raggiante e sorridente. Quando la mia compagna d'avventure le ha chiesto perché fosse così contenta, se era ancora per il fatto del premio, o perché le si prospettava un lungo fine settimana di escursioni nel Principato delle Asturie, Edna ha risposto che era per le mucche.

"Ma avete visto quante mucche ci sono qui attorno? È davvero bellissimo, ho già scattato mille foto alle mucche!".

Non riuscivo a crederci. Edna aveva scattato delle foto anche alla mucca che avevo sognato dopo la sua premiazione.

Lo dissi alla mia compagna d'avventure, ma non mi diede retta, mi disse che avevo bevuto troppo e che dovevo smetterla di fare l'alcolizzato, che, se continuavo in quel modo, non mi avrebbe fatto partecipare mai più ad alcun concorso letterario spagnolo che esistesse sulla faccia della Penisola.

Alla fine, sono riuscito anche a fare un salto alla spiaggia di Gijón: il cielo s'era schiarito e non pioveva più. Ed è stato bellissimo passeggiare da solo coi piedi nudi sulla spiaggia fredda di quest'autunno così anomalo, con la brezza sul viso e il rumore del mare di fondo.


lunes, octubre 21, 2013

Laura


Laura? Ma chi è Laura? Laura chi? A domanda (ipotetica) rispondo (a metà tra finzione e realtà): Laura è una delle tre o quattro lettrici di questo blog, una persona speciale, per me, un’amica e una confidente, una che ho conosciuto per caso all’Università quando avevo ancora tutta l’energia di chi aveva appena finito un dottorato e s’apprestava a scrivere il suo primo libro di critica letteraria…

“Andiamo a mangiare insieme a mensa?”, chiesi, timido, vedendola pensierosa dentro la famosa Sala dottorandi, davanti al suo Apple, all’interno di una stanzetta al terzo piano della Facoltà, uno studiolo piccolo ma pieno di luce, dotato di pc risalenti agli anni 90, di una fotocopiatrice guasta e di aria condizionata funzionante (una mano santa d’estate, quando si sudava da fermi).

E Laura – incredibilmente - mi disse di sì, che veniva a mangiare con me a mensa, anche se non aveva troppa fame (e già all’epoca mi sembrava un po’ magrolina, è vero che io ho sempre preferito le donne tonde, e non è che lei non fosse in linea, no, anzi, era in una linea perfetta, praticamente una modella, ma forse qualche chiletto in più le avrebbe giovato e poi, di fatti, ne parlammo di questi chiletti in più, ah, quante volte ne abbiamo parlato, tra risate e prese in giro, sorrisi gioviali e simpatiche ricriminazioni tra amici – “Ma tu stai fuori! Mi vuoi tutta ciccia e brufoli?”, facendo il verso al famoso sketch pubblicitario).

E così imparai a conoscere Laura, ad apprezzare la sua onestà intellettuale, la sua sincerità, la sua apertura mentale, la sua capacità di ascoltare il prossimo, di condividere gioie e dolori, impressioni e riflessioni, dubbi e paure… E a mensa, lo ricordo ancora oggi, come se fosse ieri, io intento a ingurgitare un piattone di pasta al sugo e un petto di pollo con tanto di patatine a fare da contorno e lei intenta a parlarmi di una relazione sentimentale molto lunga che era appena finita, Laura triste, Laura pensierosa, mentre io facevo cadere le molliche per terra e lei spilluzzicava con gesto armonioso un po’ di verdure cotte al vapore (fagiolini e carote, con pochissimo olio e un pochettino di sale – “Ma fai la dieta? Ma tu non ne hai bisogno, dai?!”) e io la guardavo e mi domandavo: “Ma quant’è bella questa ragazza?” e lei iniziava a sciogliersi, a spiegare, a raccontare, perché, come, quando si erano lasciati, cos’era che la faceva sentire “svuotata” e se potevo capire come si sentisse (e sì, io potevo, anch’io ero reduce da un rapporto durato molti, molti anni) e lei che parlava e parlava e mi sembrava totalmente a suo agio, com’è che certe volte tra persone si stabiliscono certi vincoli, com’è che troviamo la persona giusta al momento giusto per il segreto giusto, e io ascoltavo e ascoltavo e poi me l’hai pure detto – una volta, a Salerno, dopo aver mangiato un gelato gigante lungomare –: “Mi piaci perché sai ascoltare”, che gran complimento mi facesti quel giorno, e sì, insomma, Laura, tu parlavi di te e di lui e del vostro rapporto spezzato e io trangugiavo e pensavo: “Ma com’è strana la vita, uno viene all’Università per studiare e lavorare sodo e si vede coinvolto nel bel mezzo di un segreto intimo, di una confessione senza censure e a cuore aperto”, e quando arrivò il momento del caffè offrii io, ovviamente, e poi andammo a passeggiare nel giardino antistante la Facoltà di Giurisprudenza e lì, continuando a parlarmi di te, intravidi delle lacrime che erano sul punto di scendere e di rigarti il volto, e di fatto piangesti, o sbaglio?, e io non sapevo cosa diavolo fare, come fare?, non sapevo se abbracciarti e consolarti o lasciarti da sola, a piangere e a sfogarti per conto tuo, e mesi dopo mi confessasti che avevo fatto bene a non offrirti la mia spalla, perché altrimenti avresti pianto ancora di più, che meladrommatiche voi donne, a volte!

Dopo quel famoso pranzo, ci furono feste, cene, passeggiate, gelati, confessioni anche più intime, gite in barca a Capri (la “Grotta azzurra”, che esperienza!), e canzoni, tanta buona musica, tante “pippe mentali” su amore e sesso, sui rapporti uomo-donna, sulla validità e la fattibilità dell’amicizia uomo-donna, sugli uomini sposati che tradiscono le mogli e sulle donne sposate che tradiscono i mariti, su questo e quell’altro, sulla letteratura americana e su quella chiquana, su Madrid e su New York, sui colleghi e sui prof. più antipatici che ci rendevano la vita impossibile e su quelli più umani che ci regalavano i loro libri, sui libri letti e quelli ancora da leggere, insomma, su tutte quelle belle cose che rendono un’amicizia degna d’essere vissuta fino in fondo e al cento per cento…

Ora Laura è lontana, ha lasciato la Campania per l’America, è tornata a New York, una delle sue città preferite, e ogni mattina le mando un messaggio da Whatsapp per svegliarla; è diventato una specie di rituale: lo so che da lei ci sono 6 ore in meno, ma a me piace scriverle alle 8 e, quindi, darle il “buongiorno” quando nella Grande Mela è notte fonda e lei sta per andare a dormire… o è già a letto (le 2 di notte) e soffre d’insonnia e non riesce a prender sonno (l’insonnia: ecco un’altra cosa che ci accomuna, a me e a Laura).

Se non ci fosse Skype, non avremmo modo di vederci (soprattutto ora, che io sono in Spagna e lei laggiù – e poi di nuovo in Italia), e ogni volta che riusciamo a trovarci online è una festa: “Ma come stai? Ma da quant’è che non ci parliamo?” e ogni volta che parliamo è come se non ci vedessimo dall’altro ieri, le battute sono quelle (“dicidici”), il tono è sempre lo stesso (gioviale), l’attenzione è sempre alta (non ci sfugge niente), la voglia di ridere sempre notevole (“sei proprio matto!”).

Laura, una delle amiche più care che ho, una delle persone più generose, simpatiche, intelligenti e in gamba che conosca… (una che a quest’ora starà dormendo, perché qui da noi sono le 8 del mattino - vediamo se si sveglia, da lei sono le 2, mandiamole un messaggio: "Good morning! And good luck! Mon collègue, mon amie!).

jueves, octubre 10, 2013

La resurrezione di Lazzaro




Da quanto ne so il Vangelo di Giovanni è uno dei più intriganti e misteriosi dei 4 che ci sono giunti (almeno, secondo la versione ufficiale del Testo Sacro per eccellenza della religione cristiana). Tanto per intenderci: Giovanni è l’unico evangelista che narra il Giorno del Giudizio o Apocalisse, ovvero, quel giorno che segnerà la fine del tempo terreno (e del suo computo umano) e l’inizio dell’eternità. Quel giorno esatto non solo Dio si metterà a giudicare tutti i morti di tutti i tempi (quando tutti i vivi saranno ormai morti), ma disporrà e deciderà anche la morte della Morte (la cui funzione sarà ormai nulla quando non ci sarà più nessuno da eliminare dalla faccia della Terra).

Giovanni è anche colui che narra la storia di Lazzaro e della sua miracolosa resurrezione (se ricordo bene e non erro – ma non sono un esperto di Bibbia, né uno studioso attento della stessa, vado a orecchio e leggiucchio a tentoni, come un bambino alle prime armi e alle prime letture). Si tratta di uno dei tanti miracoli che compie Gesù e che – lasciando il pubblico a bocca aperta – spingono tanti ad avere fede e a dargli credito, ovvero, a credere che Egli sia davvero il Figlio di Dio, venuto sulla Terra per lavare i peccati del Mondo, per riscattarci tutti dal peccato mortale che commisero i nostri progenitori Adamo ed Eva.

Il capitolo che narra i fatti è l’11 e i versetti sono più o meno quelli compresi tra il 32 e il 46. Poche righe per raccontare l’incredibile, l’inspiegabile, il mistero della resurrezione della carne…

Gesù torna davanti a Marta e Maria, chiede dove hanno sepolto Lazzaro, fratello di Marta, e quando gli Giudei gli rispondono “Gesù pianse”. Nel pubblico qualcuno – con spirito alquanto cinico – avanza una domanda retorica che puzza di zolfo (l’avvocato del diavolo): “Se piange per la morte dell’amico, perché non gli ha evitato la morte?”. Ma Gesù non dà troppa importanza a queste parole, ordina immediatamente di aprire il sepolcro, di spostare la pietra che mantiene chiusa la tomba di Lazzaro. E qui potremmo anche chiederci: di che morte è morto Lazzaro? Non si sa, né mai si saprà (forse è un dettaglio trascurabile, ma insomma…)

Subito dopo interviene Gesù, con tono deciso: “Togliete la pietra!”. È un Gesù che agisce quello che si percepisce in questa scena; non perde tempo, ordina e vuole che gli si risponda, che i suoi ordini vengano esauditi.

 La sorella di Lazzaro interviene, invece, con tono umanissimo: “Signore, egli puzza già perché siamo al quarto giorno”. E un lettore un minimo attento drizza le orecchie, perché qua i conti non tornano, non come speravamo: Gesù risorge al terzo giorno; per erronea associazione d’immagini (e di numeri), eravamo fermamente convinti che anche Lazzaro resuscitasse al terzo giorno e invece no, signori miei, qui Marta ci dice che no, che siamo già al quarto giorno, e perciò il cadavere “già puzza” (non so come traducono le altre versioni, io leggo dalla Bibbia Nuova Riveduta che offre un sito che si chiama “laparola.net” – e all’interno ci sono almeno altre 3 differenti versioni e ognuna cambia – per un verbo, un aggettivo, un avverbio, complicando ulteriormente le cose; fatto sta che questo verbo “puzzare” dà bene l’idea della morte, della putrefazione della carne; la versione della C.E.I. traduce “manda cattivo odore”, ma siamo là, l’idea angosciosa del morto che si sta decomponendo c’è già, è tutta presente e viva – o vivace – sotto i nostri occhi di lettori di gente come Edgar Allan Poe o Charles Baudelaire…). Gesù le risponde con tono deciso (riprendendo quasi alla lettera una frase che Marta aveva già pronunciato prima, pochi versetti prima, non appena lo vede): “Non ti ho detto che se credi, vedrai la gloria di Dio?”. Marta crede in Gesù e si aspetta ogni cosa da lui, è pronta a credere nei suoi miracoli. E qui Gesù glielo sta ricordando e sta ribandendo di fronte agli altri la sua natura divina. Cosa succede dopo?

“Tolsero dunque la pietra”. Gli spettatori che si suppone siano accorsi ad assistere alla scena eseguono (in quanti?) gli ordini di Gesù e spostano effettivamente la pietra che chiude la grotta dentro cui giace Lazzaro. “Tolsero dunque la pietra”. Una frase così semplice – composta da 4 parole – crea la suspense che precede l’apparizione (o ri-apparizione) del morto… Solo che qui i conti – ancora una volta – non tornano, perché subito dopo leggiamo: “Gesù, alzati gli occhi al cielo, disse: “Padre, ti ringrazio perché mi hai esaudito”. Come? Ancora prima di vedere il miracolo, ancora prima di constatare la resurrezione del morto, Gesù ringrazia Dio per averlo ascoltato? È come se qui il protagonista anticipasse l’evento e fosse dotato del dono dell’onniscienza: con la forza di volontà e della mente, Gesù sa già che Dio lo ha ascoltato e ha esaudito il suo volere… Anzi: subito dopo aggiunge che ha pronunciato questi ringraziamenti a voce alta per far sapere a tutti i presenti che lui è davvero stato mandato da Dio sulla Terra per salvare chi  crede…

“Detto questo gridò ad alta voce: “Lazzaro, vieni fuori!”. Ecco, l’uso del punto esclamativo dà l’idea dell’imperiosità di questo Gesù che sa già come va a finire, che imparte ordini, che pretende che gli altri – presenti sul luogo del miracolo – gli diano retta… E che pretende che un morto “venga fuori”, al solo suono della sua voce…

E qui il lettore si sorprende per colpa di un altro falso ricordo: ma come, ma la frase non era “Lazzaro, alzati e cammina!”?


Misteri della memoria (a largo raggio). Quella che sembra essere diventata una frase dell’immaginario collettivo è frutto di una cattiva interpretazione (o lettura) del testo biblico. “Vieni fuori!” e non “Alzati e cammina!”… Ma che strano!

“Il morto uscì, con i piedi e le mani avvolti da fasce, e il viso coperto da un sudario”.

Qui la suspense raggiunge l’apice perché, dopo tanto parlarne, noi vediamo insieme ai “protagonisti” o “testimoni” del miracolo il morto che risorge. E l’immagine è paurosa (o almeno, molto inquietante): Lazzaro è come un neonato, con i piedi e le mani avvolti in fasce (si suppone di colore bianco) e ha il volto coperto da un sudario. Una specie di morto vivente, uno zombi, o una mummia, che torna a camminare. Gesù, a questo punto, dà il suo ultimo ordine:
“Scioglietelo e lasciatelo andare” e a partire esattamente da questo punto noi lettori non sapremo più che fine farà Lazzaro, dove esattamente andrà e cosa farà nella sua nuova vita di “non morto”…

Non ci sono dubbi: ci troviamo di fronte a un racconto potente, a un brano di una carica narritva enorme, che apre molte domande e infonde nell’animo del lettore una serie di dubbi esistenziali irrisolvibili.
Lazzaro è un personaggio dentro cui si rispecchiano – riflesse in senso letterario – molte questioni che toccano uno dei misteri più grandi e paurosi dell’essere umano, quello della morte. Il lettore partecipa all’evento, assiste al sorgere della suspense, ma quando “vede” il cadavere non sa come reagire e cosa pensare.
Se davvero Lazzaro è tornato dal mondo che Amleto definisce come “The undiscovered country from whose bourn no traveler returns”, ci domandiamo come sarà stato quel viaggio, cosa avrà provato nel ritornare alla vita e se davvero avrà avuto voglia di seguire il comando (duro, compatto, spietato) di Gesù: “Vieni fuori!”.
E se fosse tornato contra la propria volontà? E soprattutto, una volta tornato, dove andrà? Cosa farà a partire da ora? Come reagiranno Marta e Maria a vedere di nuovo Lazzaro in vita?

La pittura e la poesia (l'arte in generale) hanno riscritto mille volte questo “mito”; Lazzaro è diventato nel corso dei secoli un personaggio passibile di “ri-scrittura” proprio per questo motivo: ognuno può vedervi rispecchiati i propri dilemmi più inquietanti.

Quello che la Bibbia sottolinea è che:
     1  La resurrezione è possibile (se si crede in Dio);
     2  La resurrezione è fenomeno che riguarda la carne e non solo l’anima.

È per questo che – come ricorda Marta con linguaggio diretto e molto realistico – il morto “puzza” (sono già passati 4 giorni). La resurrezione cui assistiamo qui, in questo brano e in diretta (per dirla con termini cinematografici), è una resurrezione che colpisce la carne, prima ancora che lo spirito (quella avverrà il Giorno del Giudizio, quando ognuno di noi – stando alle parole di Giovanni – finirà per sempre all’Inferno, a patire le pene eterne per i propri peccati o gioirà per sempre in Paradiso, a godere della felicità eterna che concede il Sommo Giudice ai giusti, ai buoi e ai pentiti).

Il fatto che Giovanni sottolinei la “fisicità” del cadavere di Lazzaro mi fa pensare che dietro ci sia: 
a)  Una finalità ideologica (o teologica): vi racconto questo, riportando i fatti e le parole di Gesù, affinché anche voi crediate (fine comune a tutti e 4 i Vangeli); 
b) Una finalità più nascosta e sottile: vi racconto questo per mostrarvi com’è un morto che torna alla vita, che faccia ha, come si muove, cosa fa, una volta risorto.

Se ci atteniamo al punto b), la resurrezione del povero Lazzaro assume i tratti di un evento che potremmo definire come “traumatico” più che come “miracoloso”. Detto in soldoni: Lazzaro non sembra tanto felice; ripresentarsi davanti ai vivi sotto forma di “mummia”, con la faccia avvolta nel sudario e mani e piedi “imbavagliati” da fasce, appare come evento scandaloso, non voluto e non desiderato. Egli segue la voce che gli ordina di “venire fuori” dal sepolcro ma lo spettacolo che offre di sè ci muove a compassione. Nessuno di noi – credo – si lascerebbe guardare in quelle condizioni.

Ovvio che – agli occhi della Chiesa – la finalità a) debba prevalere su quella b). Ma se ci fermiamo a leggere la Bibbia come se si trattasse di un romanzo (o di un testo narrativo) – cosa lecita, perché la Bibbia per me è anche questo e non lo dico solo io, lo dice pure uno come Northrop Frye – è piuttosto evidente che questo tipo di resurrezione muove alla compassione e alla pietà, più che alla gioia e alla serenità (tutt’altro discorso quello che si potrebbe fare comparando questa scena a quella della resurrezione di Gesù – l’evento clou del Cristianesimo).


Sintetizzando: lo scandalo ontologico del fenomeno della resurrezione della carne ci pone di fronte al mistero più grande e spaventoso, quello della Morte; la scena in cui Lazzaro torna alla vita, invece, ci mostra come la “realizzabilità” di questo miracolo assuma tratti piuttosto cupi e quasi tristi. Così come è cupo e triste il fatto che non sapremo che fine farà Lazzaro il giorno in cui tornerà a morire per la seconda volta, quella definitiva. Di Lazzaro non sapremo più nulla, a partire dalle ultime parole che gli rivolge Gesù: “Scioglietelo e lasciatelo andare”. 

E forse non lo sapremmo nemmeno noi, dove andare, se davvero potessimo tornare da quella regione che Amleto (in un altro testo e in un altro contesto linguistico) ci presenta come una “terra ignota” o “undiscovered country” da cui nessun viaggiatore fa mai ritorno…

viernes, octubre 04, 2013

Cambiamento di prospettiva



L’ultimo post risale al 15 settembre del 2013 e se rileggo questa frase: “L’Italia è ferma e Berlusconi – come da sempre, negli ultimi 20 anni – ci tiene stretti per i coglioni (mi si perdoni la rima, è inevitabile, con certi cognomi)” e la rapporto ai fatti odierni (in data 4 ottobre 2013) mi sembra che non sia cambiato molto (anzi, forse la farsa è arrivata a livelli insospettabili, perfino per chi pensava si fosse giunti a un “punto di non ritorno” - e questi punti non ritornano mai, vedi quello che sta succedendo a Lampedusa...).

Intanto, la mia vita ha subito un cambiamento a 360 gradi e quello che pensavo fosse un trasloco da una casa ad un’altra all’interno di due diversi quartieri di Roma si è rivelato un trasloco dall’Italia alla Spagna.

A volte è così: per ottenere quello che sogni, devi non solo lottare, combattere, sudare e scontrarti contro mille ostacoli, ma devi pure rischiare, metterti in gioco, lanciarti senza il paracadute.

E così, all’improvviso, dall’oggi al domani, mi ritrovo a stare in cattedra davanti un pubblico di studenti spagnoli (qui sono io lo straniero, o quello strano, che cita Cervantes e parla di Shakespeare, che illustra i disegnini surrealisti di Sir Laurence Sterne e spiega Omero – o prova a spiegare l’incredibile modernità dell’Odissea, davanti agli studenti della Facultad de Letras).

E mentre tento d’adattarmi e di capire di quale collega posso fidarmi e da chi devo tenermi a debita distanza, di quante ore di lezione dovrò fare e di quali spazi mi competono, mentre sottopongo il cervello a uno sforzo notevole di pratica giornaliera della lingua straniera (sono pur sempre un italiano), ecco che apro l’email e mi arriva una pubblicità di un libro dal titolo curioso: L’allattamento ai tempi della Grecia antica… e uno si domanda: ma chi può interessarsi a un argomento del genere? Come allattavano le donne nella Grecia antica? E perché dovrebbe interessare proprio me, un argomento del genere? Chi ha fornito il mio indirizzo email alla casa editrice che distribuisce il libro L’allattamento ai tempi della Grecia antica?

Certo che, a pensarci bene, se uno cambia prospettiva può giudicare le cose in modo nuovo: io qui sono l’elemento "esotico"; sono quello “straniero”; c’è chi penserà che sono un mafioso o che mangio solo pasta e c’è chi mi giudicherà per il modo di vestire; magari ci sarà pure qualche collega greca, o una qualche greca che è venuta in Spagna a lavorare (sperando che la crisi sia un po’ meno dura che nel suo paese d’origine) e che sa spiegarmi come allattavano le donne greche nella Grecia antica. La prospettiva è importante. Non dimentichiamolo mai…

Nel frattempo: avevo intenzione di scrivere una cosetta su La storia di Elsa Morante e – guarda tu la casualità – mia sorella mi scrive in un messaggio privato su Facebook che dovrà sostenere un esame di Letteratura Italiana Contemporanea proprio su Elsa Morante.

“Ce li hai Menzogna e sortilegio e La storia e L’isola di Arturo?”

È il caso che vuole che io mi sia portato dietro gli ultimi due titoli (e su La storia – come già detto – avevo pure cominciato a scrivere una cosa). Tra tanti libri, proprio quelli che servono a mia sorella, incredibile, no?

“Guarda che L’isola di Arturo me lo sono comprato proprio poco prima di prendere l’aereo per Madrid! E avevo chiesto a tuo fratello di comprarmi Aracoeli come regalo di compleanno, ma lui, ovviamente, se n’è scordato! Che faccio? Ti mando La storia e L’isola via posta tradizionale?”.

Una collega mi guarda e mi sorride.

“Ma Menzogna e sortilegio sta qua?”

Un’altra mi dice il suo nome, ma io lo dimentico all’istante (siamo troppi, in questo dipartimento).

“Guarda nella prima libreria sulla sinistra, appena entri, primo scaffale in fondo a partire dal pavimento”.

Un altro mi dice di chiamarsi Juan José.

“Ok, mo' guardo!”.

Un’altra mi offre una sigaretta.

“E buona lettura: sono tutti dei tomi giganti!”.

E allora sento, percepisco l’ansia di mia sorella, che non ama leggere, come non amano leggere gli studenti che mi ritrovo davanti ogni giorno.

A volte, anche cambiando la prospettiva, l’oggetto dell’osservazione non cambia: come in Italia, così in Spagna, i ragazzi girano per l’Università senza libri in mano, nessuno legge più, nemmeno il giornale, sono tutti fissi con gli occhi sul cellulare…


Vado a scrivere a mio fratello; ho deciso: invece di Aracoeli, vorrei tanto che mi regalasse L’allattamento ai tempi della Grecia antica… chissà se lo trova, in libreria...

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...