miércoles, abril 27, 2011

E se Dio non fosse poi così infallibile? Habemus Papam di Nanni Moretti (2011)

Premessa: sono un fan incondizionato del cinema di Nanni Moretti (a mio modesto parere, uno dei registi più bravi, colti e acuti del cinema nostrano degli ultimi 20 anni - e non è vero che è il nostro Woody Allen, o non lo è in maniera assoluta, perché il regista americano fa sempre ridere, mentre quello nostrano a volte fa anche piangere - cfr. quel piccolo gioiello che è La stanza del figlio). Ovvio, dunque, che ciò mi rende (automaticamente) poco obiettivo, quando si tratta di giudicare o valutare la qualità di un suo film. Però una cosa voglio metterla in chiaro (a me stesso) sin dall'inizio: Habemus Papam non è (come pure qualcuno ha detto e scritto in questi giorni sui giornali o su vari blog "specializzati") il miglior film di Moretti. Così come non mi sembra che sia una "pagliacciata" o un nuovo modello di "cinepanettone", né mi sembra un film blasfemo o che debba offendere i cosiddetti "rappresentanti" del mondo della Chiesa. E', invece, o mi sembra che sia una bella messa in scena di un evento verosimile che si svolge nelle mura secolari di un'istituzione anche politica come lo è (e lo è eccome) la Chiesa cattolica (o Santa Romana Chiesa) a cui capo attualmente si trova Benedetto XVI (o Papa Ratzinger che dir si voglia).


La trama: un cardinale, monsignor Melville, viene eletto papa dopo un lungo conclave e una serie di fumate nere. Melville non se la sente. E dopo una crisi che lo spinge ad urlare tutto il suo senso d'inadeguatezza, poco prima di affacciarsi su Piazza San Pietro, riesce a sfuggire alla sorveglianza dei suoi e inizia a vagare per le strade di Roma per cercare di fare chiarezza nella sua testa (quando nemmeno uno psichiatra - interpretato da Nanni Moretti stesso - è riuscito a scavare nel suo inconscio e si è limitato a dargli l'indirizzo della sua ex-moglie, fissata col "deficit affettivo"). 

L'intero film si sviluppa su questo doppio binario (o doppia trama narrativa l'una intrecciata all'altra): a) cosa faranno i cardinali rinchiusi in Vaticano e, per le leggi del rituale, impossibilitati ad avere contatti col mondo esterno e b) cosa farà il papa andando a spasso tutto solo soletto per la capitale quando nessuno sa che lui è veramente il neo-eletto papa, anche se ancora non si è mostrato in pubblico dalla solita finestra e non ha fatto il suo bel discorso alla marea di credenti accorsi in Vaticano per salutarlo.

Dunque, fermiamoci a riflettere: lo spunto è interessantissimo. L'idea è originale (o almeno, sembra tale). Sia la trama a) che quella b) danno (o avrebbero potuto dare) adito a scene esilaranti, a piccole gag, a situazioni narrativamente accattivanti. Il problema è che Nanni Moretti sembra aver messo troppa carne al fuoco e che abbia lasciato troppi fili scoperti; che non abbia saputo sfruttare al meglio una sceneggiatura come questa per fare sfoggio di tutte le sue potenzialità di regista; come se Habemus Papam (per la potenza, l'originalità, la vastità di argomenti seri e comici messi in gioco dalla doppia trama) fosse un film irrisolto (o non risolto in tutte le sue parti) e come se mancasse qualcosa a dare coesione e perfezione al tutto (anche il finale, per dirne una: sembra che arrivi in modo un po' "costruito", un po' troppo "forzato", forse anche un po' troppo "prevedibile").

Ecco, queste sono le uniche critiche che mi sento di fare a un film che, in fondo, riesce sia a far ridere sia a far riflettere (e a commuovere) per il modo in cui è impostata la doppia trama di cui sopra.

Michel Piccoli è una colonna portante del tutto: lo stesso Moretti lo ha confessato da Fazio: se Piccoli non avesse recitato così bene e non si fosse immedesimato così tanto nel suo personaggio, Habemus Papam sarebbe stato un film più povero. E si può prendere spunto dall'attore ormai quasi centenario per osservare come Habemus Papam sia anche un film sulla religione, sulla fede, sul problema di come fare per credere in Dio. 

Chi elegge un papa? Un conclave di cardinali, sì, certo; ma, in ultima istanza, è Dio a scegliere il prescelto. Può Dio sbagliare persona? Può Egli, onnipotente ed onnisciente, commettere un errore così madornale da scegliere un suo ministro che non se la sente proprio di assolvere il ruolo di "guida spirituale" del gregge cristiano? Evidentemente no, se crediamo in Lui: Dio è infallibile e non può scegliere Melville sapendo chi sia davvero Melville (una pecorella smarrita, uno che, come Bartleby "lo scrivano", nell'omonimo racconto di Melville, "preferirebbe di no").

E spostandoci dal papa ai cardinali: ma come se la passano questi benedetti cardinali? Male, o in un modo non molto diverso dal resto dell'umanità tutta (questo è quello che il regista sembra suggerirci). Nanni Moretti si diverte a fare un ritratto assolutamente umano dei cardinali: e io credo che stia tutta qui la critica della Chiesa nei confronti del film di Moretti; credo che sia tutto questo il nodo della faccenda, e cioè che è proprio perché Moretti ci mostra dei cardinali in quanto esseri umani (dotati ognuno delle sue debolezze - c'è quello che prende tranquillanti per dormire la notte, quello che ama giocare a scopa, quello più invidioso degli altri, quello più taciturno, quello più insicuro di se stesso, ecc. ecc.) che alcuni "uomini di Chiesa" si sono arrabbiati e hanno proposto di boicottare il film... Quando, invece, è proprio l'umanità il valore che il regista mette in risalto nel tratteggiare questi personaggi (e in tal senso, possiamo dire senza tema di smentite che la scenetta dell'ormai famosa partita a pallavolo è davvero un esempio di alto cinema, o di cinema di alta qualità, oltre che di grande sensibilità - evviva l'Oceania!).


Ma accanto al tema della fede e del problema del credere in una potenza divina sovra-storica, sovra-umana e assolutamente super partes, Nanni Moretti ne sviluppa altri: primo fra tutti, quello del Potere. La Chiesa è un'incarnazione del Potere (e della gestione dello stesso). Moretti, nelle vesti di psicanalista, si intrufola (o per meglio dire: viene lasciato entrare) nei meandri, nel dietro le quinte di questa istituzione secolare di Potere per svelarci che il Potere porta anche la solitudine; che chi diventa il capo assoluto può anche non essere all'altezza e dire che preferisce essere condotto piuttosto che condurre; che il Potere è una facciata dietro cui si celano segreti inconfessabili; che non sempre godere del Potere è possibile o apporta vero godimento; che forse è molto più potente chi riesce a dire: no, e a dare priorità a valori, pensieri, azioni o gesti che col Potere hanno poco o nulla a che vedere (cfr. la passione di Melville per il teatro e il suo sogno infranto di fare un giorno l'attore di teatro).

E poi c'è il tema tutto morettiano della critica (divertita) alla psicanalisi: che si presenta (ancora oggi) come una scienza, ma che (ancora oggi) sembra perdere la partita della comprensione totale e risolutiva dei conflitti che albergano nell'animo di ognuno di noi. Lo psicanalista che interpreta Moretti è "il più bravo"; eppure, sembra quasi disperarsi quando capisce che deve restare recluso dentro il Vaticano (e non è che sia riuscito a fare domande "scientifiche" sul male che perturba l'animo del papa); lo psicanalista dovrebbe curare la psiche, così come il prete l'anima dei fedeli, ma sembra che così non è, che anche lui si trova davanti a un fatto inspiegabile e poco razionalizzabile.

Possiamo allora concludere dicendo che, forse, Habemus Papam è un film sui limiti: di Dio, in quanto essere superiore ed infallibile; dell'uomo di fede (come lo è il papa che si rifiuta di fare il papa); dell'uomo di scienza (lo psicanalista che manda il papa dalla ex-moglie). Certe volte nemmeno Dio sa tutto. Certe volte siamo noi a dover fare i conti con i nostri stessi limiti e a dover contare sulle rinunce; certe volte (sembra suggerirci il regista) è molto più eroico saper dire di no e rifiutare il Potere (qualunque sia la forma che esso possa assumere). Non siamo fatti tutti per comandare. E chissà se c'è davvero qualcuno che comanda i nostri destini. O se il destino ce lo forgiamo da soli, con i nostri limiti e le nostre stesse mani...

viernes, abril 22, 2011

IL PENSIERO DELLA MORTE (E GLI ABRUZZESI)



Esistono molti luoghi comuni intorno alle varie popolazioni (alle varie regioni) che formano l'Italia (crogiolo di razze, sin dai tempi della caduta dell'Impero Romano – e forse anche allora – e una delle chiavi del successo dei romani dovette essere proprio la loro capacità di “assorbire” le culture altrui, in modo osmotico e non solo violento). Noi abruzzesi, ad esempio, siamo catalogati, o etichettati, o chiamati in modo vezzeggiativo “forti e gentili”. Come se, in una sorta d'ossimoro, ciò che resta più impresso nella mente di chi abruzzese non è fosse la nostra tipica scontrosità, o rudezza apparente, unita inscidibilmente alla nostra tipica gentilezza, o ospitalità, o capacità di saper accogliere e ascoltare l'altro. Un abruzzese è sempre (per un non abruzzese) “forte e gentile”. E si sa: i luoghi comuni rispecchiano anche parti di verità (a tutti noi potrebbero venire in mente altri tremila esempi: i siciliani sono gelosi; i genovesi sono tirchi; i milanesi sono stacanovisti e pensano solo al lavoro; ai romani nun glie frega, ecc. ecc.).

Ho 34 anni, ormai, e in parte mi piace riconoscermi in questa etichetta di “abruzzese” (anche se la stessa mi è diventata antipatica poche ore dopo il terremoto aquilano, quando i giornalisti e gli sciacalli mediatici vari se ne sono impossessati e hanno cominciato a usarla a ogni telegiornale o collegamento esterno in diretta). Ma col passare degli anni, ho cominciato a notare anche un'altra caratteristica degli abruzzesi (e forse mi sbaglio, sto prendendo un abbaglio, e questa caratteristica non è solo “nostra”, ma di tutti – degli italiani in generale, o anche degli spagnoli, dei francesi, dei tedeschi, degli africani, degli australiani, non so, insomma, se è qualcosa che riguarda tutti, al di là della regione, del paese, della nazione, del continente d'appartenenza, sta di fatto che a me pare molto “tipica abruzzese”). Mi riferisco al nostro usuale modo di rapportarci al pensiero della morte; al modo abruzzese di avere a che fare con la morte, l'Oscura Signora che fa sempre paura a tutti (volenti o nolenti).

Sin da bambino, era scena quotidiana (all'ordine del giorno) assistere a una sorta di ripasso dei morti recenti da parte di mia madre e di mia nonna: appena mia nonna entrava in casa nostra, prima di prendere il caffè, non si limitava a chiedere a mia madre le novità del giorno, ma iniziava lei stessa a elencare a mia madre i morti del giorno (“oggi è morta Loreta”, “oggi è morto Luigi”, “Ma lo sai oggi chi è morto? Il figlio di Anna”, o Maria, o Giuseppina, o Teresa.....). E mia madre non si impressionava affatto: ascoltava e annotava il necrologio in diretta della nonna e magari apportava lei le sue novità (i morti da poco che erano di sua conoscenza), senza scomporsi e senza strapparsi i capelli (nemmeno quando quei morti recenti fossero parenti nostri più o meno alla lontana), con una calma apparente che rasentava l'indifferenza o il menefreghismo...

E ricordo pure con nitidezza come mia nonna provasse una sorta di piacere irrefrenabile nel leggere gli annunci mortuari affissi sui pali della luce o sulle mura delle case vicine alla sua. Esempio banalisssimo: si trattava di andare a comprare qualcosa nella bottega degli alimentari. Mia nonna avvistava un nuovo annuncio funebre. Si fermava e mi diceva: “Fammi un po' vedere chi è che è morto oggi?”. E leggeva: nome, cognome, giorno della dipartita, età e cordoglio dei parenti (“ne danno il triste annuncio i figli e i nipoti tutti”).

Anche quando sono andato via di casa, e ho cominciato a vivere la mia vita da solo a Roma, non sono mai venute meno queste chiacchierate tranquille dei miei intorno ai morti del paese. E ho iniziato a pensare a questi “pettegolezzi” dei vivi intorno ai morti recenti come se si trattasse di qualcosa di tipicamente abruzzese.

Ecco un tipico dialogo sulla morte da parte dei miei conoscenti o parenti abruzzesi (in italiano, anche se in dialetto abruzzese renderebbe meglio l'idea; sarebbe tutto molto più colorito, ironico, divertente, quasi irriverente):

Mia zia ottantenne: “Lo sai chi è morto oggi?”.
Mia nonna, di poco più vecchia della zia: “No, chi?”.
Checchina, la figlia di.... la nipote di... quella che si è sposata con... e che vive vicino a...”.
Ah, sì, ho capito. E com'è morta?”:
E' cascata per terra dalle scale della casa. Dal secondo piano. Tre rampe di scale, poveretta. Quando l'hanno raccattata da terra i dottori le hanno trovato il bacino rotto e la spalla lussata e il collo tutto torto. Ma è stata fatale la cassa toracica: una costola le ha perfortato un polmone”.

Eh, poveretta. Certo che quando arriva la tua ora”.
Non ci sono cristi né santi. Se devi morire, devi morire e punto e basta”.

Sembra che noi abruzzesi non abbiamo paura della morte. O che amiamo esorcizzarla parlando sempre e soltanto della morte dei nostri vicini di casa o dei parenti o di qualcuno conosciuto solo alla lontana. Sembra come se noi abruzzesi volessimo mostrare tutta la nostra “forza” parlando con calma e tranquillità anche di una cosa spaventosa e che incute timore come la morte. Ci sembra quasi di essere “gentili” a ricordare la morte di chi magari abbiamo conosciuto in vita solo di sfuggita e en passant. Forti e gentili e pettegoli della morte degli altri solo perché così ci sembra di poter frenare la nostra paura tutta umana della morte che ci aspetta. Parliamo tanto dei morti perché forse temiamo il giorno in cui saranno gli altri a parlare di noi in quanto morti recenti. Quando non potremo più spettegolare sulla morte di nessun altro. Quando i pettegolezzi riguarderanno noi stessi.

viernes, abril 15, 2011



In a Lonely Place, di Nicholas Ray (USA, 1950): di chi (non) ci si può fidare (mai)


Ancora una volta, devo a quel cinefilo e "folle" di Enrique Vila-Matas la scoperta di questo classico della Storia del Cinema: In a Lonely Place (assurdamente tradotto in italiano con Il diritto di uccidere), un film del geniale, controverso, languido, melodrammatico e decisamente pessimista Nicholas Ray (il regista di - tanto per citare solo 2 titoli indimenticabili - Gioventù bruciata (del 1955) e di Johnny Guitar (1954) - incredibile, se ci pensiamo bene: 2 capolavori nell'arco di 2 anni).

Il film è tante cose insieme: a) una riflessione sul cinema come industria che, spesso, schiaccia chi vi lavora e premia la "ripetizione" dei soliti clichés contro la vera creatività e l'originalità; b) una storia d'amore straziante in cui lo spettatore si vede costretto a parteggiare prima per Dixon Steele (lo sceneggiatore irruento e irascibile interpretato da Humphrey Bogart) e poi per Laurel Gray (interpretata dalla bella bionda di turno, Gloria Gahame) e, infine, di nuovo per Dixon; c) un film sulla violenza che alberga nell'animo umano (e che può esternarsi anche contro chi amiamo di più e più ci è vicino, quando meno ce lo aspettiamo, rovinandoci la festa e la vita).

In soldoni: Dixon Steele scrive sceneggiature - alcune tratte da romanzi di serie B - e vive da "anti-eroe solitario" una vita fatta di tante donne, ma di nessun amore vero; una sera invita una giovane cabarettista a casa sua perché non ha voglia di leggere il romanzaccio da cui dovrà trarre ispirazione per il suo prossimo film, ma, caso vuole, non appena quella ragazza varcherà la soglia di casa sua morirà: qualcuno la strozza e la getta da un auto in corsa in una strada solitaria, nel cuore della notte. Dixon verrà subito sospettato di essere l'autore dell'omicidio, ma una sua vicina di casa, Laurel Gray, giura di averlo visto restare in casa sua - la ragazza, affascinante e misteriosa, confessa di averlo contemplato dal balcone del suo appartamento, che si trova proprio di fronte a quello di Dixon. Tra i due nasce l'amore; un colpo di fulmine a ciel sereno rovinato - tra le altre cose - dalle indagini della polizia, che tallona Dixon, credendolo l'unico possibile autore dell'assassinio.


Il regista è abilissimo nel mostrarci il sorgere della passione tra questi due personaggi: lei bella, giovane e bionda e di cui non sappiamo quasi nulla; lui bruttino (anche se si tratta di un sex-symbol come Bogart, qui veste malissimo e il trucco non lo aiuta), irascibile, vittima di depressione e scatti d'ira anche contro il suo miglior amico. Bastano pochi indizi, poche frasi, per far scattare l'insicurezza e la paura del tradimento in Dixon: da una scenetta romantica in riva al mare (in compagnia di un'altra coppia) si passa subito ad una scena paurosa in cui Dixon, che si crede tradito anche da un poliziotto suo vecchio amico ai tempi della guerra, si mette a guidare come un pazzo e per poco non ammazza un povero conducente che prova ad esternargli le sue rimostranze. 

Avevamo iniziato a fare il tifo per lui (un perdente, uno che in fondo ha bisogno d'una donna che lo comprenda e lo aiuti a superare le sue crisi d'ira - oltre che quelle d'ispirazione), ma poi cominciamo a tifare per lei (che lo ama, ma ci sembra debole, una bella statuina che potrebbe rompersi da un momento all'altro tra le ruvide mani di Dixon). 
Si finisce con climax con una patetica scenata in un ristorante pubblico: l'uomo è ormai convinto che l'amata lo tradisca o voglia mandarlo in galera o non abbia più alcun desiderio di passare le giornate intere in sua compagnia (mentre lui scrive la sceneggiatura del film ancora da farsi rinunciando perfino al sonno e al cibo).


C'è un aspetto che mi ha colpito del film e riguarda lo spazio: come in tanti film di David Lynch, anche in questo di Nicholas Ray vediamo il dietro le quinte di Hollywood, le zone d'ombra che vengono tenute nascoste ai più; il cinema è un'industria e non guarda in faccia nessuno. Se Dixon è diventato uno sceneggiatore famoso lo deve a Hollywood; ma se smette di "produrre storie" (per banali o commerciali che esse siano), smette anche di guadagnare e, soprattutto, di esistere agli occhi dei registi che potrebbero ingaggiarlo. E Lynch deve essersi ispirato anche a The Lonely Place per quelle strade buie e tutte curve che vediamo all'inizio di Mulholland Drive, che è il nome di una delle tante strade che percorrono Hollywood, un posto in cui non è tutto oro quello che luccica e dove spesso a luccicare sono le lacrime sulle guance dell'amata non più amata di Dixon. 

Non ci si può fidare di nessuno su questa terra: e quando poi capiamo di avere sbagliato e di essercela presa con l'unica persona che ci amava davvero è (sempre) troppo tardi. Dixon/Bogart lo sa, ed è per questo che si allontana dando le spalle alla sua donna, alla sua casa e a noi spettatori... Lo spazio della città delle infinite possibilità si trasforma all'improvviso nello spazio angusto e claustrofobico di un cortile dal quale l'attore sparisce per non farvi più ritorno...

miércoles, abril 13, 2011

Walter Benjamin legge Proust

Chi ha già letto un qualche saggio di Walter Benjamin, sa già che si tratta di qualcosa di più d'un semplice "critico letterario". Mi piace definire Benjamin una sorta di "filosofo a-sistematico", uno che non ha mai dedicato nemmeno un minuto della sua vita a costruire un sistema filosofico, ma che, al contempo, è riuscito a "guardare" anche gli aspetti più banali e quotidiani della vita umana da un punto di vista altamente filosofico (intendendo con tale aggettivo un atteggiamento continuamente teso a interrogare la realtà, a metterla in dubbio, a indagarla in modo nuovo, straniante, originale, irruento, anche, se vogliamo). E' un atteggiamento, quello di Benjamin, che appare in tutto il suo fascino in Angelus Novus o nei famosi Passages de Paris. L'altra mattina, invece, mi sono imbattuto in una raccolta di saggi letterari, e, all'interno di questi, in un bellissimo, puntuale, perfetto, "Per un ritratto di Proust". Non oso chiosare (è talmente chiaro, talmente esatto, talmente bello quello che dice l'autore che non c'è bisogno di "chiosare" proprio nulla); mi limiterò a citare:

Poiché qui, per l'autore che ricorda, la parte principale non è affatto svolta da ciò che egli ha vissuto, ma dal lavoro del suo ricordo, dalla tela di Penelope della memoria. O non sarebbe meglio dire dalla tela di Penelope dell'oblio? La “memoria involontaria” di Proust non è forse assai più vicina all'oblio che a ciò che si chiama comunemente ricordo? E quest'opera della memoria spontanea, in cui il ricordo è la trama e l'oblio l'ordito, non è forse il contrario dell'opera di Penelope, piuttosto che la sua copia? Poiché qui il giorno disfà ciò che che aveva fatto la notte. Ogni mattino, quando ci svegliamo, teniamo in mano per lo più debolmente, solo per qualche frangia il tappeto dell'esistenza vissuta, quale l'ha tessuto in noi l'oblio. Ma ogni giorno disfà il tessuto, gli ornamenti dell'oblio con l'agire pratico e, ancor più, con il ricordare legato alla prassi. E' per questo che Proust alla fine ha trasformato i suoi giorni in notti, per dedicare tutte le sue ore all'opera, indisturbato, nella stanza buia, alla luce artificiale, per non lasciarsi sfuggire nessuno degli intricati arabeschi”.

Walter Benjamin, "Per un ritratto di Proust", in Avanguardia e rivoluzione. Saggi sulla letteratura, Torino, Einaudi, 1973, p. 28 (la sottolineatura è mia - e risponde implicitamente, oltre che un po' ironicamente, a un commento precedente della simpatica ed "esperta in materia" Gabrilù) .

sábado, abril 09, 2011

Francesco Orlando docet

“Nutro la singolare convinzione che due rettangoli, due sempre più ubiquitari rettangoli orizzontali, quello della televisione e quello del computer, facciano alla letteratura una sorta di concorrenza sleale: a modo loro canalizzano e socializzano anch'essi, sia pure più banalmente o più meccanicamente, l'immaginario. Ma non mi spingo affatto al timore apocalittico che, di ciò che chiamiamo letteratura, sia prossima la morte – anche perché, essendone stato 'professore', non dimentico a quali e quanti scossoni storici di non minore violenza la letteratura si è adattata e ha resistito sull'arco di tre millenni. Dunque bisognerà continuare a studiarla. Dunque il mestiere di studiarla continuerà ad adempiere una funzione sociale” (p. 16 della Premessa alla raccolta di saggi “Testo e commento”, a cura di Federica Accorsi e Chiara Tognarelli, Pisa, Felici, 2011 ).

jueves, abril 07, 2011

Blade Runner: senza ricordi che uomo sei?


Ieri ho rivisto per la sesta o settima volta Blade Runner, il capolavoro di Ridley Scott del 1982, tratto dal romanzo fantascientifico di Philip Dick Ma gli androidi sognano pecore elettriche?


C'è una scena del film che mi colpisce sempre - a ogni nuova visione, anche se la conosco a memoria e me l'aspetto, perché so esattamente quand'è che "capiterà" - ed è quella in cui Rachael si siede davanti ad un pianoforte, si scioglie i capelli (che porta pettinati secondo la moda degli  anni 40 o 50) e inizia a suonare con grande abilità e senso del ritmo. Deckard si alza dal letto su cui riposa e le si avvicina, posizionandosi dietro le spalle di lei. Lei continua a suonare e dice una frase strana: "Non sapevo di saper suonare". E infatti, Rachael, come lo spettatore a questo punto sa già, è un'androide, ovvero, una macchina dalle sembianze umane talmente perfetta e realistica che - nella società futuristica immaginata nel film, nella Los Angeles del 2019 - è diventato difficile, se non impossibile riuscire a distinguerla dagli esseri umani.


Rachael non sapeva di saper suonare e Deckard le spiega che anche le sue abilità, i suoi gusti e i suoi ricordi non sono in realtà "suoi", ma pezzi di memoria inseriti dall'azienda che l'ha fabbricata, con tanto di data di scadenza.


Ecco: scoprire che i nostri ricordi non sono nostri, ma infilati nel cervello da qualcun'altro, sapere che quello che provi e che ti emoziona corrisponde a una serie numerica di formule e dati e computi matematici è un incubo, uno dei tanti incubi che Philip Dick immaginava scrivendo le sue storie ambientate in un futuro cupo proprio perché privo di quel senso dell'umanità che ci rende umani e perciò deboli, limitati, consci del fatto che, prima o poi, la "macchina" si spegne (il cuore smette di pompare sangue e moriamo).




La paura, o meglio ancora, l'angoscia che inizia a invadere Rachael è evidente dalle espressioni del volto che avrà da quel momento in avanti, fino alla fine del film, al di là dell'amore che Deckard inizierà a provare nei suoi confronti fino all'altra scena famosa, quella in cui è lui a ordinarle di dirgli "Ti amo" e "Stringimi forte"...


Blade Runner è un classico perché - esattamente come le opere classiche della letteratura - ci parla di problemi eterni attorno a cui continueremo ad interrogarci finché riusciamo a sopravvivere su questo pianeta.


Rachael non sapeva di saper suonare; e ora dovrà pure imparare ad amare (sempre che le abbiano introdotte le "informazioni" giuste per provare un sentimento come l'amore). E Deckard? Che amore può pretendere da un androide? Non rischia di innamorarsi di una macchina? Si può scaldare il cuore di una donna fatta su misura dai computer? Ma gli androidi sognano pecore elettriche?




Qualche critico suggerisce un'ipotesi interpretativa affascinante: anche Deckard potrebbe essere un androide, simile in tutto e per tutto all'amata Rachael. E questo spiega ancora meglio la fuga dei due alla fine del film... lontano dai magnati dell'impresa elettronica che ha fabbricati i "replicanti"; lontano dalla polizia; lontano dalla città sporca e piovosa, piena di spot e di pubblicità che proiettano sempre le stesse identiche immagini da schermi che volano in un cielo senza stelle.

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...