lunes, agosto 31, 2009

Robert Capa e la fotografia di un istante che fa Storia

L'ultimo viaggio che ho fatto a Barcelona mi ha permesso di entrare in Musei organizzatissimi in cui erano esposte mostre temporanee davvero belle: una è questa, sulla storia del jazz, presso il "Centre de Cultura Contempanìa de Barcelona" (noto anche come il CCCB) (qui info e qualche assaggio:http://www.cccb.org/en/exposicio-el_siglo_del_jazz-25706) e l'altra è questa, sulla vita e le opere di Robert Capa e della sua compagna di una vita Gerda Taro, presso il "Museo Nacional d'Art de Catalunya" (noto anche come MNAC (qui info e qualche foto: http://www.mnac.cat/index.jsp?lan=001).

Non sapevo granchè di questo fotografo; sapevo che è stato uno dei primissimi fotoreporter di guerra della Storia. E, in quanto tale, uno dei testimoni di prima mano di quanto successe sia nel corso della Guerra Civile Spagnola (una specie di "prova generale" di quello che sarebbe poi stato la Seconda Guerra Mondiale) sia nel corso dello stesso secondo terribile conflitto mondiale...

Quello che colpisce di Capa è che sembra essere presente (anzi, diciamo pure che sembra gettarsi in mezzo all'azione clou) sempre nel momento della massimo tensione e suspense. La foto più famosa di Capa questo ci dice: che un uomo, un repubblicano (uno di quelli che combattè contro i fascisti guidati da Franco e a favore di una Spagna che fosse, per quanto possibile, libera e democratica) è stato colpito dal proiettile del fuoco nemico e che allarga le braccia poco prima di cadere a terra senza vita, col viso contratto e il fucile in procinto di scivolargli definitivamente dalla mano...



Non so (non sappiamo) chi sia questo soldato (anche se in realtà so benissimo che possiamo venire a sapere chi sia grazie alla quantità degli studi e dei saggi che sono stati dedicati a Capa nel corso degli anni): in realtà, se sotto la foto non apparisse la didascalia "Muerte de un miliciano republicano" non sapremmo nemmeno che quell'uomo è un soldato e che sta morendo nel corso di una battaglia e che quella è solo una delle tante battaglie che si sono combattute in Spagna nel 1936 (l'anno in cui scoppiò la Guerra Civile). Ciò che colpisce di Capa e del suo modo di lavorare è che egli "centra" (per così dire) l'obiettivo (ed è connatturata alla macchina fotografica questa sua seconda natura violenta, come di arma da fuoco che serve a mettere a fuoco e a "colpire" e "centrare" il bersaglio - l'immagine che si desidera catturare) non il momento prima della sparatoria nè quello immeditamente successivo, ma proprio quello "in mezzo" o "centrale", catartico, in cui l'uomo è stato colpito dal proiettile nemico.

Di tutt'altro stile è Gerda Taro, sua amante e fidanzata, sua complice e fedele alleata (si è scoperto anche che alcune delle migliori foto che venivano attribuite a Capa erano in realtà opera di Gerda). Questa fotografa merita un post a parte (anche per la brutta fine che ha fatto, proprio in Spagna, nel 1937, quando il fidanzato scattava foto che avrebbero testimoniato la Storia - e fatto storia in tutto il mondo - e lei, parimenti, si dava da fare sullo stesso versante, quasi in competizione con il fidanzato, prima che un carroarmato la schiacciasse troncandole per sempre la vita e la fama). E comunque, dicevo: lo stile è diverso; basta guardare questa, che è una delle foto più famose di Gerda Taro:




Siamo sempre in terra iberica; siamo sempre nell'ambito della Guerra Civile; ma qui lo spettacolo della morte ci viene risparmiato a favore di una visione quasi estatica; questa donna-soldato repubblicano prende la mira come John Wayne in un film western; è bellissima sia per la posa che assume che per le scarpe che indossa; ha dei capelli mossi che contornano un viso che si ipotizza dolcissimo (anche se è troppo distante dall'obiettivo); anche a questa distanza, lo spettatore resta colpito dalla plasticità e dalla maestosità di questa ragazza che, spinta da un ideale, si sta giocando la vita in un frangente che non ha nulla di finto o di cinematografico (anche se, ripeto, la posa sembra quella di un'attrice da western alla John Huston).

Se nella prima foto (quella di Capa), lo spettatore si sdegna e prova pietà per un individuo come quello che si batte e cade in battaglia per un ideale; nella seconda (di Taro), quello stesso spettatore non può che provare ammirazione e stupore nei confronti di una donna che deve avere un coraggio enorme, un fegato così, un altruisimo e una passione che fanno restare a bocca aperta. Non solo: il tutto espresso da un corpo e da un viso di donna che si indovina bellissima. Bella e appassionata. Una sorta di Venere incazzata che prende la mira e che sta per fare fuori il nemico perchè crede davvero che quello sia il nemico da eliminare; perchè crede davvero in un ideale e vuole difenderlo a tutti i costi.

Il fatto che noi non vediamo se il proiettile della ragazza colpirà qualcuno; il fatto di conoscere retrospettivamente come sono andate a finire davvero le cose (ovvero, il fatto che poi, terminata la guerra nel 1939, ha vinto Franco e il bando fascista, e che Franco ha imposto alla Spagna una dittatura
durata quasi 40 anni e terminata solo con la sua morte, nel Novembre del 1975), non ci impedisce di cogliere proprio in questi due scatti un pezzo (dei pezzi) di Storia. Tanto la "Morte di un soldato repubblicano" quanto "Donna soldato repubblicana" (questo credo sia il titolo della foto di Gerda) ci mostrano come erano e ci suggeriscono cosa pensassero quelli che, schieratisi da una parte, combattevano per una Spagna libera dai dittatori e dai partiti reazionari.

Ancora Capa: questa è la foto che più mi ha colpito, la mia preferita, tra quelle di questo fotoreporter "storico" (e alquanto pazzo; nessuna persona sana di mente si mette a fare una foto in mezzo ai soldati che stanno facendo addirittura "lo sbarco in Normandia"; nessuna persona normale potrebbe anche solo pensare di puntare l'obiettivo sui giovani soldati americani pronti a giocarsi la pelle pur di liberare l'Europa da Hitler e compagni):




Quello che si vede è solo un pezzo (di nuovo, quanti pezzi in questo pezzo su Capa) dell'azione "storica"; l'immagine è sfocata, nel senso che non è a fuoco; e si capisce: il fotografo dovette scattarla sulla sabbia, in riva al mare, in mezzo al frastuono e al caos, alle onde, e alle sirene, ai missili e all'acqua smossa dall'esercito liberatore dei marines americani.

Il marine ha in mano una mitraglietta e indossa l'elmetto antiproiettili; non si sa se già tocca fondo o se stia ancora nuotando. Posso immaginare quanto sia stata fredda quell'acqua; posso soltanto immaginare con quanto coraggio e con quanta fifa insieme quel marine sia sceso dalla nave (o dal sottomarino) che lo ha portato fin là per attaccare i soldati tedeschi. Mi è del tutto ignoto, invece, quale fosse stata la funzione di quelle specie di croci di ferro che si intravedono dietro il soldato (quelle stesse croci che Spielberg ha ripreso tanto fedelmente nell'incipit davvero "pauroso" di Salvate il soldato Ryan); mi è ignoto anche lo stato d'animo di Capa. Capisco che è stato davvero incosciente a fiondarsi così nella mischia. E comunque lo ringrazio, perchè anche se la foto non gli è venuta così bene, come avrebbe voluto lui, è anche grazie ad essa che io oggi posso tentare di capire cosa sia stata la fine della Seconda Guerra Mondiale...o l'inizio della fine della stessa...

viernes, agosto 28, 2009


J. M. Coetzee, Diario de un mal año, Barcelona, Debolsillo, 2009 (tit. originale: "Diary of a Bad Year", 2007; trad. it.: "Diario di un anno difficile", Torino, Einaudi, 2008).

Di Coetzee, Premio Nobel per la Letteratura del 2003, avevo letto soltanto un romanzo, Vergogna, il titolo (di cui parlai in questo blog qualche tempo fa, mettendolo a confronto con il divertente L'elenco telefonico di Atlantide di Tullio Avoledo). In questi giorni, mi è capitata tra le mani la traduzione spagnola del suo Diary of a Bad Year (che gli italiani hanno mal tradotto con "Diario di un anno difficile", quando nell'originale si capisce benissimo che si sta parlando di un anno "cattivo", e non "difficile", comunque...).

Che cos'è questo Diario? Come classificarlo? Si tratta veramente di un diario? La risposta è difficile. Tipograficamente il lettore si trova davanti non una, bensì 3 storie o pezzi di diario differenti e alternati tra di loro in modo simmetrico e costante. Il primo diario (o presunto tale) è quello redatto da una sorta di alter-ego dell'autore: uno scrittore afroamericano molto famoso e ormai invecchiato cui viene chiesto di descrivere le sue impressioni e i suoi pensieri sulla politica e sul mondo contemporanei. Il diario verrà pubblicato da una casa editrice tedesca insieme alle impressioni di altri autori importanti sotto il titolo (nabokoviano) "Opiniones contundentes" (che sembra effettivamente la parafrasi di Intransigenze di Vladimir Nabokov). Il secondo diario narra invece le vicissutidini dello stesso scrittore nel momento in cui contratta una bella e giovane filippina per farsi "mecanografiar" i suoi testi in quanto impossibilitato a trascriverli in bella copia sia per problemi di vista che per un incipiente forma di Parkinson (anche se, nel corso del libro, non si dice mai esplicitamente quale sia la malattia - forse mortale - che porterà l'uomo vicino alla morte). Il terzo diario, infine, è quanto narra (dal suo personale e soggettivo punto di vista) la stessa ragazza filippina, la cui vita subisce un insperato cambiamento radicale proprio a causa di questo lavoro inaspettato in qualità di "redattrice" dei pensieri di un altro (un intellettuale, addirittura, una persona famosa le cui parole vengono ascoltate e criticate da molti).

Quello che colpisce del "Diario" (che, a questo punto, si struttura anche come romanzo, in quanto dotato di inizio, sviluppo e fine catartica inclusa) non è solo e non è tanto quanto viene detto in modo "contundente" dallo scrittore, quanto e soprattutto il modo in cui questi 3 diversi piani o livelli narrativi si intreccino fra loro creando cortocircuiti davvero inaspettati e "moralmente" rivelatori di quello che pensa davvero lo scrittore, di quello che pensa la ragazza filippina di lui e di come i pensieri di entrambi si modificano proprio per il contatto quotidiano che si stabilisce tra chi "detta" e chi "trascrive" e mette nero su bianco quello che la voce "dice" o "pensa".

E' inutile aggiungere che, alla fine di questo contatto, i due cambieranno per sempre il loro modo di agire, oltre che il loro modo di rapportarsi alla vita.
E' interessante, invece, sottolineare come Coetzee, in questo "diario", riprenda lo stesso atteggiamento critico e moralmente teso che aveva già manifestato in Vergogna (e che, temo, abbia manifestato anche nei restanti romanzi): Coetzee, come Dostoevskij, sa creare letteratura a partire da interrogativi morali; non ci dice mai direttamente dove sta il bene e dove il male; drammatizza il ruolo che bene e male hanno (sempre) nella nostra vita quotidiana (e in quella "romanzata" dei personaggi da romanzo).

Gli spunti che offre in tal senso l'autore sono "infiniti". Dal significato della parola "anarchia" alle sue considerazioni sulla politica di Bush Jr. e sulle prigioni di Guantanamo; dal modo in cui "uccidiamo" e "mangiamo" gli animali alla pedofilia; dal sentimento della "compassione" alle analisi dei romanzi dello stesso Dostoevskij, Coetzee, attraverso il suo alter-ego con difetti di vista e mani tremanti a causa della malattia che gli impedisce di trascriversi da solo i propri pensieri, ci fa riflettere su quello che siamo diventati dopo l'11 Settembre 2001 e su quello che potremmo arrivare a essere in futuro.

Uno dei tanti "pensieri contundenti" o "affilati" di questo scrittore ormai in declino:

"Nasciamo sudditi. Dal momento in cui nasciamo siamo sudditi. Un distintivo di questa condizione è il certificato di nascita. Lo stato perfezionato detiene e protegge il monopolio di certificare la nascita. O ti danno il certificato dello stato (e lo porti con te), e con esso acquisisci una identità che nel corso della vita permette allo stato di identificarti e di seguire le tue orme (di ripescarti), oppure vivi senza identità e ti condanni a vivere fuori dallo stato come un animale (gli animali non hanno documenti d'identità).
Non solo non puoi entrare nello stato senza certificazione: per lo stato non sei morto fino a quando non viene certificata la tua morte; e può certificare la tua morte solo un funzionario che, a sua volta, detiene una certificazione da parte dello stato. Lo stato procede alla certificazione della morte con straordinaria meticolosità, come dimostra l'invio di un gran numero di scientifici forensi e burocrati per ispezionare e fotografare e toccare e spingere la montagna di cadaveri umani che lasciò dietro di sè il grande tsunami del dicembre del 2004, al fine di stabilire le loro identità individuali. Non si bada a spese affinchè si assicuri che il censo dei sudditi sia completo ed esatto.
Che il cittadino viva o muoia non è un problema che preoccupa lo stato. Ciò che importa allo stato e ai suoi registri è sapere se il cittadino è vivo o morto".
(p. 12 dell'ed. spagnola; la traduzione è mia).

lunes, agosto 24, 2009

La cipolla, di Antonio Moresco (Torino, Bollati Boringhieri, 1995): romanzo mancato sull’amore come mistero



Di che cosa parla La cipolla di Antonio Moresco? Premetto che l’attesa era molta, dopo l’esperienza compiuta leggendo quel capolavoro sconclusionato, erotico, sconvolgente, ironico e iperrealista che è Canti del caos. E anticipo che La cipolla mi ha deluso, dandomi come l’impressione di qualcosa di non concluso, di non perfettamente chiuso o architettato nelle sue parti. Come un abbozzo della furia che l’autore ha portato al parossismo soltanto dopo, nelle tre parti dei Canti del caos.

Ma andiamo per ordine: chi narra è un io anonimo che osserva il mondo esterno come da una distanza che gli impedisce di capire bene dove si trova; ai suoi occhi, la realtà “oggettiva” sembra immersa nella nebbia (“Mi capitava di riconoscere voci conosciute provenienti da volti sconosciuti”, afferma a p. 26, agli inizi della sua vicenda esistenziale). E in effetti, il senso di spaesamento è voluto: fino alla fine del romanzo, non sapremo mai dove ci troviamo, in quale città (reale o fantastica) è ambientata la vicenda.

L’io è spaesato anche per il rapporto che stabilisce con la compagna: nemmeno di questa ragazza sapremo mai il nome; in realtà, e per dirla tutta, della donna non sapremo mai nemmeno com’è fatto il viso, come porta i capelli, come cammina, quanti anni ha. Si sa solo che ama ascoltare la musica con le cuffiette (e il protagonista maschile pensa che dalla vagina di lei possa uscire quella stessa melodia che la cattura) e che si presta a volte controvoglia alle avances sessuali del compagno, una sorta di “amante ipersessuato” la cui vita inizia a subire una inquietante mutazione nel momento in cui scopre che, adiacente alla loro camera da letto, c’è la camera di un’altra coppia che, a quanto si intuisce, è spesso intenta a fare l’amore o a scambi di effusioni più o meno innocenti.

Chi di noi non si è fermato a sentire (a origliare, appiccicando magari l’orecchio alla parete) qualcuno che, a notte fonda, se la spassava con il partner sotto le lenzuola? Chi non ha mai avvertito la tentazione di passare al di là del muro per vedere con i propri occhi e per sentire con le proprie orecchie i gesti, le parole, gli sguardi di una coppia di amanti?

L’anonimo protagonista ribattezza i due con i nomi (alquanto ridicoli) di Tato e Tata. Li spia, ne immagina i dialoghi, o i mozziconi di dialoghi possibili, spingendosi sempre più in là nelle perversioni che pratica con la propria compagna. Scatta una sorta di sfida tra le due potenziali coppie di amanti in cui il protagonista si riserva il ruolo (in realtà mai adempiuto) del regista che sa e che vede tutto.

Le descrizioni dell’atto (o del desiderio) sessuale risultano però anch’esse un po’ troppo macchinose; come al cinema, così in letteratura: è impossibile descrivere – narrare – raccontare per immagini o a parole cosa succede quando due persone fanno l’amore (o fanno sesso selvaggio, nei casi in cui il sentimento amoroso non c’è o latita). Moresco si sofferma troppo e in modo fin troppo ginecologico su certe scene che, pur rasentando la pornografia (o proprio per questo motivo) ci lasciano indifferenti o inerti, non ci scioccano, né riescono mai a commuoverci e a rivelarci parte del mistero legato al sesso (e all’amore che si esplica attraverso di esso); cito, su tutte, quella che appare a p. 55:

“Le tenevo aperta la vulva con le dita, da sotto, fantasticavo di farci penetrare la mano tutta intera, distendendola all’interno un dito dopo l’altro fino ad afferrarmi il pene conficcato dentro il retto, gonfio e nero e pieno di papille, masturbandomelo dentro di lei fino a farlo sparare contro la massa morta delle feci. Lo sentivo contrarsi duramente, quasi disarticolandole le ossa. Lei gemeva più forte, allarmata, mentre menavo gli ultimi colpi in quella melma scura e calda, parte materna della donna”.

Sembra più la descrizione d’una battaglia campale che quella di un rapporto passionale. Quando si parla di sesso (al cinema o in letteratura, ribadisco, l’errore è il medesimo) o si adotta l’ellisse o si adotta la tecnica della descrizione chirurgico-ginecologica: nel primo caso possiamo imbatterci in Paolo e Francesca così come ce li presenta Dante nel canto VI dell’Inferno; nel secondo caso, invece, possiamo incontrare Justine e compagne così come ce le narra ne La filosofia nel boudoir il Marchese De Sade; tra le due tecniche io preferisco la prima; ciò non toglie che sia grande letteratura anche quella che ha scritto il Divin Marchese (o quella che avrebbe potuto scrivere Moresco ne La cipolla se avesse fatto più attenzione a certi effetti “splatter” che, sinceramente, aggiungono poco o nulla al contenuto del romanzo).

E con ciò torniamo al romanzo: il narratore-protagonista soffre per un rapporto sempre più ossessivo sia verso l’amante che verso i due sconosciuti vicini di casa. Compra anche due tartarughine; le nutre, ma muoiono (prima l’una poi l’altra). Gira come uno zombie per le strade della città senza nome fino a quando, tornando a casa, non s’imbatte in una cipolla (quella cui allude il titolo non è una cipolla vera; è solo disegnata, ovvero scolpita in bassorilievo su una delle mattonelle che sovrastano il letto matrimoniale). Il protagonista l’osserva fino a quando non si accorge che l’umile cipolla sta germogliando. Alla fine, questo fenomeno naturale sembra assumere valore simbolico rispetto alla vita che la compagna sembrerebbe albergare nel suo utero, pronto a dare fertilità a una creatura futura.

Ecco, questo finale lascia inconcluso il tutto: ma non perché sia un vero “finale aperto”, quanto perché lascia l’intera trama a galleggiare in un vuoto in cui le parti non si tengono, sono come sfilacciate tra loro.

I presupposti per scrivere un ottimo romanzo sul mistero dell’amore (e del sesso) c’erano tutti; gli strumenti che Moresco ha usato per conseguire questo scopo (se mai abbia davvero voluto conseguirlo – in fin dei conti, sono un semplice lettore, e non pretendo di stare dentro la testa di uno scrittore tanto affascinante, quanto complesso e, a volte, disturbante, come è per me Moresco) risultano però inadeguati.


Non sapremo mai se il protagonista riuscirà a superare la crisi e ad accompagnare la propria donna in un cammino di crescita spirituale come uomo e come (futuro) potenziale padre; e non sapremo mai se la donna darà davvero vita a un (futuro) potenziale figlio. Così come non si saprà mai che fine faranno Tato e Tata, dopo tanti dialoghi spiati o riportati solo di traverso (dialoghi forse tutti immaginari perché immaginati dal protagonista perturbato).

Aspetto di leggere Clandestinità per dare un nuovo giudizio su Antonio Moresco; per il momento, Canti del caos resta il suo capolavoro; e Lettere a nessuno un libro bellissimo, scottante e che andrebbe letto e riletto anche a scuola. Quello sì, è sia un romanzo sia un ottimo reperto su che cosa è diventata (oggi) l’Italia. La cipolla no, questo no. Non mi ha convinto.

viernes, agosto 21, 2009

Primer día




Esiste sorriso più bello, smagliante, smargiasso, simpatico e accattivante di quello che sfoggia Julieta Venegas in questo video?


La canzone "es la hostia", come direbbe un mio amico spagnolo... E le parole mi fanno venire in mente un periodo della mia vita, una persona lontana, quella casa in Calle Valdecanillas, quella birra al bar del centro di Madrid... e un mucchio di altre cose.

Evviva Julieta!

miércoles, agosto 19, 2009


Woody Allen e la modestia

"La mia sensazione oggettiva è che non ho conseguito nulla di significativo dal punto di vista artistico. Non lo dico con rammarico, descrivo soltanto quella che mi sembra la realtà. Non sento di aver fornito un vero contributo al cinema. Rispetto a registi miei contemporanei come Scorsese, Coppola o Spielberg, non ho davvero influenzato nessuno, almeno in modo significativo. Diversi tra i miei contemporanei hanno influenzato le nuove generazioni di registi. Stanley Kubrick potrebbe esserne l'esempio principale. Io non ho avuto alcun tipo di influenza. Ecco perché mi sembra strano essere stato al centro di tante attenzioni nel corso degli anni. Non ho mai avuto un pubblico vasto, né ho mai fatto registrare incassi stratosferici, mai affrontato temi controversi o aderito alle mode del momento. I miei film non hanno stimolato un dibattito nel paese intorno ad argomenti sociali, politici o intellettuali. Sono film modesti, realizzati con budget modesti, che hanno generato profitti modesti senza lasciare un grande segno nel mondo dello spettacolo. Non vedo giovani registi smaniosi di imitarmi o di girare i loro film come faccio io. Non ho mai avuto la perizia tecnica sufficiente o la profondità d'intelletto sufficiente a stimolare riflessioni in alcuno. Sono un commediante di Brooklin-Broadway che ha avuto molta fortuna.
Penso di essere un po' come - a meno del suo genio straordinario - Thelonius Monk nel jazz, che era qualcosa di completamente a parte; nessuno suona davvero come Thelonius Monk, né ha l'ambizione o l'interesse a farlo".
Woody Allen con Eric Lax. Conversazioni su di me e tutto il resto, Milano, Bompiani, 2008, pp. 591-92.

domingo, agosto 16, 2009

Ferragosto triste

Mentre a Ferragosto tutti si divertono (o si presume lo facciano, nei vari posti di villeggiatura previsti dalla norma - mare, montagna o campagna, solo gli "sfigati" restano in città), io lavoro e faccio entrare in albergo gente assurda, come questo cinese che mi parla in un inglese davvero maccheronico e incomprensibile ("but what do you want?", esplodo, roso dallo stress; "may I..." e poi più nulla, solo un suono vago, uno strascico di voce che m'impedisce di soddisfare la sua richiesta), o come questo gruppetto di studenti americani con i calzoncini hawaiani che, non fanno nemmeno in tempo a poggiare la valigia ai piedi del banco, mi stanno già chiedendo la pass-word per la connessione wire-less (come se per loro fosse impossibile spostarsi in un altro luogo della Terra senza internet; sono a Firenze, la culla del Rinascimento - quando si viveva ancora nel Rinascimento, non certo oggi! -, la patria di Dante - scrittore cui non pochi fiorentini hanno reso la vita un incubo! -, la mecca dell'arte quattro e cinquecentesca - da Giotto a Leonardo, a Michelangelo e a Bernini, e loro cosa fanno? Pensano a controllare le email, a vedere come va il loro profilo su Facebook, a chattare con qualche caro amico rimasto a casa via Messanger, ma si può?).

Ormai la gente arriva già incazzata; hanno già pagato la stanza, via internet, e hanno già consultato i giudizi degli altri ospiti (di chi li ha preceduti, nel tempo, all'interno della stessa struttura). C'è anche chi ha già pubblicato le proprie foto; chi deride gli angoli dell'hotel più brutti o fatiscenti o old-style (detti anche vintage). C'è un mucchio di persone che parte prevenuta. E si è persa, purtroppo, la voglia di viaggiare per scoprire davvero le cose; i luoghi, gli usi e i costumi degli altri. Le curiosità inevitabilmente "esotiche" che potremmo scoprire in un'altra cultura, giudicandola dalla nostra (quella veicolata dalla nostra lingua madre, in cui siamo - costantemente e per sempre - immersi).

Nessuno sorride più. E anche andare in vacanza sembra essere diventata un'esperienza obbligatoria. Siamo troppo gregari, lo diceva anche il mio amico romano, Roby: lui odia fare quello che fanno gli altri, soprattutto se gli altri si ritrovano a farlo nello stesso spazio.

Roby è come me: se vede un bar super-affollato (perché magari è quello in cui fanno il miglior gelato del centro) scappa a gambe levate; se vede un ristorante pieno di turisti è certo che lì si mangerà male (o non così bene come potrebbe capitare in un'osteria nascosta e poco appariscente, una di quelle a gestione familiare che solo quelli del posto conoscono e raccomandano).

La gente che arriva in hotel ha le borse sotto gli occhi e non riesce mai a dormire. Non saluta e non ringrazia per le informazioni che vengono loro offerte a titolo del tutto gratuito.

C'è chi ha cercato la Torre di Pisa nei pressi degli Uffizi. E chi ha creduto che il David che si vede al Piazzale Michelangelo sia quello originale. E c'è chi gira a vuoto con la moglie o la fidanzata, convinto di essersi dimenticato di avere spento il gas e così ti trasmette la sua ansia e ti rovina quel poco di Ferragosto che ancora resta da festeggiare. E chi, insonne, ti chiama anche solo per fare due chiacchiere ("Can I have two more pillows, please?")...

sábado, agosto 01, 2009


S-venture d'inizio Agosto


Ne ho approfittato: ho usato questi 3 giorni liberi dal lavoro per invitare a Firenze i miei e mio fratello. E' stato bello rivederli tutti insieme, una tavolata da 7, inclusa Alyssa e la madre, mia suocera, e mia sorella Ale, e i 2 gatti (Pallina e Biscotto)... E' sempre entusiasmante rivedersi dopo così tanti mesi, le chiacchierate faccia a faccia fanno un'altro effetto rispetto alle lunghe conversazioni telefoniche. Alyssa sbandava per mettere a posto i piatti, mentre mio padre bestemmiava contro la tv comprata all'Esselunga e già predisposta per il Digitale Terrestre (ma di esso, DTV, nemmeno l'ombra). E mia madre a parlare male di me, anche se con tono ironico, e divertito, di quando, fanciullo, mi dilettavo di sadismo e mi piaceva riempire di botte mio fratello, l'ho mandato al pronto soccorso in più d'una occasione, Alyssa ride, non ci crede, e allora Dadda, mio fratello, le mostra i segni delle cicatrici, son ancora ben visibili sulla fronte e sugli zigomi, ce n'ha anche una in corrispondenza del labbro inferiore, quando il freno della sua BMX gli s'infilò in bocca, perché io gli avevo letteralmente messo i bastoni fra le ruote... Che ricordi, che tempi, che vita, quella vissuta in passato accanto a Dadda!

Poi loro ripartono per l'Abruzzo, prima però devo accompagnare Alyssa a lavoro, e poi Dadda a Santa Maria Novella, perché si da il caso che parte per la Spagna, facendo tappa a Milano, andrà là con una mia vecchia conoscenza (spagnola e antica fiamma, loro due sono rimasti in buoni rapporti, io e lei non abbiamo più rapporti da circa 10 anni). Destinazione: Madrid, la capitale, col caldo che fa... E così, prima di riprendersi lo zaino, Dadda mi chiede un libro in prestito, sai, il viaggio è lungo, ci vogliono 3 ore, anche con l'Eurostar, che libro posso leggermi?

Gironzola nella mia biblioteca, osserva qualche titolo interessante, o che suona tale. Prende un libro; poi lo riposa. Poi afferra uno dei primi romanzi di Sandro Veronesi, dal titolo azzeccato al momento che si appresta a vivere (uno lascia l'Italia per la Spagna e sa già - in anticipo - che è come lasciare l'Inferno per il Paradiso, o il Terzo Mondo per Utopia): Per dove parte questo treno allegro. Mi chiede anche di che parla. Non me lo ricordo più. Comunque, di sicuro, scorre bene, è una lettura piacevole, nel mezzo della trama ci deve essere un padre e un figlio, ma ora non ricordo bene cosa fanno, perché partono, e se partono davvero in treno...

Baci e abbracci davanti alla stazione. Poi lui sale sul treno, Alyssa sullo scooter per andare a lavoro, i miei sull'auto, per imboccare l'A1 e tornare in provincia dell'Aquila, insomma, resto solo come uno stronzo a guardare alcuni pakistani che bevono birra sotto il sole cocente e alcuni barboni che spostano non si sa bene perché diversi carrelli delle valigie, blaterando tra loro non si capisce bene cosa né in quale lingua...

Dopo 3 ore e 15 minuti esatti ricevo la chiamata di Dadda:

"Scusa, fratè, ma che per caso dentro a quel libro ci avevi qualcosa d'importante? C'erano degli appunti... sai? Delle cose scritte a penna da te...".

Non ricordavo il contenuto di Per dove parte questo treno allegro; figuriamoci se sospettavo che dentro vi avevo lasciato degli appunti:

"No, mi pare di no, perché? Che appunti erano? Che c'era scritto?".

"No, perché, sai, m'è successa una cosa incredibile: stavo leggendo il libro, mi piaceva pure, scorreva bene, quando a un certo punto sento l'irrefrenabile desiderio d'annà a piscià, e così, me lo porto nel cesso, piscio, lo lascio sopra a uno sportellino, torno al posto, e m'accorgo d'averlo dimenticato in bagno, aho, fraté, nun ci puoi crede, nemmeno questione di due minuti, torno e il libro era sparito! Sparito, te rendi conto?".

Non so se piangere o se ridere. Dadda scoppia a ridere. E mi promette che me lo ricomprerà alla stazione di Milano al ritorno dal suo viaggio in Spagna ("com'era? Dove va questo allegro treno? o Di chi è l'allegro treno?"): poi penso che Sandro Veronesi avrebbe potuto trarne un bellissimo racconto da un incidente simile; poi rifletto: cazzo, un libro che prende mio fratello, è un miracolo... manco fosse Dan Brown!

L'unica soluzione è non pensarci. E allora afferro la mia mountain-bike e vado a correre in riva d'Arno, che è meglio...

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...