domingo, noviembre 30, 2008

El pasado, di Alan Pauls (Barcelona,
Anagrama, 2003)

Fra gli acquisti dalla Spagna, El pasado, dell'argentino Alan Pauls, è il primo romanzo che sto leggendo con una certa foga. Eppure so, lo sento, che non è un capolavoro, tantomeno un bel libro... Però mi attrae, mi attira, e non posso lasciarlo in pace...

Rímini fa il traduttore e l’interprete dal francese e dopo 12 anni trascorsi con Sofía si lascia e inizia a rivivere una nuova vita da single. Il romanzo indaga gli effetti della “fine di una relazione di anni” attraverso la voce di un narratore esterno che sposa il punto di vista del giovane protagonista e usa l’ironia sia nei suoi confronti sia nei confronti di Sofía. I due si amano e si odiano anche quando ormai sanno che non c’è più nulla da fare e che il rapporto sentimentale che li ha tenuti insieme per tanto tempo non potrà (mai) più tornare a essere quello che era.

El pasado non è un libro bello; ci sono dei brani che sembrano mimare in modo eccessivo la scrittura d’una sceneggiatura cinematografica (e non deve essere un caso se il libro, nel 2006, è diventato un film – con titolo omonimo – diretto da Héctor Babenco e interpretato dal famoso e quotato Gabriel García Bernal (attore che non dimenticherò più dopo la prova di Y tu mamá también, con la bellissima Maribel Verdú)); altri che sembrano echeggiare toni alla Philip Roth – lì dove il narratore si erge a “deus ex machina” che sa tutto sull’amore; altri ancora in cui la voce dello stesso sembra voler caricare la pagina di echi lirici finendo con lo scadere a tratti nella parodia o scimmiottatura della “nota proustiana”. Però “me engancha”, mi intrattiene, non riesco mai ad annoiarmi del tutto, nonostante i difetti succitati e nonostante la lunghezza forse eccessiva (più di 500 pagine per una sorta di “fenomenologia” della fine dell’amore).

Restano impresse alcune scene, particolarmente felici nella resa stilistica ed efficacemente “plastiche” nella capacità di farci toccare con mano il “mal d’amore” (di cui soffriamo quando, appunto, la persona che amiamo ci lascia – o quando noi, per i più svariati motivi, decidiamo di mollare la persona che dicevamo di amare). Come quando Rímini, subito dopo la rottura, si reca nell’ufficio del suocero, gli compra un maglione alla moda, convinto di aver fatto la scelta giusta, e si accorge che Sofía lo ha anticipato nel tempo, comprandogli lo stesso maglione di lana viola che lui aveva adocchiato sotto l’ufficio. Rímini è costretto a nascondere il pacchetto e a riflettere su quanto “simili” siano stati durante tutti quegli anni i pensieri e le scelte sue e di Sofía in quanto “coppia indissolubile” (coppia all’interno della quale l’uno sapeva anticipare senza esitazioni i desideri o i gusti dell’altro). O come quando Rímini, dopo essersi fatto accalappiare dall’uso della droga (usata come strumento per “cancellare” dalla propria memoria intima i ricordi legati alla fidanzata), riesce a ritrovare la pace in compagnia di Vera, una ragazza che conosce all’interno di un negozio di souvenir il giorno in cui lei, Vera, scopre che il fidanzato l’ha sempre tradita con un’altra e non ha alcuna intenzione di scusarsi con lei o di riparare i danni che le ha provocato con le sue ammissioni tardive). E’ geniale il brano in cui Rímini riesce a tradurre a velocità supersonica interi capitoli, aiutato sia dalla droga sia dalla presenza di Vera nel suo disordinato appartamento in centro. O ancora, mi viene in mente la scena della conferenza di un famoso linguista francese… quando Rímini osserva attentamente ogni smorfia, ogni sguardo, ogni movimento delle mani del professore allo scopo di tradurre correttamente ogni sua frase, ogni accento, ogni sfumatura, e solo in seguito si rende conto di essersi improvvisamente innamorato della collega che gli siede affianco nella cabina insonorizzata, Carmen, una vecchia conoscenza, un’amica di sempre, con cui scambia sguardi d’intesa fino a un bacio che lo distrarrà per sempre dalla traduzione simultanea del famoso linguista…

Prima Vera, poi Carmen… Ma Sofía resta, continua a far parlare di sé, continua a perseguitarlo con la sua ombra lunga anche quando Rímini crede di averla dimenticata o di essersi rifatto una vita… Crede di essersi lasciato alle spalle quei 12 anni, quando invece Sofía sembra complicargli la vita fino a portarlo a credere che questa non possa avere un seguito se non attraverso la presenza costante, fastidiosa e perturbante della prima donna amata…

Ogni tanto il narratore riflette e ci fa riflettere. Come in questa frase, in cui sembra essere racchiusa parte della verità che noi umani sappiamo (o crediamo di sapere) intorno all’amore:

“Ogni amore ha il suo istante inaugurale, il suo big bang privato, ma è per definizione un inizio perduto, del quale gli amanti, per perspicaci che siano, non saranno mai contemporanei.

Non esiste amante che non sia in realtà un erede tardivo di un istante di amore che non vedrà mai, intrappolato come rimase, e per sempre, nell’oscurità della sua apparizione”.

Big bang privato di cui forse fingiamo di ricordare tutto, e di cui, in realtà, non sappiamo (e non sapremo mai più) niente… Quando comincia davvero una storia d’amore? E quando finisce? Sono queste alcune delle domande che si (e ci) pone Alan Pauls con questo romanzo-fiume sull’amore.

sábado, noviembre 22, 2008

Di ritorno

Fa un certo effetto ritornare a casa e riabituarsi ai propri spazi, rivedere gli oggetti che fanno parte della nostra vita quotidiana e riascoltare gli stessi rumori di fondo di sempre (lavatrice, il vicino che tossisce, il camion della spazzatura intorno alla mezzanotte, aspirapolvere di quello del piano di sotto alle otto del mattino…) e riabituarsi ai ritmi del lavoro (le ore assegnate matematicamente a ben determinate mansioni, difficile uscire dai soliti binari).

E fa una certa tristezza rivedere l’Italia dopo una settimana di Spagna (Firenze, Roma, Madrid, Puerto de Santa María, Cadiz e ritorno, secondo questo cammino, prendendo 3 aerei, 6 treni, 1 taxi, 2 autobus, 2 vaporetti, uno svariato numero di metro e 1 tram). Guardandola con gli occhi dello straniero, l’Italia appare davvero un paese invecchiato e triste (“Non è un paese per giovani”, ha commentato Ambra, la mia amica giornalista – sempre in viaggio tra Madrid, Parigi, Berlino e Londra – parafrasando il famoso film dei Coen). Accendo la tv e c’è Brunetta che dice che “i fannulloni sono tutti a sinistra” e che gli dispiace perché lui sì, è “davvero di sinistra, un socialista che lavora nel governo di Forza Italia”… Mio dio, mio dio, perché lo hai abbandonato, perché parla in quel modo, chi gli ha consigliato di rilasciare quell’intervista indossando quella specie di sciarpa alla moda che stona palesemente con il suo “aplomb” di uomo politico in carriera, perché? E poi le liti in tv tra i politici; ormai talmente impegnati a fare le loro “comparsate” che non hanno più tempo per fare quello per cui sono lautamente pagati: e cioè, fare politica, cercare di risolvere in Parlamento e con le leggi i problemi del popolo (un tempo) sovrano.

“L’aereo è stato cancellato, mi dispiace”, fa la hostess di terra di Vueling. Mi viene da piangere, ma non perché proprio il mio aereo (Madrid Barajas-Roma Fiumicino) sia stato soppresso, alle 6 del mattino, quanto perché chi sopprime è proprio Vueling, una compagnia aerea low-cost che non mi ha mai dato problemi e che spero non inizi a diventare come la nostrana Alitalia (la cui crisi è ben lungi dal trovare una soluzione che non dispiaccia nessuno).

Ne approfitto per leggere Hand to Mouth. A Chronicle of Early Failure, di Paul Auster, la cronaca dei suoi primi trent’anni di vita, la storia picaresca dei suoi fallimenti e delle sue dure lotte per la sopravvivenza, quando, prima di diventare uno scrittore famoso, si è visto costretto a fare i lavori più umili e disparati pur di raggranellare qualche dollaro e tirare a campare. Questo libro è abbastanza appassionante: non mi convince del tutto, ma mi fa apprezzare ancora di più l’impegno di questo americano che, sulla base del suo sogno, è riuscito ad affrontare gli ostacoli più grandi. Si è saputo adattare. E’ riuscito a scrivere racconti dopo colloqui di lavoro allucinanti. E’ riuscito a mantenere se non la calma almeno la testa sulle spalle quando il conto in banca era ormai in rosso profondo (per un momento l’ho accostato a The Pursuit of Happiness, il film di Will Smith, girato da Muccino in (e sull’) America).

Poi si avvicina un’argentina (lo intuisco dall’accento), è bellissima, mi chiede se per favore posso scattare una foto a lei e la sua amica, una modella, è altissima anche lei, anche se porta scarpe coi tacchi a spillo, le accontento, loro sorridono, io schiaccio il pulsante e mi verrebbe da chiedere loro una copia di quella foto, chiedere l’email, per un incontro futuro, venite in Italia, anche voi andate a Roma? No, meglio non importunare. E poi cosa ci vengono a fare in Italia?

Siamo un paese fermo. I politici sono sempre al centro dell’attenzione mediatica, ma solo per urlare quattro cazzate al vento e offendersi a vicenda. Siamo un paese grigio e che ha paura dello straniero (quanto razzismo in più da quando la destra è al potere, o mi sbaglio?).

Ripenso alla festa cui sono stato invitato: Mauro, uno dei miei migliori amici, è uruguayano. Mi presenta un gruppo di suoi amici madrileni. La maggioranza, in realtà, è di colore: vengono dal Senegal, dalla Guinea, dal Marocco. Accanto al gruppo dei neri ci sono le bionde: alcune sono svedesi, altre danesi. Non corre buon sangue tra Svezia e Danimarca; a un certo punto qualcuna fa qualche battuta cattiva e volano parolacce (se le dicono in spagnolo, tra i fumi dell’alcol e della marijuana). Poi passano a chiedermi di Berlusconi; qualcuno nota le somiglianze con Mussolini; anche questo suo culto del corpo, questo suo voler essere sempre giovane e forte; questo suo voler negare l’evidenza, e cioè che non è più un bambino e ha 73 anni suonati (non ho controllato, mi fido di quanto dice Inge, una del gruppo delle danesi, biondissima e con gli occhi azzurri, come da copione); qualcun altro mi chiede cosa succede con la scuola e l’Università. Le notizie legate alle manifestazioni degli studenti sono arrivate fin lassù, nel Nord Europa. Provo a spiegare loro qual è la situazione, ma mi risulta difficile e poi siamo tutti un po’ brilli.

L’aereo è stato dirottato da Madrid a Barcelona. Da lì dovrò poi aspettare 4 ore prima di poter toccare il suolo della capitale.

Tristezza, nostalgia delle risate della notte prima, senso di claustrofobia, paura di ritornare vecchio nel paese dei non-giovani… Tra poco si parte e sarà di nuovo Italia… Accidenti, che brutta situazione…

viernes, noviembre 07, 2008

Sebald e le vertigini del trasloco (l’ulteriore)....

Scrivo su una mini-scrivania traballante degli anni 50 all’interno della nuova casa, in zona residenziale, con vista sul Duomo, anche se di sguincio (dal balcone della camera da letto). La casa è circondata dalle impalcature; stanno rifacendo la facciata (i muratori si affacciano dalle finestre; ogni tanto curiosano; io li guardo male e loro tornano a lavoro; mi sembra di essere in carcere). La casa è vecchia, dicono sia stata costruita nel 1936, allo scoppio della Guerra Civile spagnola…

 

Leggo il mio primo libro in questa stanza che diverrà studio e biblioteca (per ora è sguarnita, la polvere regna sovrana in ogni dove, le tarme fanno merenda su questa traballante scrivania briccona). E’ un racconto che ha il titolo italiano: “All’estero”. E’ dell’ammirato e compianto W. G. Sebald; fa parte della raccolta significativamente intitolata Vertigini. Nel racconto succitato il narratore (che sembra coincidere con l’autore – anzi, forse è proprio lui, a giudicare anche da una foto segnaletica “citata” esplicitamente all’interno della narrazione per dare a questa maggiore “veridicità” – o effet du réel) ci racconta di un suo viaggio in Italia, dall’Austria (o era dalla Francia?) a Verona, passando per Desenzano e non ricordo più quale altro paesetto sulle rive del lago di Garda (fa una puntatina anche a Padova; e a Venezia, sì, c’è anche Venezia e le sue calli). A un certo punto, proprio a Verona, il povero viaggiatore sceglie di entrare in una pizzeria: “Pizzeria Verona”; è il 5 novembre (come oggi), ha fame, entra, anche se si accorge che il posto ha un aspetto poco raccomandabile:

 

Ma ormai ero seduto su una seggiola di plastica rossa marmorizzata davanti a un tavolino traballante in una spelonca tutta coperta di reti da pesca. Muri e pavimento erano di un orribile blu mare, che annientò in me qualsiasi speranza di riveder mai più la terra ferma.

 

L’angoscia aumenta alla vista del tipico quadro raffigurante una nave che sta per affondare nel maroso. Per distrarsi, il protagonista si mette a leggere la pagina di cronaca nera del giornale che ha comprato il giorno prima e la sua attenzione viene attirata da un articolo in cui si elencano una serie di omicidi irrisolti la cui responsabilità, forse, è da attribuirsi a una misteriosa banda terroristica che si firma (in caratteri runici) “Organizzazione Ludwig”. La tensione aumenta, il narratore suda freddo e smette di mangiare la pizza, fino a quando il cameriere gli porta il conto e legge il nome per esteso:

 

Pizzeria VERONA, di Cadavero Carlo e Patierno Vittorio… Patierno e Cadavero… Brividi di paura, mentre leggo e ripercorro con la mente il tragitto dei ricordi di Sebald in Italia.

 

Passa il tempo, arriviamo al 1987 ed esattamente 7 anni dopo, il narratore torna a Verona e si trova a passare davanti alla macabra pizzeria. L’insegna c’è ancora, ma di Cadavero e del suo socio non ci sono più tracce. La pizzeria è fallita; forse ha chiuso per trasloco; non lo sappiamo. Di certo, però, sappiamo che è esistita. Una foto, che il narratore-viaggiatore fa scattare ad una turista americana perché lui si è scordato la sua macchina fotografica a casa, sta lì a testimoniarcelo (p. 117 dell’ed. Adelphi della traduzione italiana – ottima, a cura della bravissima Ada Vigliani).

 

La cosa più paurosa di questa foto sono le finestre del secondo piano; le persiane sono chiuse, direi quasi ermeticamente chiuse, eppure è impossibile non ipotizzare che lì dietro si nasconda qualcuno, forse Cadavero, forse Patierno, forse entrambi i proprietari del locale, ormai diventati due fantasmi che spiano questo viaggiatore incallito che è tornato sul luogo del delitto e si azzarda a scattare una foto della loro pizzeria.

 

Altra curiosità: all’altezza dell’ingresso si distinguono nitidamente due donne, due passanti abbigliate secondo gli usi e costumi dell’Italia anni 80; la prima (quella che cammina da sinistra) è una mora molto riccia con una gonna a fiori e una borsona di paglia; sembra tranquilla, come se stesse per andare al mare; la seconda, invece (quella che viene da destra e sta per incrociarsi con la prima), sembra una donna più matura, ha i capelli pettinati secondo la moda classica delle signore borghesi anni 70, anche lei ha la gonna lunga e indossa una paio di scarpe eleganti con leggero tacco a spillo. Nessuna delle due anonime camminanti sa nulla della Pizzeria Verona; nessuna delle due guarda l’insegna del locale né sospetta nulla o si preoccupa di alzare lo sguardo verso le due finestrone del secondo piano dietro le cui persiane potrebbero nascondersi due anime malvagie.

 

Continuo a leggere, ridendo alle spalle di Sebald quando complica la narrazione raccontando del suo smarrimento del passaporto. E’ curioso vedere come ci vedono gli altri, gli stranieri. Noi italiani sembriamo ligi al dovere anche quando sembriamo lavorare nel caos.


Continuo a leggere dentro questo studio che sarà futura biblioteca domandandomi chi ha abitato questa casa prima di me, prima di noi due (io e Alyssa). Sorta nel 1936, queste mura devono averne viste di tutti i colori; e chissà quanto dolore, quante lacrime sono trattenute dentro questo appartamento. Chissà quante risate, anche, e quante esclamazioni di gioia, di esultanza, di allegria…

 

La padrona di casa ci ha confidato un segreto; la casa si è liberata un mese fa (esattamente il 5 settembre scorso) perché la giovane coppia che ci viveva è stata costretta a trasferirsi dopo soli 9 mesi e a tornare a Padova (la casa di lei) dopo che lei ha scoperto e confessato al suo lui che era rimasta incinta.

 

Smetto di leggere. Mi accendo una sigaretta. Spengo la tv e mi reco in camera da letto. Chissà quanti gridolini di piacere, quante lacrime, quante risate devono aver assorbito queste mura, dal 1936 a oggi…72 anni di vita vissuta… o sofferta, chi lo sa… Provo a immaginarmi il volto del bambino che nascerà a breve lassù, a Padova. Un bambino concepito qui dentro, in questa camera da letto che, per ovvi motivi, non riesco ancora a sentire come “la mia camera”… Provo a immaginare quel volto, ma non ci riesco. Non sono bravo come Sebald; o non sono abbastanza perturbato. Certo è che questa notte non riuscirò a prendere sonno subito. Troppa vita, troppa morte, troppe cose a cui pensare e su cui sognare per addormentarsi subito. Meglio se mi accendo un’altra sigaretta.

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...