viernes, junio 29, 2007

Ancora sul tempo

[Avviso alle due o tre lettrici che ancora mi sopportano: siete pregate di “oltrepassare” questo post se ne avete abbastanza di pseudo-indagini filosofiche sull’enigma del tempo; rischiate d’addormentarvi dinanzi allo schermo del pc; donna avvisata mezza salvata].

Apro a caso uno dei libri che ho sul comodino (Alberto Moravia, L’uomo che guarda, Milano, Bompiani, 1985 – all’epoca avevo sì e no 8 anni) e leggo:

“Ore sei e trenta. Dormo poco, non più di sei ore per notte e, appena mi sveglio, dedico cinque, dieci minuti a quella rara occupazione che va sotto il nome di pensiero. A che cosa penso? A dirlo così può persino parere ridicolo: alla fine del mondo. Non so quando e in che modo è cominciata quest’abitudine; forse non tampo tempo fa, in seguito alla lettura di un libro che per caso ho trovato sulla scrivania di mio padre che è professore di fisica all’università, un libro tra i tanti sulla guerra nucleare. Oppure sarà stato un altro motivo venuto da chissà dove e poi scomparso dalla mia memoria, come scompare il seme una volta che la pianta è cresciuta. D’altra parte è improprio dire che penso alla guerra nucleare. Semmai penso all’impossibilità di pensarci. Ma è fuori dubbio che in quei cinque, dieci minuti dopo il risveglio non penso ad altro”.

Ebbene, ora, io mi sento molto “rappresentato” da un personaggio che si esprime in questi termini: l’unica differenza è che io quando mi sveglio (dopo ore passate a sopportare l’insonnia) non penso alla guerra nucleare, ma al tempo. Ci sono tre figure, o rappresentazioni del tempo, che mi tormentano, e tutte e tre devono (sì: DEVONO) avere un qualche legame tra loro, anche se a me sfugge. Stamattina, per esempio: ne ho discusso per due ore e mezzo con Giulia e non siamo arrivati ancora a una soluzione parziale o accettabile del problema. Ecco le tre figure:

1-la schiena;
2-la ruota;
3-il filo.

Partiamo dal punto 1: Negra espalda del tiempo, uno dei romanzi più belli e complicati dell’autore spagnolo Javier Marías (un matto geniale) deve il suo titolo a un verso di Shakespeare; il verso è tratto da un dramma, uno degli ultimi scritti dal Bardo di Strapford-Upon-Avon, The Tempest: “the dark backward and abyss of time”, traducibile con: “la nera schiena e l’abisso del tempo”. Marías confessa di essere rimasto affascinato da questa espressione proprio perché, se ci fermiamo al significante, si capisce, ma se scaviamo dal lato del significato, diventa assolutamente misteriosa: che cos’è la “nera schiena” del tempo? Perché è nera? Perché c’è di mezzo anche la parola “abisso”? Ora, Marías arriva a Shakespeare passando da un articolo molto bello e suggestivo di un suo amico e maestro letterario, l’ingegnere Juan Benet (ingegnere-scrittore, per l’esattezza: come quell’altro pazzo di Carlo Emilio Gadda, “the Pasticciaccio’s”). Secondo Benet Shakespeare è riuscito in un solo verso a mostrarci qualcosa che tutti sappiamo (e applichiamo sul piano del reale, quando si tratta di “spazializzare” il tempo) ma che tutti ignoriamo, se non ci fermiamo a riflettere: con questi versi l’autore di Hamlet sarebbe riuscito a sintetizzare la contrapposizione sia spaziale che linguistica tra il PASSATO, incarnato nella SCHIENA (e tutto ciò che ci lasciamo DIETRO, alle spalle), e il FUTURO, incarnato nel VOLTO (e tutto ciò che abbiamo DAVANTI, l’orizzonte che ci si presenta di fronte). Insomma, è qui evocata la dicotomia tra PASSATO-FUTURO su cui si basano tutte (o quasi) le lingue indoeropee per costruire le coniugazioni dei tempi verbali (tra passato e futuro, il perno è il presente; è dal presente che calcolo se io, stamate, “ho letto”, oppure, se tra poco, stasera, “leggerò” un libro – complemento oggetto).

Ma continuiamo con il punto 2: che il tempo gira, che è una ruota, lo si sapeva già dal Medioevo (e forse anche prima): icastica, in tal senso, la RUOTA DELLA FORTUNA che, con i suoi movimenti repentini e gli alti e i bassi, sconvolge la vita degli umani – portando un povero a governare un intero regno o un re a perdere la corona e finire col fare il mendicante, barbone dimenticato da tutti. Alla RUOTA, e a una visione “circolare” del tempo, si è soliti contrapporre (vedi Nietzsche?) l’immagine del tempo come FRECCIA, una linea che, posto un punto A, attraversa un certo cammino per raggiungere un punto B e fermarsi (per sempre?). Tempo lineare versus tempo circolare. A Eraclito (che diceva che “tutto scorre”) segue Nietzsche (che dice che “niente passa”, che è tutto un “eterno ritorno”).

Concludiamo (si fa per dire) con il punto 3: Marías, in Nera schiena del tempo, fa esplicito riferimento all’immagine di Shakespeare; in un altro articolo, precedente di due anni la pubblicazione del romanzo, cita invece Jorge Manrique, uno di quelli che ha evocato nei suoi versi l’immagine della ruota della Fortuna. Marías complica ulteriormente le cose aggiungendo alla ruota e alla schiena l’immagine del filo: “il filo della continuità”, quello che, se non vado errato, consente la comunicazione tra VIVI e MORTI, tra PASSATO e PRESENTE e che funge da ponte metaforico tra i due tempi.

La domanda è: in che modo, in che senso, attraverso quali arcani legami, possiamo unire le tre immagini-spazializzazioni del tempo, presenti in questo autore, ma evidentemente rinvenibili in tanta parte della letteratura occidentale (oltre che, immagino, della religione, della filosofia, della saggistica “nostrana” – europea e occidentale)?

Risposta: non ho idea. E continuo a vagare tra i fili e le ruote e le schiene…

viernes, junio 22, 2007


36 anni
Vorre arrivare a trentasei anni
e non accorgermene nemmeno,
come in una corsa leggera
senza gli ostacoli.

Guardare i colleghi di lavoro
che si affannano per nulla
mentre lo stipendio
resta sempre,
è sempre
quello.


Vorrei arrivare a trentasei anni
e avere una bambina di cinque
che mi chiama "papà"
e che sorride alla mamma
mentre dice:
"cacca, cacca".


Essere sempre pronto
con la valigia in
apparente riposo,
la mano sulla maniglia
di una porta che si chiude
sul sorriso benevolo
di una Penelope paziente
e si apre
davanti a un
destino di dubbio
sotto un sole al tramonto
mentre due cani randagi
ululano al vento marino.


Vorrei concludere il viaggio
senza pagare più l'affitto,
con una casa sul mare,
passeggiate lungomare,
con la compagna di una vita,
che mi accarezza i capelli la notte
poco prima di dormire
e mi acquieta l'animo
e mi protegge dai brutti sogni,
il viso in cui mi contemplo,
ebbro di domande,
finalmente sciolto da tutti
i dubbi

[Rome, the 15th of June, 2007 - Castiglioncello, the 24th of June, 2007 - in parte una risposta a quello che mi dicevi sui figli e il tempo utile a farli; 9 mesi son tanti, 30 arrivano presto, la differenza generazionale che cresce, insomma, Alyssa, forse hai ragione tu...e io invecchio restando un giovine mente-gatto]

jueves, junio 21, 2007

Ascoltando l'inaspettata Sei ottavi di Rino Gaetano (inaspettata, perchè prima di ascoltarla per radio, a "VivaRadioDue", da Fiorello, ne ignoravo l'esistenza, un piccolo gioiello, come molte poesie del cantante romano), leggo due o tre righe di Underworld di Don De Lillo e capisco già che questo tomo mi piacerà (certo che nell'arco di 880 pagine mi potrà capitare d'annoiarmi o di cambiare idea o, al contrario, d'appassionarmi tanto da divorare il tutto in pochi giorni).



"E chi mi prende la mano stanotte mio dio

forse un ragazzo il mio uomo o forse dio?"



E intanto m'accorgo che oggi è ancora il 21 Giugno, l'estate ha fatto la sua entrata ufficiale lungo il circolo vizioso del tempo e delle stagioni (che si susseguono l'una dopo l'altra, come sempre: estate, autunno, inverno e primavera, poi di nuovo: estate e autunno e inverno e primavera...).



"E chi mi sfiora le labbra o chi mi consola

forse un bambino già grande o io da sola?"



E' già passato il 16, invece, il famoso Bloomsday, il giorno di "Bloom", Leopold Bloom, l'anti-eroe del mitico, monumentale, schizzato Ulysses di quel mostro di James Joyce. Non ho celebrato l'evento (ero impegnato a baciare la mia "morosa", o a leggere qualche romanzo spagnolo o a guardare qualche film splatter o a ballare da solo, come Liv Tyler nel film omonimo che tanto piacque ad Alyssa), ma ho riaperto una pagina a caso, a mo' d'omaggio.



"Chi coglierà il mio fiore bagnato di brina

un principe azzurro o forse io adulta o

io bambina?"



Non c'è una sola riga del romanzo di Joyce che non sia stata scritta con spirito ironico. E' questo il segreto che lo scrittore irlandese svelò in qualche intervista (magari lo disse a Svevo, mentre questi si apprestava a impartirgli la sua quotidiana lezione di lingua italiana - Ulisse è pieno di riferimenti alla nostra cultura, e colmo di citazioni da opere e operette musico-liriche nostrane).

Svevo un giorno, da qualche parte, scrisse (più o meno, non cito verbatim): "Per entrare nell'universo dell'Ulisse bisogna stare attenti e fare come quando si penetra all'interno di una grande cattedrale gotica: non puoi spalancare la porta, ma socchiuderla, ed entrarvi in punta di piedi". Per me Ulisse non è un romanzo, ma un'enciclopedia. Dentro ci trovi tutto, anche una foto sconcia che poi, a distanza di anni, ho ritrovata riprodotta in un libro dedicato alla pornografia d'epoca (sì, Bloom, poco prima di sdraiarsi a letto e di re-incontrare sua moglie Molly, simpatica e fedifraga, ricorda anche quella foto, col frate e la monaca, nascosta nel comodino, vicino al profilattico, alla Bibbia, e a non ricordo più quali altri oggetti o libri). Oppure un canto gregoriano. O la descrizione esatta della Dublino dei primi del '900. O una bestemmia in sordina. Ma anche una sorta di storia della lingua inglese in un unico capitolo. O un dramma teatrale e grottesco in un bordello. O una poesia d'amore (Leopold ha molti amori platonici, durante la sua giornata epica del 16 Giugno del 1904; Leopold è come noi; o come il Baudelaire della poesia che Silvia mi ha aiutato a rintracciare, dopo tanti anni). Mi viene da ridere se ripenso alla parte ambientata in una casa editrice (o agenzia di stampa): Stephen Dedalus sta spiegando ad alcuni colleghi i significati nascosti intorno alla trama dell'Amleto, quando qualcuno (domanda: chi?) nota che a fare la parte del padre di Amleto deve essere stato proprio lui, Shakespeare. Un padre che parla al figlio. Un padre fantasma (l'autore) che si rivolge alla sua creatura (il personaggio - fantasma al quadrato) affinchè agisca e, così, dia vita al dramma (agisci, Amleto, ammazza Claudio, quel porco di tuo zio, vendicami e punisci quella maleducata di tua madre, Gertrude, non ha aspettato nemmeno che le lenzuola su cui giaceva con me si raffreddassero per fare spazio al corpo di quel traditore, agisci Amleto, abbi coraggio, che iddio ti coadiuvi, lava col sangue la macchia dell'onore infranto - e la trama s'innesta). Il tutto, all'interno di un capitolo intervallato da annunci giornalistici di stampo pubblicitario o scandalistico, quelle notizie che leggiamo ancora oggi sui giornali e su cui poggiamo gli occhi solo un istante, per poi proseguire e andare oltre: "Arrestato ladro di polli colto in flagranza di reato!"; "Attenti! Il nemico vi ascolta!"; "Violentata una studentessa all'uscita da scuola"; "Amleto, agisci! Cristo!"...



"Mentre la notte scendeva stellata stellata
lei affusolata nel buio sognava incantata
e chi mi prende la mano stanotte mio dio
forse un ragazzo il mio uomo o forse io"

martes, junio 19, 2007

Il (sub)cinema di Quentin Tarant(ello)tino


Esistono molti prodotti della cosiddetta "cultura underground" o "sotto-cultura", diramazioni di serie B della cosiddetta (e oggi, sincermente, difficilmente etichettabile o circoscrivibile) "cultura di massa". Dai giornaletti "zozzi" della mia pre-adolescenza (quelli, per intenderci - e a buon intenditor poche palabras - con stampato in un angolino della copertina il simbolo di uno squalo azzurro...oddio, che edizioni erano mai quelle? Quali case editrici sfornavano e promuovevano quel tipo di albo a fumetti vietati ai minori? Darei ottocento euro per poter tornare indietro nel tempo a rimirar quei fumetti, i nomi dei disegnatori o degli autori, i dialoghi assurdi di quelle "nuvole parlanti", le figure iperboliche degli esageratissimi organi sessuali disegnati in primo piano e riprovare gli stessi brividi di curiosità e, perchè no, piacere perverso-sottile o sottile-perverso...ma questa è un'altra storia) alla musica popolar-nazionale targata Gigione e Donatello (chi non li conosce alzi la mano o si procuri un buon sistema satellitare, credo che vadano in onda su NapoliTV o su CanalMediterraneo o era SudSoundTv?).

Il cinema di quel genio di Tarantino, invece, non appartiene a questo genere di cose, ma se ne nutre avidamente e, direi quasi, euforicamente. Grindhouse, in tal senso, è l'ennesimo esempio dell'arte del regista americano (il quale, è importante ricordarlo, fu noleggiatore di videocassette in un paesetto della California di cui non ricordo il nome, prima di passare dietro la macchina da presa - quante centinaia o migliaia di pellicole deve aver visto quel cinefilo fino al midollo, prima d'inventarsi Pulp Fiction, uno dei film più belli e originali degli ultimi 30 anni a mio modestissimo parere). Ora, non conosco bene l'antefatto nè il finale finale; non so perchè il film, che prevedeva due sessioni, proprio come i "grindhouse" dei tempi che furono (una diretta da Tarantino e intitolata Death Proof; l'altra dall'amico messicano Robert Rodriguez e dal titolo Planet Terror -tutto un programma) si è ridotto alla sola parte girata dal regista americano (indagherò; pagherei altre ottocento, vabbè: facciamo settecento euro, per vedere l'opera di Rodriguez, ora). Sta di fatto che anche così il film merita di essere visto e goduto (per gli amanti del genere, come si dice sempre, ogni volta che si toccano i tasti dolenti del "cinema di genere").
La trama è sconclusionata e fuori dal mondo: uno stuntman che va in giro, come un vero serial-killer, ad ammazzare con la sua auto giovani fanciulle avvenenti e adeguatamente sboccate; i dialoghi sono al fulmicotone; la regia è godardiana. Vedendo Grindhouse ho riso, perchè ho ripensato a quei primi film della nouvelle vague francese, quelli di Godard (la casa di produzione di Tarantino si chiama, non a caso: "Bandapart" da "A band à part", film del 1964) o del collega, ex-docente di letteratura francese, sua eccellenza Eric Rhomer (indimenticabile il modo di girare le scene di dialogo, con in primo piano il volto della persona che ascolta e l'occultamento del volto di quella che parla e che ci ammalia con i suoi discorsi che sembrano monologhi "à part", appunto - e geniale è la scelta di farci seguire il discorso attraverso le sottili e costanti modulazioni dell'espressione facciale del destinatario; è a te, spettatore, a te, attore inquadrato, che parlo); non ricordo invece dov'è che Godard, ben prima del romantico Truffaut, smonta il montaggio e rompe la linearità narrativa e, quindi, temporale, facendo saltare una frittata da una padella, portando la protagonista intenta a cucinarsi la frittata fino a un telefono, farla colloquiare all'apparecchio per un buon paio di minuti e poi re-inquadrarla mentre ri-entra in cucina, con la frittata che, magia, torna a cascare dentro la padella...

In questo il film è decisamente godardiano: lo stuntman-killer, interpretato gigionescamente dal veterano (e, qui, sfregiato) Kurt Russell, si appresta a sfracassare il cranio di una delle belle fanciulle cadute nelle sue grinfie perverse e, colpo di scena - rottura totale di ogni principio di verosimiglianza al cinema - ci guarda, guarda in primo piano la macchina da presa e - ironia al quadrato - ci sorride (e ci rassicura: come a dire, tranquilli, quello che vedrete lo potete già immaginare, ora alla piccola pulzella le farò prendere un colpo, schizzerà sangue all'interno della mia macchina, ma state pure tranquilli, questo è solo un film, è solo cinema). Questo gesto lo fanno molti attori-feticcio nei film di Truffaut e, prima ancora, lo fa Jean-Paul Belmondo, estraendo una pistola dal cruscotto di un'auto rubata in una delle prime sequenze di A bout de souffle, del 1960, se non erro, l'opera prima, primo vero capolavoro di Jean-Luc (God)ard.

Ma godardiano Tarantino lo è anche quando "mima" le imperfezioni di quei film-spazzatura degli anni 70: fuori fuoco, l'immagine appare a volte sgranata, altre volte salta il sonoro, altre ancora vira dal bianco e nero senza avvertirci per poi tornare a colori squillanti (l'ottima fotografia, di fatto, è stata curata anch'essa dal regista).

Quando il film finisce ti poni due domande: 1-come diavolo ha fatto un'altra volta a fare un film sul nulla? La trama in senso stretto è limitatissima. Eppure il film dura due ore piene (Tarantino è un mostro nel rallentare il tempo e nel dilatare le azioni: tra una sigaretta e un cocktail, tra un bacio finto-appassionato e una parolaccia possono trascorrere anche interi quarti d'ora - ricordo le passeggiate-dialogate infinite di John Travolta e Samuel L. Jackson, o la cena al pub tra Travolta e Uma Thurman); 2-come diavolo fa a immaginare tante battute e a imprimere al tutto un alone di surrealismo violento? Sì, perchè spesso nei film di Tarantino non sono violente le immagini, ma le parole, e il modo in cui si scambiano parole i protagonisti; ogni scusa è buona per portare il tutto fino alle estreme conseguenze; ogni semplice barzelletta può nascondere il pugno in un occhio; ogni bisbiglio sussurrato il suo risvolto negativo (una pallottola in testa)...come se da un momento all'altro potessi lasciarci la pelle anche te, spettatore sprovveduto, che ti siedi in un "grindhouse" e ti gusti un film, sapendo che, bontà di dio, si tratta di cinema...

sábado, junio 16, 2007

GaY-PridE

Mi trovo a Roma, per motivi di studio (ovvero di lavoro; ultimamente i due rami s'intrecciano spesso e volentieri). Oggi la Stazione Termini (la mia seconda casa) è invasa (in modo pacifico) da una squadra di eterogenei gay, lesbiche e trans accorsi da tutta Italia per la sfilata in centro per l'orgoglio gay. A Piazza Vittorio, invece, una postazione con la bandiera nazionale distribuisce volantini anti-manifestazione. Basta con questi affronti! Basta con le provocazioni! Come può Veltroni consentire una cosa del genere? Far sfilare simili individui nel "triangolo della cristianità" (i cui lati sono costituiti rispettivamente da: Santa Maria Maggiore, Santa Croce in Gerusalemme e San Giovanni in Laterano; devo essere sincero, non ci avevo mai pensato a questa cosa del "triangolo", mi era sfuggito, ma come al solito, sono scarso in matematica e geometria...). Qualcuno mi offre volantini, ma mi rifiuto; qualcun'altro (o si scrive tuttattaccato? Così: qualcunaltro...) sventola una bandiera con la fiamma dell'MSI (Movimento Sociale Italiano, credo) e sfoggia una testa rapata e un'espressione violenta che non ispira simpatia.

Ora, io credo che tutti abbiano il diritto di manifestare, in uno Stato libero e democratico, pur nel rispetto di chi la pensa diversamente. Non m'importa che i gay usino l'espressione "orgoglio" per mettere in evidenza il loro "status" dinanzi agli altri, anche se io non mi sognerei mai di indire una manifestazione per l'"orgoglio" etero. Ognuno è libero o dovrebbe essere libero. Nè m'importa che si sfili in centro, all'interno del triangolo della cristianità, anche se biasimerei e condannerei come tutti, credo, gli eventuali atti di vandalismo (quelli che spaccano le vetrine dei negozi o i bancomat delle banche o gli specchietti delle auto, gente che non merita nemmeno le prime pagine dei giornali, troppa importanza, basta una denuncia o il risarcimento danni). Certo è che i manifestanti rischiano di auto-ghettizzarsi e attirarsi gli strali della Chiesa nel momento in cui calcano la scia anti-cattolica in un paese come il nostro in cui il cattolicesimo è, volenti o nolenti, la religione più importante, quella che riscuote maggiore appoggio ideologico-politico-storico da secoli, ormai (quante leggi si approverebbero in Italia se il Vaticano non si trovasse ubicato tra le mura costruite intorno a San Pietro, ma, mettiamo per caso, a San Marino - altro staterello a sè - o, puta caso, in Australia, o in Algeria o a Cuba).

La manifestazione di oggi è importante proprio per questo: serve a ribadire e a ricordarci che viviamo (o dovremmo vivere) all'interno di uno Sato libero, democratico e, soprattutto, laico. La questione dei matrimoni omosessuali, delle adozioni alle coppie di fatto costituite (anche) da individui dello stesso sesso, la questione della fecondazione assistita, o quella, ancora più delicata, dell'eutanasia, sono tutti casi in cui lo Stato deve intervenire per dare un minimo di regolamentazione (di regole e di rispetto) andando incontro a aspirazioni, desideri e progetti di vita dei suoi cittadini. Se lo fa in modo autoritario allora vuol dire che lo Stato si comporta con i cittadini come il padre con i figli imbranati e ancora troppo piccoli per decidere liberamente. Siamo dotati di libero arbitrio. Non vedo perchè qualcuno (o qualcosa, come la Chiesa) debba indirizzare le mie abitudini sessuali o condannare o condizionare la mia vita privata. In uno Stato laico posso perfino portare in piazza la mia vita privata, se questo serve a mostrare alla collettività, al pubblico, che esistono anche "altre forme" di vita, al di fuori di quelle cosiddette "tradizionali".

P.S.: il "family-day", tanto colorato come il "gay-pride", si è svolto, come tutti hanno avuto modo di vedere, sotto l'egida pesante della Chiesa. Ora, non mi sento di condannare nemmeno quella manifestazione, per le ragioni esposte più sopra.

P.P.S.: salgo sul treno e leggo su La Repubblica un articolo di Michele Serra che s'intitola "La bandiera della laicità". Dice, più o meno, le stesse cose che ho appena scritto. Certo, con uno stile migliore del mio e una punta di sarcasmo e ironia più efficace ed elegante. Dio salvi Serra!

miércoles, junio 13, 2007

Personae



Che tutti quanti indossiamo una maschera non è un mistero (Pirandello docet; Unamuno lo supera; gente come John Barth o Enrique Vila-Matas ci scrive sopra interi giocattoli smontati e smontabili, delizia per il palato di lettori "curiosi e impertinenti" - come titolava Cervantes una delle sue migliori e più inquietanti "novelle intercalate" all'interno del Quijote); che questa maschera cambi nel corso del tempo e a seconda di chi ci troviamo davanti è risaputo (Montaigne scrisse una volta - cito a memoria, quindi, col rischio di sbagliare: "il mio io di adesso e il mio io di fra poco siamo certo due"); che dalle nostre maschere si possano trarre personaggi letterari (o meglio: potenziali abitatori di "mondi fittizi") è qualcosa di empiricamente meno dimostrabile ma virtualmente quotidiano. Ogni scrittore crea le sue dramatis personae a partire, oltre che da se stesso (e dalle molteplici maschera che immagina d'indossare - o che amerebbe indossare), anche da conoscenti, lontani o vicinissimi, da amici, da amici di amici, da gente magari incontrata per caso per strada o sul treno e mai più rivista (ricordo quella poesia di Baudelaire, quella in cui parla d'un immediato e per sempre finito amore provato per una passante, come diavolo s'intitolava quella bellissima poesia, come? Lui la guarda, inventa un futuro potenziale per entrambi, assapora già i piaceri della loro reciproca passione e lei è già scomparsa dalla visuale, addio, mia cara, ti ho amata anche se tu non lo verrai mai a sapere... come s'intitola?). Ed è così che sorgono poi i famosi "personaggi", quelli che il lettore ricorda e con i quali entra in immediato (o mediatissimo) contatto; quelli che poi riescono addirittura ad uscire dalle pagine che li contiene per vivere di vita propria (chi non sa chi è Don Chisciotte? Chi non ricorda l'incipit del monologo di Amleto? Perfino il "non-lettore" - o il "lettore-estemporaneo" - conosce (a volte anche solo per sentito dire) una donna estremamente romantica che risponde al nome di Mme Bovary - Emma, per l'esattezza o un eroe particolarmente coraggioso e furbo che si chiama Ulisse - a volte detto anche "Nessuno").

Ma il modo in cui si esprimono o agiscono, questi personaggi, resta un mistero.

Io non scrivo, se non per scherzo e saltuariamente (a volte, per non impazzire). Eppure... quante volte avrò provato a costruire un personaggio "padre" che fosse verosimile... Quante volte ho provato a dargli un'anima, dimenticandomi di com'è fatto mio padre, o il padre di un mio amico, per infondergli carattere (dire certe frasi e comportarsi in un certo modo).

Ora, per esempio. Mi ritrovo tra le mani un professore, tale Balmes, che lascia la moglie e scappa in Perù perchè non ce la fa più a sopportare la crisi matrimoniale. Ospite di Clara, una sua vecchia amica, assiste alla scomparsa di questa per opera di una banda di matti. Il professor Balmes. A quanti professori deve la sua linfa uno che si chiama "professor Balmes"? A quanti docenti che ho conosciuto nella vita vera rispondono i suoi (i miei) tic nervosi e il suo egoismo lampante e il suo coraggio di cartone?

Da dove nasce uno come il dottor Korsch, ginecologo viennese di fama internazionale che sembra essersi trasferito a Trujillo solo per intrigare il professor Balmes e frequentare le fanciulle del posto? (in questo caso in realtà il nome lo so: nasce da un cliente cui ho venduto un auto una notte d'Aprile all'aeroporto; viennese anche lui, due occhi di bragia, i capelli bianchi scompigliati sul cranio pronunciato; un ghigno da Mefistofele). Che relazione possono stabilire tra loro uno come Balmes e uno come Korsch? E da dov'è mai nato Tony Umorali? Un fantasma che soffre d'insonnia e che mi accompagna ormai da almeno otto anni...

Non credo a quegli scrittori che dicono che a volte i personaggi prendono il sopravvento e vivono di vita propria (come se fossero questi a governare l'autore e non viceversa). Nè credo che un personaggio, per colpire il lettore, debba essere per forza verosimile (per me Astolfo sulla luna è tanto reale quanto il Marcel della Recherche). So solo che è vero, che certe volte spuntano e sembrano muoversi in base a una loro logica interna che mi sfugge e che nemmeno a una seconda lettura mi è del tutto chiara.

Un esempio, preso a caso:

" "Hai per caso sognato di uccidere qualcuno con un rasoio elettrico? O più semplicemente di raderti e di ferirti?", domandò Balmes, sorridendo.
"Non scherzare", disse Clara. "E' stato orribile", aggiunse. Notò anche lei la brezza marina sulla pelle. I suoi capelli vennero smossi dal vento, lasciando intravedere il collo sinuoso e una collana di perle bianche comprata a un venditore ambulante in riva al mare"".

Sia Balmes che Clara avrebbero potuto esprimersi in cento modi diversi. Che le parole che io ho fatto finta che i due abbiano pronunciato siano proprio queste e non altre non può essere solo frutto del caso. Avrei potuto sceglierne altre; sono venute fuori queste...e non le ho ancora cambiate. Mi sembrerebbe di tradirli tutti e due, se lo facessi. Anche se sono io a comandare il gioco (ma loro devono pur vivere e giocare a loro volta, o no?).

lunes, junio 11, 2007

Divago, mentre Aurelia prepara un piatto di pasta e un gatto (è femmina: una gatta) che, mi pare di aver capito, si chiama Luna, striscia lungo la gamba, mi fa le fusa, con la coda. Parliamo del più e del meno, ci scambiamo i nostri rispettivi punti di vista su globalizzazione, nuovi arricchiti, falsi poveri e problemi vari legati al mondo lavorativo.


Torno a casa e un treno sbuffa all'ingresso della stazione.


Attraverso un cavalcavia e un aereo rumoreggia nel cielo notturno, lascia la scia, anche se ora non si vede.


Apro la porta e squilla il telefono. Roby mi avverte: se non scendo entro la fine di Giugno a Roma mi disereda. O meglio: mi disconosce come amico. Mi passa Mery, mi dice che stanno mangiando una pizza ottima in centro. Sento i rumori dei piatti che sbattono contro i bicchieri. Avrei voglia di mangiare un tiramisù con loro, in loro allegra compagnia, la conosco anch'io quella pizzeria, i proprietari sono napoletani, la pizza è alta e soffice, croccante ai bordi, piena di mozzarella doc al centro, con una foglia di basilico a dare il tocco finale.


Riattacco e mi richiama mio fratello, che è alle prese con un caso difficile, anche lui da Roma (mi sembra di vederli quei soliti noti, i barboni di Piazza Vittorio). Parliamo della mafia italiana, della politica di sinistra di oggi (piuttosto deludente), dell'arrivismo dei più, della pazienza dei pochi, dell'umiltà di quasi nessuno, ormai.



Poi afferro l'ultimo romanzo che ho sul comodino e leggo questa frase icastica (come direbbe un critico d'eccezione se fosse ancora vivo, oggi, in quest'Italia del 2007 - Calvino docet):



"Imparò a gustare la speciale, leggera eccitazione che si prova girando per le stradine buie di una città sconosciuta, pur consapevoli che non si troverà altro che sudiciume, disagio, vecchi barattoli di latta d'oltremare con l'etichetta colorata, e giunglesco jazz d'esportazione, tambureggiante in sifilitici caffè. Pensava spesso che le grandi e celebri città, i musei, le antiche dimore di tortura e i giardini pensili non fossero che nomi sulla mappa della sua follia".



Mi rivedo a girovagare da solo in una notte di Novembre per il centro di Jérez de la Frontera (a un tiro di schioppo da Cádiz); unico bar aperto pieno di fumo e giocatori di poker; unico posto in cui poter trovare approvviggionamento, alle unidici e mezza di sera, una frutteria, compro una mela e la mangio, mentre vago, di notte, da solo, pensando alla stanza, troppo stretta e maleodorante.



Prima di addormentarmi mi complimento virtualmente con quel genio che ha scritto la frase succitata: c'è già un film, dentro, o un altro romanzo. Ma questa, appunto, è un'altra storia.


Socchiudo gli occhi e ricordo che da Jérez, da una cabina pubblica, chiamai Alyssa, che era a Firenze, e le dissi che ero solo e che avevo bevuto un po' troppa birra e che stavo mangiando una mela per riempire lo stomaco. Era Novembre e facevano 20 gradi centrigradi, di notte.

martes, junio 05, 2007


Ardore
E ti ricordi di quando
andammo a caccia di farfalle,
tu credevi di scoprire una cascata,
ma quelli del posto ci dissero che era congelata, che in quel periodo l'acqua non scendeva a valle...
E di quando avevo paura d'imbrattare quel muro di Roma, in via Leopardi,
quando tu con mani inesperte cercavi la porta che apre alla felicità e arrossivi di vergogna mentre io tremavo di paura, che qualcuno, dall'altro lato della parete, potesse sentirci...
E ti ricordi di quando ti ho telefonato
alle tre di notte e ti ho fatta piangere
eppure non lo volevo, e tu non mi volevi,
e siamo andati avanti anche senza l'aiuto
di uno spiraglio, all'oscuro di tutto,
nel buio di una notte senza fine,
mi hai dato la mano, ti ho carezzato
i capelli, mi hai detto: "Adesso basta,
non prendermi più in giro",
e io mi sono piegato sopra le tue gambe
come il bambino con la mamma,
mentre gli canta una ninna nanna,
aspettando il mattino,
con l'animo sospeso,
con la speranza divisa
a metà,
guardandoti nel viso,
contemplando dai tuoi occhi il mio destino...

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...