lunes, diciembre 24, 2007



Blow up: chi guarda chi (con Coppola "al fondo")


Sono trascorsi circa 10 anni dall'ultima volta che ho visto Blow up (1966) di Michelangelo Antonioni. Ne avevo un riccordo diffuso e sfocato. Ricordo che all'epoca non capii molto del film, ma che quando arrivai al finale rimasi di sasso, come davanti a una rivelazione (una sorta di epifania - nel senso "joyciano" e affatto cattolico del termine). In 10 anni si cambia. Non siamo più gli stessi; abbiamo letto più libri, ci siamo fatti una cultura (come dicono alcuni), anche il cinema non è più lo stesso (di quello di prima; quando, ad esempio e per restare solo in Italia, giravano registi come Fellini, Pasolini, Rossellini, Vittorio De Sica e Dino Risi). Anche il pubblico è cambiato: oggi esistono cellulari che ti permettono di vedere un film su un micro-schermo a cristalli liquidi (nutro dei dubbi sull'efficacia di una simile visione miniaturizzata, comunque, è un fatto, qualcuno li ha inventati e messi in commercio, quindi, penso, ci sarà sicuramente qualcuno che acquisterà il cellulare col mini-schermo incorporato per vedere film in micro-formato quando e dove vuole). Le telecamere sono a ogni angolo della strada e ci osservano (non per forza di cose si tratta di spionaggio) mentre facciamo la spesa, paghiamo le bollette, ritiriamo soldi dal bancomat o facciamo l'amore con l'amante di turno nell'hotel vicino alla stazione. Nel '66 il fenomeno "grande fratello" doveva essere ancora ai suoi primordi (quanto fu profetico George Orwell con 1986 lo scopriamo solo oggi). E comunque questo film mi fa venire in mente un altro capolavoro della storia del cinema, The conversation (1974) di Francis F. Coppola. Se Blow up è un film sul cinema e sul vedere (quindi sulla fotografia, sull'immagine, sull'immagine catturata da un obiettivo, per dirla in soldoni), il film del regista de Il padrino è un'opera che ci fa riflettere sul cinema e sull'ascoltare (quindi sull'atto di captare suoni, attraverso un microfono, una microspia, un buco della serratura o una parete di casa nostra). Antonioni prende spunto da un famosissimo e ormai classico racconto di Julio Cortázar che s'intitola Las babas del diablo e ci conduce per mano lungo la discesa agli inferi di un fotografo di moda che scopre per caso un omicidio fotografando una coppia di amanti in un parco. Coppola prende spunto non so se da un romanzo o dalla cronaca nera del suo paese per mostrarci la progressiva discesa verso la follia di un agente della C.I.A. (o dell'F.B.I.?) che capta e registra quasi per caso in una piazza trafficatissima la conversazione di due amanti che decidono di ammazzare il marito di lei alla tale ora nel tale luogo. Ripeto: sono due film sul cinema, perchè entrambi (anche se ognuno a modo suo) non smettono di presentarsi come metafore esplicite sull'atto del guardare e dell'ascoltare (anche se il primo spinge l'acceleratore sul pedale dell'apparato visivo e il secondo su quello dell'apparato sonoro).
Dal momento in cui David Hammings sviluppa i negativi delle foto scattate al parco non sappiamo più se quello che vediamo è reale. E se quello che abbiamo visto attraverso il punto di vista del fotografo sia davvero successo (dubitiamo con lui, insieme al protagonista). Un problema diverso è quello che deve risolvere Gene Hackman nel film di Coppola: se Hammings scopre un cadavere ingrandendo la foto ("blow up" vuol dire questo: "ingradire"), Hackman teme di rinvenire il cadavere dell'ignaro marito cornuto in un bagno di una stanza d'albergo. Ciò che ci colpisce è che entrambi si trovano costretti a fare i conti con la realtà e con la versione della realtà di cui essi sono stati gli unici testimoni. Di qui il bisogno per entrambi di "certificare" che quanto visto (e sentito) è davvero accaduto; che non è stato solo un sogno (o un incubo) e che non si sono inventati nulla. Hammings chiede a un amico di accompagnarlo sul luogo del delitto; Hackman fa tutto da solo ed entra nel bagno incriminato. Risultato: il primo non trova più il cadavere (che la notte prima aveva rinvenuto seguendo proprio le coordinate spaziali evidenziate dall'ingrandimento) mentre il secondo finisce preda delle allucinazioni (e immagina di vedere sangue che fuorisce tempestosamente dal water del bagno). Chi ha visto cosa? Chi ha sentito che?
Blow up si chiude in modo enigmatico. Hammings assiste insieme a un gruppo di artisti da strada a una partita immaginaria che due mimi "giocano" per il pubblico. Hackman torna a casa e scopre di essere spiato (lo "spione" spiato, o il gatto che si morde la coda) e finisce col mettere a soqquadro la casa pur di scovare la cimice nascosta dai suoi colleghi (dai nemici? Dal Governo? Chi si è reso colpevole dell'uccisione di quell'uomo? I due amanti o lo Stato stesso che sapeva e ha taciuto?). La responsabilità del vedere e quella dell'ascoltare. In una parola sola: la responsabilità di sapere. O di venire a sapere.
Prima di ogni azione volontaria (prima del suo scatto al parco; prima della registrazione furtiva di quella conversazione privata), nessuno dei due protagonisti sospetta nulla di nessuno. Basta soffermarsi un momento sulla realtà; basta voler andare a fondo nell'analisi di quanto vediamo e sentiamo; basta saper ingrandire (o riascoltare attentamete) perchè quella stessa realtà (all'apparenza banale e priva di sorprese) si trasformi in un mistero da svelare. E' questa stessa tematica a spingermi ad accostare due film così simili eppure così diversi. E a farmi riflettere su un fatto: chi si avvicina troppo a una porzione della realtà e prova a indagarla a fondo rischia di perdere la percezione stessa del reale e di finire in un vortice senza fine. Il punto è che vorremmo sapere tutto e risolvere ogni enigma. Aspirazione ancestrale che se da un lato ci ha permesso di evolverci dall'altro ci ha portato alla morte. E' questo il caso dell'Ulisse dantesco del XXVI canto dell'Inferno (chi troppo vuole nulla stringe); è questo il caso di Don Quijote, che dopo aver inscenato una vita da romanzo, finisce col tornare a casa sua e morire da cristiano (con buona pace del lettore che si era ormai affezionato ai suoi discorsi assurdi). La giusta distanza (da cui guardare) e capire chi guarda chi e chi ascolta cosa. Questa è la cosa più difficile da conquistare in questa vita.

jueves, diciembre 20, 2007


Jovanotti giova


Grazie Dadda (hermano) per avermi fatto ascoltare in anteprima Fango:


"ora la città è un film straniero senza sottotitoli
le scale da salire sono scivoli, scivoli, scivoli
il ghiaccio sulle cose
la tele dice che le strade son pericolose
ma l'unico pericolo che sento veramente
è quello di non riuscire più a sentire niente
il profumo dei fiori l'odore della città
il suono dei motorini il sapore della pizza
le lacrime di una mamma le idee di uno studente
gli incroci possibili in una piazza
di stare con le antenne alzate verso il cielo
io lo so che non sono solo"

martes, diciembre 11, 2007

All'Accademia di Danimarca

A Roma esiste una via che si chiama Via Omero. Non conduce ad Itaca (sorriso spento; ironia laconica), bensì all'Accademia di Danimarca. A questa si affiancano altre accademie; tutte ruotanti intorno al Museo di Arte Moderna e alla Facoltà di Architettura di Valle Giulia. C'è quella egiziana; quella belga; quella rumena; quella olandese; quella svedese. E, appunto, quella danese.


E' qui che pernotta Jens, uno dei miei migliori amici dai tempi dell'Università di Pisa. L'aria che si respira all'interno dell'Accademia è alquanto sinistra (da fuori, di fatto, sembra una specie di obitorio: linee rette orizzontali e verticali che s'incrociano in modo geometrico, sembra il luogo ideale in cui girare un film horror, o alla Dario Argento), ma Jens, col suo umorismo, ti mette subito a tuo agio. Le luci dei lunghi corridoi sono fioche, quasi impercettibili. Tanto che fanno molta più luce (e aiutano lo sprovveduto visitatore a non inciampare per le scale) i lampadari enormi che pendono dal soffitto delle stanze dell'Accademia più vicina (quella svedese). Io lo seguo: Jens è un filosofo, esperto di Kierkegaard e dell'esistenzialismo. E' uno dei primi traduttori dall'italiano delle opere di Gianni Vattimo seebbene non sia sempre d'accordo con Vattimo (e col suo pensiero debole). Anzi: ha da poco pubblicato la versione danese de Il futuro della religione e in un appendice di 40 pagine critica molto la posizione che sia Vattimo che Richard Rorty espongono riguardo alla religione e alla laicità e al rapporto tra le due sfere. Mi mostra un mucchio di ritagli di giornale: mi spiega che sono le recensioni che ha ricevuto il libro e tutte concordano nell'elogiare le critiche del curatore e nel criticare le posizioni dei due protagonisti (Jens sorride; è orgoglioso e fa bene, io farei lo stesso, ricevessi di simili complimenti).


Poi decide che è ora di andare a cena. Siamo sempre immersi nel buio e per spostarci dal secondo al primo piano, ci lasciamo guidare io dalla sorte, lui dall'olfatto e dall'abitudine. Dice che ama passeggiare in Accademia di notte, anche nelle ore più tarde, quando non riesce a dormire e fa prendere degli spaventi o piccoli infarti agli altri ospiti o borsisti suoi conterranei. La cucina è in perfetto stile Ikea (l'hanno inventata loro, d'altronde: non poteva essere diversamente) e c'è già qualcuno che mangia. Jens mi presenta due fanciulle (bionde, com'è ovvio) che rispondono ai nomi di Lette e Gilde. Qui sono tutti artisti: Lette è violinista, Gilde ha da poco pubblicato un romanzo. Ma poi ci sono anche un cantante d'opera; una scultrice; uno studioso di storia romana; un fotografo, etc. Sembrano un'allegra famiglia allargata. Ridono e scherzano fra di loro e quando parlano tra di loro mi lascio cullare dai suoni di una lingua a me ignota. Potrebbero dirsi anche le cose più assurde, io non mi accorgerei di nulla.


Jens è di quelle persone che parlano di filosofia anche a cena, ma senza annoiarti mai. Una delle due ragazze chiede di cosa stiamo chiacchierando. Jens le risponde che si tratta di Luigi Pareyson (e della traiettoria che hanno preso Umberto Eco e Gianni Vattimo a partire dagli stessi saggi del loro maestro). La ragazza (non ricordo più se è Gilde o Lette) fa una smorfia che significa: "che noia!" o anche: "che palle!". Non la biasimo. Jens ride. Poi mi offre un bicchiere di un liquido caldo fatto di vino rosso, bacche, cannella e more. Dice che è un liquore tipico delle feste natalizie. Mi fido: sa di amarena. Potrebbe ricordare vagamente una sangria. Scende che è una bellezza e per me, tornare al secondo piano, diventa un'impresa. Jens vaga per i corridoi con la sua vista da pipistrello e io lo prego di aspettarmi. Jens ride. M'indica un'ombra. Dice che potrebbe essere un fantasma. La cosa non mi piace affatto. Poi ci infiliamo in camera sua. Mi lascia guardare la posta elettronica. E mentre mangia un arancio, parliamo del saggio di Massimo Cacciari che parla Dell'inizio. Ci ho provato a leggerlo, ma è troppo per le mie capacità. Jens mi spiega che è molto neoplatonico nello stile e nella strutturazione interna. Ci sono dialoghi che non sono dialoghi. C'è un tipo che insegue altri due tipi e non si sa se camminanoo all'indietro (o in avanti) verso comunque quello che tutti dicono essere "l'inizio". Ma è davvero tale?


Fuori fa freddo. Attraverso parte di Villa Borghese, tra alberi giganti e prati pieni di foglie morte. Jens è un filosofo che crede nell'amore. Mi ha confessato che le piacerebbe avere una conoscenza diciamo "biblica" con Lette (o è Gilde?). Peccato però che sia fidanzata e lui non è proprio il tipo da rompere coppie stabili o "entrare nel nido di un altro" (testuali parole; penso che l'espressione è molto efficace, oltre che molto metaforica).


Jens è il filosofo con cui mi confido quando cerco un senso a ciò che mi preoccupa o che non capisco. Anche se lui non dà mai risposte certe. Arrivo a Piazza del Popolo. Jens a quest'ora starà girando da solo come un pazzo per i corridoi dell'Accademia. Al buio, per spaventare gli altri connazionali e spiegare loro che un senso proprio non c'è. Anche se è ancora bello credere nell'amore. "Non ti sembra incredibile?". "E' incredibile, ma fai bene". "Anche se ormai sono vecchio per certe cose". "Ma no, che non sei vecchio. Anzi". "Ma secondo te le piaccio? Le interesso?". "Ho visto che ti guardava con occhio interessato, sì. Direi proprio di sì. Dai, fatti sotto".

viernes, diciembre 07, 2007

Il dibattito sui giovani



Causa un fastidiosissimo ascesso a un dente curato male, mi sono ritrovato bloccato a casa e ho avuto modo di inabissarmi nel vuoto televisivo. Che la televisione sia ridotta male in quanto a contenuti è cosa palese e risaputa; che in televisione si parlasse così tanto dei cosiddetti "giovani" mi ha colpito parecchio. Sembra che all'origine ci sia il delitto di Perugia (una studentessa inglese violentata e ammazzata da non si sa chi; studentessa, quindi giovane, quindi universitaria; come per Cogne, a Bruno Vespa non deve essergli parso vero avere la possibilità di farci sù tante puntate ricche di suspense e di interviste ai sospettati). Com'è possibile un delitto simile? Come mai a Perugia, città tranquilla e universitaria, e perciò piena di ragazzi? Da qui una sfilza di giornalisti (o pseudo-tali) pronti, col microfono in mano, a indagare nella vita privata degli universitari tra i 19 e i 26 anni.



Umberto Galimberti, il filosofo, l'ha detto almeno due volte: una sera, a notte tarda, da Bruno Vespa (ma va?); l'altra sera, a notte media, al Maurizio Costanzo Show. I giovani di oggi si ritrovano demotivati e incapaci a vivere in modo sano le emozioni perchè sono finiti in una società del benessere che sta per eliminare lo "stato sociale" (niente più pensioni, in futuro, se non apri un tuo fondo pensionistico a parte) e che non fa che spingere l'acceleratore sul pedale del consumismo e del capitalismo fini a sè stessi (per cui io sono non per quello che valgo - moralmente, soggettivamente - ma per quello che posseggo o posso comprarmi).



Posso essere d'accordo: la precarietà è davvero il male sociale di questi giorni. Vent'anni (o forse trent'anni) fa, a 18 anni, chi non aveva voglia di studiare si cercava un "posto fisso" e si costruiva una famiglia o una casa o tutte e due le cose insieme. Oggi bisogna: 1-laurearsi; 2-dottorarsi o fare un master; 3-trovarsi un lavoretto part-time di fortuna e poi, forse, chissà, a 30 o 35 anni ci si può davvero "independizar" (come dicono gli spagnoli) e vivere delle proprie forze (lontano dalla condizione di eterni figli; lontano dai propri genitori). Ma ci siamo chiesti davvero chi è il vero responsabile di una situazione simile? Ci siamo chiesti davvero perchè un dottorato deve finire con l'accettare anche un lavoro come cameriere a trent'anni o come dipendente call-center se non trova sbocco nell'ambito della ricerca? E perchè tanti ricercatori sono obbligati ad emigrare all'estero? E perchè tanti "masterizzati" sono costretti allo stage presso l'azienda prima che questa si decida a dargli un contratto vero (e non temporaneo e non part-time)?



Sembre Galimberti nota: "Una società che non sfrutta il potenziale dei giovani è una società destinata al declino". Non si può non sfruttare un ragazzo che, prima dei 30 anni e non dopo, è nella fase della sua maggiore forza creativa, sessuale, progettuale, fisica. E' come se in passato avessero dato il pallone a Pelè a 18 anni (e non prima). Verissimo. Ma ripeto: quali sono le cause che (mi) impediscono d'entrare davvero nel mondo del lavoro e di esprimermi al meglio (d'esprimere al massimo grado le mie potenzialità)?



Beppe Grillo propone da vario tempo di eleggere i politici con contratti co.co.co.: se lavorano bene, vanno avanti; se ci fanno schivo e ci accorgiamo che non rendono (che sono assenteisti; che fanno il proprio porco comodo), li mandiamo a casa (o a zappare la terra). Che c'entri la politica? Non c'è dubbio (in Spagna Zapatero vuol dare un aiuto economico di non mi ricordo più se 200 o 400 euro ha chi, essendo giovane, guadagna poco e vuol andare a vivere in affitto da solo). Che c'entri anche il fatto che in Italia gli avvocati, i notai, i professori, i medici che più guadagnano e che sono più rinomati sono persone che ormai rasentano la settantina? Perchè all'estero anche chi fa politica ha un'età media molto più bassa rispetto all'Italia (paese meraviglioso, non c'è che dire, ma anche paese anomolo, in cui un settantenne, un vecchietto, diciamo, come Berlusconi può sciogliere un vecchio partito, per fondarne uno nuovo di zecca - il Popolo delle Libertà, lui che parla di libertà, poi, davvero comico)? E perchè sempre all'estero, mettiamo in Germania, ci sono ingegneri che cambiano lavoro anche due volte l'anno senza mai perdere potere d'acquisto, offrendo le loro capacità all'azienda che paga meglio, mentre qui, da noi, a Roma, esistono ingegneri aerospaziali (come un mio amico) che hanno trovato il "posto" dopo uno stage e guadagnano 1200 euro (come se fare l'ingegnere aerospaziale fosse un lavoro simile all'impiegato statale)?

Tornando ai giovani: in una società in cui il potere è avidamente in mano agli adulti (ma da noi potremmo dire anche: ai vecchi), e in cui non c'è vero dialogo e scambio generazionale (per cui gli adulti guardano al mondo dei giovani come un mondo di alieni; e viceversa questi guardano ai loro padri come a degli avidi "poltronisti") si corre davvero il pericolo di non parlarsi più, di non scambiarsi più esperienze, di non crescere.

Mio nonno mi ha insegnato a riparare una camera d'aria di bicicletta; io potrei insegnare lo stesso (e anche di più) a mio figlio, avessi i soldi per mantenermi una famiglia e metterlo al mondo.

martes, noviembre 27, 2007


Traslochi - Mudanzas - Movings
Molto probabilmente questa è l’ultima notte che dormirò in questa casa (almeno come coinquilino – in futuro, chissà, potrei tornarci e rientrarci e pernottare, ma solo come ospite, di passaggio). L’idea di un futuro; l’idea della stessa stanza in un futuro abitata e “vissuta” da un’altra persona mi affascina e mi spaventa allo stesso tempo. Qui ci ho trascorso quasi 4 anni della mia vita da giovane (non più, non tanto, ormai). Qui ho scritto e sudato per scrivere le mie carte travagliate. Qui ho amato e sono stato amato. E tra poco, non ci sarò più, mi ritroverò a respirare e a camminare in un’altra stanza, di un’altra casa, in un’altra città… accanto alla persona che amo. E’ faticoso traslocare. Smuovere le acque, prendere coscienza delle mille cose che riusciamo ad infilare in una decina di metri quadri. Togliere la polvere accumulata sui libri; ritrovare libri che non sospettavi d’avere; rimestare tra le cianfrusaglie di tempi passati (nemmeno troppo lontani; in questa foto, ad esempio, c’è Roby e Raffaele, insieme a Ilaria e Valeria, siamo in piedi, dentro un ristorante, in attesa che arrivino le pizze, sembriamo felici, all’epoca Ilaria sapeva già di essere incinta e per questo aveva già chiesto – ed ottenuto – la maternità; Valeria, invece, sembra più vecchia del normale, forse è stanca, le borse sotto gli occhi le conferiscono un’aria triste, chissà se aveva davvero voglia di partecipare a quella cena; Raffaele, il peggior nemico di Roby, tocca la spalla di Roby, gli si appoggia, da Giuda traditore, ma all’epoca nemmeno Roby sospettava che Raffaele l’avrebbe tradito, appoggiando la sua espulsione dall’hotel…). E ora che la stanza è vuota (o quasi) l’effetto dell’eco rimbalza sui muri spogli (niente più poster, né manifesti giganti; pochi ostacoli contro cui l’onda sonora finisce con lo sbattere e rimabalzare); e proprio l’effetto eco induce a movimenti più lenti (che gli altri non sentano; ma a quest’ora – le 1,54 della notte – dormono tutti, di là, i miei amici coinquilini che continueranno a vivere in questa casa e che forse, un giorno, si dimenticheranno perfino di com’era la mia faccia, quella stessa faccia che per quasi 4 anni ha visto l’alba sorgere e la luna calare da questa finestra al secondo piano…). Domani invece sarò di là e dovrò riabituarmi a una nuova situazione; è difficile prendere confidenza con i nuovi spazi; calibrare bene la distanza dal comodino o la scrivania; riconoscere anche al buio l’esatta posizione dell’interruttore per accendere (o spegnere) la luce di notte dal letto. E abituarsi anche al respiro lento (o sommesso o concitato, questo dipende) dell’altra persona che abbiamo accanto e che da oggi in poi vedremo in ogni momento (quando si alza, spettinata, al mattino; e quando esce di casa, vestita per il lavoro, truccata e pettinata, elegante nella sua semplicità, maliziosetta nella sua innocenza candida). E poi ci sono i gatti, io non ci convivo bene coi gatti, ma dovrò abituarmi anche a quelli (passo felpato, occhi scrutatori, certe volte Biscotto e Pallina mi fanno paura). E’ difficile accettare che da domani sarà un’altra la stanza che mi vedrà passare e ripassare, scrivere ed esultare, piangere o rabbuiarmi (magari con la persona che ho accanto e che proprio per la vicinanza mi spingerà all’isolamento o alla rabbia trattenuta, ai litigi nascosti, che sono i peggiori, quelli che si svolgono sotto banco e vengono azzittiti dalla coscienza sporca). Niente più casa “trasformabile” del palazzo di fronte; niente più coinquilini studenti quasi coetanei; niente più libri messi in bella mostra ad accompagnarmi nel lento trascorrere della giornata. Nuovi spazi e nuovi tempi per una vita nuova che non conosco ancora.

lunes, noviembre 26, 2007

Desde Barajas

(Madrid – 22 de Noviembre de 2007, horas: 14,32)

Quando vado a Madrid trovo appoggio costante e generoso da Ambra e Veronica. Sempre. Indefettibilmente. Non si risparmiano mai.
Ambra è nata a Firenze, ma ha i parenti a Soresina (un paese a 80 km da Milano), anche se ormai vive in Spagna da 15 anni. Quindi, si può dire che ormai è più spagnola che italiana (Ambra di anni ne ha 24, compiuti da poco).
Veronica, invece, è argentina. Viene da Buenos Aires, ma ha vissuto per due anni a Rio de Janeiro. Dopo l’esperienza brasiliana (compiuta tra i 18 e i 20 anni) si è trasferita nella capitale del Regno. Ha 28 anni, anche se non li dimostra, e i capelli neri e gli occhi scuri e la carnagione mulatta (ottime curve, su un corpo piccolino, ma si sa, la donna bassa riserva sorprese…). Ambra è alta e magrolina, ma ha una forza di volontà e un’energia spaventose, se rapportate al suo fisico. Fa la giornalista, lavora in un’agenzia stampa collegata all’Opus Dei (peccato) e si mantiene da sola da quando ha raggiunto la maggiore età. Veronica ha lavorato nel campo della ristorazione e del settore alberghiero: ha fatto la cameriera, la capo-sala, la recepcionist, e poi ancora: la commessa, la bar-man (esiste “bar-woman”?), la pierre in una discoteca del centro (discoteca in cui mi faceva sempre passare senza pagare, con drink costoso incluso nel prezzo).
Con Ambra ho imparato che niente è impossibile se lo si desidera veramente; grazie a Veronica ho imparato a nuotare (ma solo in piscina, ancora non mi sono mai azzardato in mare aperto). Ambra è di quelle persone che sanno ascoltare gli altri e soprattutto di quelle che non si scandalizzano davanti a nulla. Ambra ti ascolta e presta attenzione, dà consigli sensati e non si spaventa o non si sorprende davanti a nessun racconto (per surreale o pazzo possa essere quest’ultimo). Veronica è una “macchina”, una bomba a orologeria: non nel senso che potrebbe scoppiare da un momento all’altro, no. Nel senso che quando decide di darsi la carica riesce ad andare avanti per ore, senza dormire, lavorando, andando in giro e di festa in festa, di bar in bar, conosce tutti e tutti la lasciano passare col sorriso sulle labbra (le mie migliori sbronze, quelle più divertenti e quelle che si sono prolungate fino all’alba o alle 8 del mattino le devo a Veronica). Non so proprio come faccia, a tenere certi ritmi (non credo faccia uso di droghe pesanti, le canne sì, quelle le abbiamo fumate insieme in più di un’occasione). E non so da chi ha preso Ambra (due genitori splendidi, una madre attenta e simpatica, un padre vispo e dalla mentalità davvero aperta – una volta mi fumai una canna con Francesco, dopo cena, a casa sua, davanti a Federica, la moglie e madre di Ambra; quante risate quella sera, criticando certa politica italiana e rimembrando i primi tempi del trasferimento in Spagna; quante risate e quante acute osservazioni sulla nostra attuale, permamente, situazione di stallo e mancanza d’entusiasmo).
Veronica ha cominciato da poco a lavorare al Corte Inglés (per una marca famosa di moda argentina); Ambra scrive articoli per la sezione “Turismo”. E grazie a questo incarico, ogni tanto viaggia per il mondo. L’altra settimana era a Budapest; tra due settimane sarà in Cina (Singapore e Shangai) per una doppia conferenza stampa (ridendo m’ha chiesto se avrà il tempo di vedere almeno le hall dei due hotel in cui pernotterà).
Veronica e Ambra, due porti sicuri nel mare incerto della caotica Madrid. Ambra e Veronica, due donne intraprendenti e con la testa sulle spalle che ammiro e ammirerò sempre, anche se in futuro dovessero tradire la nostra amicizia o cambiare la loro opinione su di me. Due persone che danno la carica e di cui tanto si ha bisogno quando ci si sente soli e abbattuti, o più semplicemente nostalgici (ancora non metto piede a Pisa – scrivo dall’aeroporto di Barajas – e già sento la nostalgia della mia seconda casa).

martes, noviembre 20, 2007

In the dark and deep part of the night

"E' stato bello, anche se è durato poco". Quante volte pronunciamo questa frase (o ce la diciamo in silenzio tra di noi, a mente aperta e bocca chiusa)? In quante possibili e variabili circostanze?
Mi viene in mente l'atmosfera di distensione paradisiaca che si respira dopo l'amore: "E' stato bello, anche se è durato poco", in questo caso sì che potrebbe suonare ad offesa (l'orgoglio maschile sempre in agguato, ahinoi, maschi irascibili, anche quando non siamo frettolosi, anche quando riusciamo a regalare orgasmi degni di questo nome), se la frase è detta dall'amante o dalla compagna che abbiamo affianco (ma in linea di massima e in generale "l'orgasmo è bello perchè dura poco" - litigarello avrebbe fatto rima, ma quello è l'amore, è un'altra storia...). Oppure, mi viene in mente l'aria di abitudini riconquistate, dopo un viaggio. E allora si accende il computer e si guardano le fotografie scattate a Plaza Colón, o alla Gran Vía di notte (con le sue mille luci accese e scintillanti), o al Paseo del Prado, con la statua di Velázquez a fare la guardia alle stanze (mille e una) del mitico e omonimo museo nazionale... e si dice: "E' stato bello, ma è durato poco, magari potessi tornarci, avere più tempo per visitare anche gli altri posti che non abbiamo visto e che la guida ci raccomandava con tanta eloquenza"). Oppure, quando si rompe un rapporto e allora la frase assume connotati cinici, quasi fratricidi, mi verrebbe da dire: "E' stato bello - anche se è durato poco, o troppo, o tanto - e adesso ognuno per la sua strada, non voglio più che mi chiami, non telefonare più, basta vedersi la sera per andare a mangiare la pizza, ormai è fatta, ormai è finita" e ti prepari ad andare al cinema con un amico, sbiadito solo dopo mesi il ricordo di quando ci andavi con lei e le stringevi la mano o le carezzavi la gamba o le stampavi un bacio dietro l'orecchio e sul collo (due punti cruciali per eccitarla, da farle venire la pelle d'oca). "E' stato bello, peccato debba finire", penso, quando finisco di leggere un romanzo che mi coinvolge e avvince e la trama s'avvia alla conclusione (lo diceva giustamente anche Frank Kermode: "il bello dei romanzi è che devono giungere a un finale", anche quando questo venga ritardato - sorta di "orgasmo ritardato", in questo caso, o coitus interruptus ad infinitum). "E' stato bello", dico ad Antonio Escudero, vecchio saggio e amico della Biblioteca Nacional, incontrato per caso davanti alla macchinetta automatica che distribuisce caffè e cappuccini che ricordano solo vagamente ciò che in Italia definiremmo come un caffè e un cappuccino... Mi spiega che ultimamente la gente ha perso l'entusiasmo. Che in giro si respira un'aria cattiva, di disfattismo e di superficialità infinita. Dice che si sente meglio quando sta da solo; Antonio Escudero dice di coltivare la solitudine a Las Navas, e che gode della pace e della tranquillità delle piante del suo mitico giardino. "E' stato bello", anche se deve per forza di cose finire. Come il libro di Sebald che ho ripreso in spagnolo (e che ho già letto in inglese e che forse comprerò anche in italiano), Los anillos de Saturno, pieno di foto e di immagini che sembrano provenire da un altro pianeta. Saturno, di fatto, era il pianeta della Melancolia, presagio di cattiva sorte, o di malattie e morte. Un libro strano, che sembra ruotare attorno alle vestigia dei tempi passati, che s'impegna a ricordarci che cenere siamo e cenere ritorneremo. Un libro che si apre con una citazione che fa al caso nostro ("E' stato bello, anche se è finito presto"):

'Good and evil we know in the field of this world grow up together almost inseparably'

E così ora, mentre scrivo dalla Biblioteca e attorno a me ci sono persone che scrivono le loro tesi e leggono gli autori più disparati e realizzano le loro ricerche con passione e foga, mi viene da pensare che anche queste due frasi sono inseparabili: "E' stato bello, anche se è durato poco".

martes, noviembre 13, 2007

Viaggi (senza casa)

Ascolto At last, della bravissima Etta James, e danzo sul bordo… Tra poco meno di 24 ore sarò a Madrid. La seconda patria (o seconda casa). Non so se avrò la stessa impressione avuta nel 1999, quando ci andai per la prima volta. Anzi, probabilmente l’effetto sarà diverso. Così come m’è parsa un’altra città quando la visitai nel 2001. E quando ci passai tre mesi nel 2003; e quando ci tornai per un convegno nel 2005. E quando ci passai l’estate del 2006. Si può vivere a metà, tra due nazioni? Si può stare con un piede in Italia e l’altro in Spagna? Quando ci si pongono di simili domande ci si rende subito conto del fatto che se si nasce in un posto è solo frutto di casualità. Non stava scritto da nessuna parte che io nascessi in un paesino arroccato tra i monti abruzzesi. E non era previsto da nessuno che nascessi dai genitori che poi ho avuto (la fortuna di avere). Il caso fa il bello e cattivo tempo, a prescindere dalla nostra volontà. E c’è chi si ritrova a vivere un rapporto a distanza non volendolo. E chi, invece, magari, vive un rapporto con la vicina di casa e ha già una casa e gli sta bene così (o ne trova una nella stessa città e decide di comprarla: facciamo un mutuo, tra quarant’anni la casa sarà nostra, potremmo lasciarla in eredità ai nostri figli, che ne pensi?). C’è chi è nomade di spirito; e chi non vede l’ora di fermarsi in un posto e passarci tutta intera la vita. Io personalmente mi annoio dopo una settimana a stare nella stessa città. E per questo do da mangiare alle FS da ormai più di dieci anni. E mi muovo tra Firenze, Pisa, Roma, e il paesino abruzzese di cui sopra. La casa è lì dove sono i tuoi affetti. Devo avere gli affetti un po’ sparsi in mezza Italia, ultimamente. Toscana, Lazio e Abruzzo. Senza contare gli amici vicini e lontani (Silvia di Vercelli – dunque Piemonte; Rosa e Seby di Salerno – dunque Campania; Emanuela di Fiuggi – dunque ancora Lazio; Gabriele di Macerata – dunque Marche; e Gabriele l’altro di Padova – dunque Veneto; Aurelia di Oristano – dunque Sardegna). E poi Daniela e Giovanna, di Livorno, e Roby, e Mery, e Renzo, ecc. ecc.
C’è chi trema all’idea di fare un colloquio di lavoro a qualche kilometro di distanza da casa sua; io partirei al volo, anche senza valigie, anche se il colloquio fosse a New York (città che mi riprometto di visitare, prima di morire). E poi c’è Cuba e La Habana con le macchine d’epoca ancora funzionanti; e il Messico con la capitale (tra le città più pericolose del globo, a detta delle statistiche); e il Perù; e il Canada o l’Australia, che tanto piacciono ad Alyssa. Che è più sedentaria e domestica di me (quante discussioni al riguardo!). Ma esiste davvero poi una casa in cui poter stare tutta la vita? E poter dire, “finalmente”, “at last”, sono arrivato…

domingo, noviembre 11, 2007


Al cinema ci vuole suspense (e sopresa)




Alla fine ci sono andato: al cinema, a vedere La terza madre. Alla fine del film m’è venuta in mente questa riflessione: c’erano tutti i mezzi per dare vita a un film davvero bello e davvero pauroso e invece… La sceneggiatura non è così “imprevedibile”, anzi; l’attrice protragonista, cioè Asia, la figlia di Dario, è piuttosto inespressiva (recita con tono di voce monotono ed espressione falsamente ed ingenuamente “sconvolta”); gli effetti speciali, sì, d’accordo, ci sono e fanno paura, ma spesso e volentieri sono volti a sé stessi, fanno scattare dalla poltroncina, ma poi si ripetono e ti lasciano quasi indifferente. Certe scene, più che a Dario Argento, fanno pensare al collega e amico Lamberto Bava. Che faceva horror di serie B e ne era orgoglioso; ma da Dario, certi trucchi, dopo Suspiria e dopo Profondo Rosso proprio non ce li saremmo aspettati (come la scena finale in cui Asia si trascina in mezzo a liquame non ben identificato tra teste e tronchi mozzi, braccia e vomito e schifezze varie, per poi risalire in superficie e rivedere l’alba di un nuovo giorno).
Ora, il punto è questo: secondo me esistono due grandi sotto-categorie dei film cosiddetti “horror” o del terrore; a) quelli che fanno paura a partire da una situazione realistica e verosimile; b) quelli che creano il terrore a partire da situazioni date di per sé come irreali, fantastiche o sovrannaturali. Per i film del primo gruppo, possiamo citare Psycho di Hitchcock; per quelli del secondo, possiamo pensare agli stessi film di Dario Argento (penso a Phenomena o anche al succitato Suspiria). Poi ci sarebbero film a metà: o che, partendo da una situazione realistica, sfociano nel “fantasy” e nel soprannaturale più puro (vedi Rosemary’s baby o L’inquilino del terzo piano di Roman Polanski; o anche La notte dei morti viventi di George Romero); oppure quelli che, al contrario, partendo da una situazione apparentemente soprannaturale e fantastica arrivano a una soluzione finale razionale e realistica (vedi… non mi viene in mente un esempio, forse perché è più difficile pensare a un film con tali caratteristiche; in genere, quando si parte dal reale per sconfinare nel fantastico il viaggio è di sola andata e non si torna indietro; certo molti “trhiller” - e non “horror” – approdano a una spiegazione razionl-materialistico-matematica, ma spesso resta l’ombra del soprannaturale; in tal senso è esemplare proprio Psycho: i dottori possono pure rassicurarci, la giustizia – rappresentata dalla polizia del paesino in cui vive Norman Bates – può pure aver catturato il pericoloso e psicopatico serial-killer, ma Bates continua a spaventarci con quel suo ghigno malefico e da pazzo furioso – vedi dissolvenza incrociata tra il volto di Bates e il teschio di un cadavere). Ecco, le mie principali difficoltà a seguire La terza madre derivano dallo statuto fin troppo “fantasy” della storia. Ripeto: non che in Suspiria o in Tenebre (la seconda parte della trilogia) ciò non succedesse, o non ci fossero apparizioni di streghe, o scontri tra streghe malefiche e streghe benevole (magia nera e bianca, come suolsi dire); o che non ci fossero esplicite scene di splatter puro, con conseguente rovesciamento intestinale di budella, cervella e litri e litri di sangue e materiale organico; no, queste sono cose che si vedono anche nei primi due capitoli della trilogia su “mater suspiriorum” e “mater tenebrorum” e “mater lacrimorum”. E’ che nell’ultima parte il “fantasy” prende il sopravvento, il soprannaturale viene chiaramente mostrato e la suspense va a farsi friggere a scapito di una inverosimile lotta tra le forze del male e quelle del bene. Come si fa a credere a Asia Argento quando, inseguita da una banda di streghe vestite come mignotte o punkabbestia strafatte, riesce a nascondersi perfino allo sguardo del polizziotto scomparendo con la sola forza del pensiero? Come si fa a provare paura davanti a una strega cattiva dai tratti orientali che sembra uscita da un manga giapponese e che si lascia fracassare il cranio sul treno Roma-Orte? Come ci si può fare sconvolgere dall’Apocalisse che sembra impossessarsi della capitale, con scene di violenza, stupri, mamme che gettano i bambini nel Tevere se dietro a tutto questo c’è già una spiegazione logica, anche se legata al soprannaturale – ovvero l’arrivo a Roma capoccia di una banda di streghe guidate dalla “terza madre” del titolo? Questo è l’errore di fondo che evidentemente impedisce al regista di sfruttare al meglio la sua vena visionaria. E di non ripetersi troppo, come invece ha fatto in questo film.
Scrivo queste impressioni da spettatore, ma so già che, la prossima volta che Dario Argento farà un film, io sarò lì, presente, in fila, a comprare il biglietto, per godermi lo spettacolo. Perché ci si affeziona a certi film, e a certi registi, proprio come si ha caro il prorpio autore preferito o l’attore dei propri sogni adolescenziali. Però che bello sarebbe poter vedere film in cui non cala mai la suspense; in cui il regista ci regala nuove paure; in cui si gioca a carte scoperte (o anche coperte) un gioco comunque nuovo, o mai ripetitivo.
Leggo le recensioni all’ultimo film di Coppola e temo che l’esperienza vissuta per Dario Argento possa ripetersi per il regista di uno dei miei film preferiti, Apocalyspe Now (Apocalisse Ora, ovvero “dentro il cuore di tenebra” di Conrad e dell’America). E così ho anche paura a noleggiare Inland Empire di David Lynch. E se fosse una fotocopia di Eraserhead? E se fosse una fotocopia fatta male, per giunta? Ho amato Mulholland Drive; ma ho adorato ancora di più The Straight Story ovvero Una storia vera, perché non sembrava Lynch… Che gli artisti s’ingegnino a soprenderci sennò finiremo per tradirli! O voltare loro le spalle (e mi vedo già in fila, in attesa, prima di entrare in sala, per vedermi l’ultimo di Nanni Moretti, o l’ultimo di Woody Allen, o l’ultimo di Martin Scorsese…).

domingo, noviembre 04, 2007

Fotografie



Fotografie dell'infinito

viaggiare

tra le macerie

d'istinti ridotti a

brandelli

di scene di film

senza sonoro nè fine

tra mucchi di carte

e ritratti d'autore

lungo questa fine

di millennio

appena iniziato...



L'aria del mattino



E alzarsi la mattina presto

respirando l'aria dell'alba

tra i parcheggi

in compagnia di uccelli liberi

di disegnare in volo la linea

del mio destino,

del tuo cammino,

d'aerei che decollano e

portantini d'altri tempi,

di voci d'altoparlanti

e poliziotti in borghese

che vegliano per la

sicurezza

della nostre corte vite

messe in fila

lungo file d'alberi

e strade acciotolate

e curve inaspettate.

sábado, noviembre 03, 2007

Il 2 di Novembre



Tutti i santi (All Souls) o tutti i morti (The dead), ancora non so distinguerli per bene.

Mi reco da un vecchio amico che fa il portiere di notte (lavoro invidiabile: vede passare un sacco di belle donne davanti al suo bancone e si fatica poco, giusto qualche bicchiere d'acqua, un asciugamano in più o "scusi, dove si spegne/si accende il condizionatore?"; tutta la notte davanti per dormire - sonnecchiare, via - vedere film (i "Bellissimi" di Rete4? Ultimamente ce l'ho con Rete4, non so perchè...), leggere romanzi, scrivere poesie, parlare al telefono con la moglie che è a casa e aspetta il suo ritorno la mattina all'alba... e poco più).

Parliamo di film; gli dico che mi piacerebbe poter tornare ragazzo, rivivere il giorno in cui vidi per la prima volta Back to the future, ovvero Ritorno al futuro, di Robert Zemekis (un film del 1985, avevo appena 8 anni); oppure poter vedere l'intera trilogia in un'unica lunga sessione, come hanno fatto quelli della "Festa del Cinema" a Roma, in omaggio a Dario Argento e alla sua trilogia (Suspiria, del 1977, annus mirabilis - non a caso nacqui io, in quel frangente storico...; Inferno, del 1981, con una delle inquadrature più spericolate della storia del cinema - da una finestra a una scalinata a un tetto e ritorno, più o meno, se non ricordo male, in un unico piano sequenza, una scena molto hitchcocckiana; La terza madre, di questo 2007 che volge al termine - già mi vedo a Natale, accelero i tempi- e che ancora non ho avuto il piacere di andare a vedere al cinema). Chissà come sarà stato contento Dario, a vedere tutta quella gente urlare di paura per le scene più atroci e splatter, a sentire gli applausi o le risate o i cori da stadio.

Renzo, così si chiama il mio amico, non ama l'horror; è fin troppo serio, per poter apprezzare questo genere di cose. A volte mi piacerebbe spiegargli che la serietà danneggia gravemente la salute. Poi mi fermo, perchè mi offre una sigaretta e perchè ognuno si programma (o fa finta di programmarsi) la vita come vuole (o come più gli aggrada). A proposito di film, gli dico che oggi ho finito di vedere un film stranissimo e surreale, o meglio, onirico, di Marco Ferreri: Storia di Piera. Renzo mi guarda sbigottito: non ne sa nulla. Entra una cliente, una bionda molto carina, con gli stivali bianchi e la giacca di cuoio nera. Sembra uscita da una discoteca. Emana un profumo pungente. Mi viene in mente una vecchia canzone di Lucio Battisti (l'idolo musicale di mia madre), quella che fa: "Che sbaglio avere una donna per amico", o qualcosa del genere. Sì, quella: Una donna per amico. Renzo mi guarda sbigottito. Non l'ha mai sentita.

E allora passiamo a parlare degli orari notturni di certi adùlteri, che affittano la camera e noleggiano una compagna per una notte (anche questa, una donna per amico, anche se a pagamento e a ore). E allora mi viene in mente un'altra canzone, una di Daniele Silvestri, una di quelle canzoni che ascoltavo sei volte al giorno mentre andavo a lezione all'Università (e attraversavo viale Ippocrate e poi viale dell'Università e poi Piazzale Aldo Moro): "Dov'è che ci siamo già visti? Non ti inquadro. Eri anche tu coi sandinisti o facevi teatro? Comunque procediamo, lo so ti sembro strano, ma sono gli anni il vino la miopia. Che poi non è che beva molto e qualche volto ancora lo ricordo e non ingrasso non sono sordo e ho ancora molta molta fantasia... Bisogna essere ottimisti, fino in fondo, perchè potrebbe essere domani la fine del mondo".

Renzo mi richiama sulla terra: "Ma dico, l'hai vista quella?". Gli spiego che mi ero distratto. Mi fa vedere la carta d'identità del tipo che l'accompagna in camera, un tipo grasso, uno qualunque, un po' calvo, un po' unto. Si è fatto tardi. E non ricordo se questo che si è appena concluso è il giorno di tutti i santi o quello di tutti i morti. E comunque è vero: potrebbe essere domani la fine del mondo...

domingo, octubre 28, 2007

Diario di Lecce





(that's to say: if you like it, do it!)


23/10/07 ore 19,50

Sto partendo per Lecce per partecipare a un convegno sul tempo. Salgo al secondo piano del pullman che mi porterà alla fermata di Viale Ugo Foscolo e mi accorgo subito di una cosa: che quando ti siedi in un posto al secondo piano di un pullman sembra come se a guidare non ci fosse nessuno. Come se il pullman (col parabrezza libero e i primi posti sprovvisti di volante) ti portasse da solo dove vuole lui (e a te non resta che sperare che non si schianti contro qualche muro o albero).

Ai lati della strada sfrecciano luci rosse e gialle. Intravedo l'interno illuminato di qualche casa o palazzina poco distante dall'autostrada. E il fatto che ci siano luci accese dà conforto: vuol dire che c'è ancora vita in giro, da qualche parte, anche se tu, che sei in autostrada, non sapresti individuare nè il posto nè il nome del posto in questione.

24/10/07, ore 17,30

Sono venuto a Lecce per motivi di studio e mi accorgo di avere sbagliato abito: qui non fa così freddo come a Pisa o a Firenze. E soprattutto, qui nessuno va in giro con un completo nero e un cappotto nero invernale e un paio di Nike rigorosamente nere ai piedi. Passeggio tra la centralissima e trafficata Via Templari e Via Umberto I e mi sento a disagio, come fossi un maniaco o un ladro in incognito.

A Lecce fa davvero caldo e per provare a scaricare lo stress che mi produce tanto sudore sulla fronte mi fumo una sigaretta seduto davanti ai resti dell'Anfiteatro Romano. Siamo a Piazza Sant'Oronzo, tra le più famose della città. Intere famiglie consumano il loro pranzo tra i tavolini del McDonald; i vecchi chiacchierano davanti ai giornali. Provo a chiedere a tre tipi appoggiati a un palo accanto a un taxi quanto costa la corsa da lì a Viale Ugo Foscolo (la fermata da cui ripartirò per tornare a Pisa). I tre smettono di parlare e con tutta calma mi consigliano d'indirizzarmi a quei due signori laggiù. Sono loro quelli che guidano il taxi. Così, rosso in viso per la vergogna, mi rivolgo ai due signori, ma neppure questi sono i tassisti. Chiedo scusa e seguo le loro indicazioni: i due che m'interessano stanno dentro - e non fuori - del taxi. Che stiano per caso complottando alle mie spalle? Che tutti quelli cui chiedo informazioni stiano organizzando un piano per impedirmi di tornare a casa?

Alla fine ci rinuncio. Sono tornato a Piazza Santissima Addolorata: è qui che alloggio, per l'esattezza Vico San Giusto. Il mio bed & breakfast è un bilocale a piano terra con bagno minuscolo e piano cottura degno, anche se il resto dei mobili appartiene a un'era che non è più la nostra. Siccome le luci sono tante, ma tutte fioche e site negli angoli più impensati, scrivere o anche solo leggere il giornale diventa un'impresa e così le accendo tutte, compresa quella del bagno (al neon - fastidioso ronzio tipico delle sale d'attesa - ma almeno così ho l'impressione di avere più spazio, come se con le luci accese guadagnassi spazio).

Non so come spiegarlo, ma sembra che a Lecce le case a piano terra diano direttamente sulla strada: la gente non sembra avere problemi o timori a lasciarsi "spiare" o più semplicemente guardare dai passanti che attraversano le strade del centro. Come dirlo: le case, con le loro solite stanze note a tutti, sono tutte ad altezza d'uomo (se sono a piano terra, ovviamente). Qui di fronte, ad esempio: se apro la porta con le persiane in plastica posso vedere una vecchina che cuce a maglia e guarda le telenovelas di Rete4. Più in là c'è un gruppo d'indiani che, forse grazie alla parabolica, guardano un musical o un video con danzatrici del ventre loro connazionali. E tra loro soglia e il selciato non ci sono che pochi centrimetri di distanza (questo sì, questa zona della città, il centro storico, è per la maggior parte pedonale; ci sono poche macchine e quando ci sono diventa complicato farsi da parte, appoggiarsi al muro, e lasciarle passare).

Le case sono bianche per via del caldo. Immagino che qui d'estate si soffochi. E che i leccesi abbiano visto la neve rare volte.

Un'altra cosa che colpisce di questa città è la presenza massiccia e discreta di negozi d'antiquariato e di prodotti artigianali. Dalle collane ai braccialetti, dalle borse alle maschere di cartapesta ai prodotti in ceramica o terracotta, dalle librerie dell'usato ai quadri alle cornici, dalle stoffe più pregiate ai prodotti tipici della cucina salentina, qui il turista curioso e appassionato d'artigianato può trovare di tutto. Le persone sembrano concentrate nel loro lavoro. E se entri a curiosare o a chiedere un'informazione te la danno con una gentilezza estrema.

A Lecce si respire tranquillità e aria di mare (anche se il mare è distante e da qui non si vede). Vago tra i vicoli stretti del centro e ascolto il rintocco delle campane: qui è pieno di chiese che ci tengono a ricordarci che un'altra ora è trascorsa e che siamo anche noi, ahinoi, mortali.

25/10/07 ore 8,45

Salgo sul pullman che ci porterà da Lecce a Cavallino (il luogo degli incontri del convegno). E' stracolmo di docenti. Luminari della scienza; baroni; grandi saggi dell'Accademia italiana.

A un certo punto mi si siede vicino un signore dall'aria distinta e gli occhiali con la montatura di tartaruga. Ha in mano un libro di Enrique Vila-Matas. Ci getto l'occhio e lui si accorge che sto leggendo il titolo del romanzo di Vila-Matas.

"E' un autore che non conoscevo: sa, mi hanno chiamato a far parte della commissione che dovrà giudicare la tesi di una ragazza che ha scritto 500 pagine su questo qui". E io.

"E' uno dei miei scrittori preferiti. E' pazzo. Mescola citazioni reali a citazioni inventate. Fa impazzire anche i suoi traduttori".

L'anziano signore distinto ride:

"Eh sì! Io devo andare lì a certificare se è postmoderno o meno. Secondo me lo è". E io:

"Oh, sì, ma certo che lo è, non ci sono dubbi. Postmodernismo allo stato puro. Un grande ironico, questo Vila-Matas".

Solo quando entro nella sede del convegno e sento le presentazioni dei partecipanti mi accorgo di aver parlato di Vila-Matas e di postmodernismo con Remo Ceserani. Che sul postmodernismo ha scritto qualche tempo fa Raccontare il postmoderno. Rosso in viso, alla pausa caffè, mi sono presentato chiedendo venia per la piccola gaffe. Il prof. Ceserani ride. Quale gaffe? Non ero certo tenuto a riconoscerlo dalla faccia! Poi lo ringrazio perchè in quel suo libro di qualche tempo fa citò due cose a me molto care: il luogo tra i monti abruzzesi in cui sono nato e un autore sottovalutato e misconosciuto come Tiziano Sclavi. Ride ancora e poi se ne va, parlando coi colleghi, e giovani promesse dell'Accademia italiana.

26/10/07 ore 2,12

Sono già 5 ore che siamo in viaggio. Ci siamo fermati all'autogrill per una sosta. Mi sgranchisco le gambe e mangio una mela. Una bionda molto carina ma dal culo enorme (e degli orrendi stivaletti rossi ai piedi) chiacchiera d'amore con un ragazzo ingelatinato. Si nota che sono amici e che si vogliono bene e che si conoscono da una vita. Io non conosco nessuno dei viaggiatori e avrei voglia di chiamare mia madre. O Alyssa. O mio fratello. Ma è tardi, stanno dormendo. Non posso disturbarli a quest'ora. E poi farei loro prendere uno spavento. Non è il caso. Accendo la luce del mio posto al secondo piano e leggo queste frasi da La pelle di zigrino di Balzac (e mi ci riconosco molto):

"E io, debole, gracile, così modestamente vestito, pallido e smunto come un artista appena convalescente dalla sua ultima opera, come potevo competere con dei graziosi giovanotti, arricciati, agghindati, incravattati da indurre la Croazia alla disperazione, ricchi, armati di Tilbury e rivestiti d'impertinenza?"

Già: come posso io competere?
















lunes, octubre 22, 2007

L'ultimo giorno

Se gli avessero detto che quello sarebbe stato il suo ultimo giorno, avrebbe fatto maggiore attenzione, non ci sono dubbi. Non avrebbe lasciato la tazza del latte sotto la goccia del rubinetto e tutta incrostata di marmellata e cereali (non stava bene e poi sua moglie doveva rigovernare e avrebbe fatto maggiore fatica a staccare le parti di cibo incrostate). E non avrebbe lasciato a metà quel romanzo che gli piaceva tanto (lo stava prendendo, come si suol dire, la trama l'aveva ormai accalappiato, voleva sapere che fine avrebbe fatto quel potenziale suicida con in mano un potere sovrannaturale come quello offertogli dal vecchio che gli ha venduto la pelle di zigrino...). E avrebbe chiesto scusa a moltissime persone care. Amici, parenti, suo fratello, e la moglie. A lei avrebbe detto tutte le frasi che non aveva avuto mai il coraggio di dire (perchè, al suo orecchio, suonavano troppo romantiche). E l'avrebbe baciata con più passione.
Se gli avessero detto che quel giorno si sarebbe fracassato la testa contro un albero, mentre era al volante, ne avrebbe approfittato per guardare l'ultimo film di Woody Allen e andarsene per sempre lontano con un sorriso. E avrebbe fatto le coccole a Biscotto, quel gattaccio che dorme sulla pancia della moglie e certe notti lo obbliga a prendere i sonniferi per riuscire a dormire perchè fa troppo rumore, ronfa e ronfa che è una bellezza.
Se lo sapeva prima, non avrebbe perso tanto tempo in questioni di poca o minima importanza come pagare le bollette e far quadrare i conti a fine mese: quanti tramonti si era perso? Quante volte si era dimenticato di guardare le stelle cadenti? Quante notti era stato in casa, seduto, in pantofole, davanti al televisore, invece di stare un po' fuori, con il naso all'insù?
E avrebbe baciato di più sua figlia, la piccola Ines, e le avrebbe raccontato del suo passato da studente scapestrato (quanti episodi del suo passato ignorava la piccola Ines). E le avrebbe detto che nella vita è importante godersela perchè non si tratta solo di fare il proprio dovere, quello è risaputo, ma al dovere, figlia mia, devi aggiungere il piacere, sennò che vita è?
Se lo avesse saputo prima, avrebbe fatto quel viaggio a Cuba cui aveva sempre rinunciato per problemi d'economia domestica. E avrebbe convinto la moglie a lasciare la scuola per un po', avrebbe fatto le valigie anche per la figlia, e sarebbe stato pronto a vincere la paura dell'aereo, in rotta verso La Habana.
E invece non lo sapeva e così finì con lo schiantarsi contro il guard-rail e poi contro quell'albero a lato sinistro della strada, dopo la curva, sotto la pioggia, e l'ultima cosa che riuscì a vedere fu un fulmine e l'ultima cosa che riuscì a sentire fu il rumore di un tuono, e l'ultima cosa a cui pensò fu al dopo, e poi, immediatamente dopo, a Ines e alla moglie, le avrebbe lasciate sole e indifese, temeva che non ce l'avrebbero fatta ad andare avanti da sole e poi c'è quella tazza, e il segnalibro a metà di La pelle di zigrino (Balzac è un mostro d'invenzione), e quella telefonata, e quell'amico che non vedo da una vita, e quel dottore che mi diagnosticò il tumore e si era sbagliato (per fortuna) e quella luna e queste stelle, sopra le nuvole, mentre piove e la ruota dell'auto gira a vuoto e l'unico rumore che sento è quello di un tuono in lontananza e l'unica cosa che vedo è questo fulmine che per un attimo illumina a giorno il cielo, che peccato, non poter rivedere le stelle...

viernes, octubre 19, 2007

S-vario

Non sono riuscito a vedere l'intervista di Serena Dandini a Sandro Veronesi (dalla puntata del 20 Maggio di Parla con me - le magie di internet: basta connettersi a RaiClick e poi selezionare il programma preferito ed il gioco...sarebbe fatto). E intanto la vita passa. Per motivi che non è il caso di citare in questa sede, mi ritroverò a viaggiare (e mangiare kilometri e kilometri d'asfalto, aria, e terra) tra Pisa, Firenze, Roma, Lecce e Madrid (dopo quasi un anno, torno nella mia seconda patria). E intanto: provo a capire chi sia davvero Victor Iriarte (consiglio a tutti il suo blog: http://cajanumero8.blogspot.com/). Ogni tanto lascio un mio commento ai suoi post "cinetici" (o "cinematografici"; davvero uno spettatore/lettore attento; non gli sfugge nulla). E immagino che sia davvero un regista, uno di quelli bravi, che ci crede, che crede nella potenza dei sogni ad occhi aperti, che fa film d'autore (o ci prova, almeno, contro l'imperialismo estetico americano). E intanto: il tempo passa, ho superato la trentina e ho ancora in mente quel romanzo, in cui si mescola tutto. In cui parlo di Tony Umorali, un personaggio stralunato che tenta di suicidarsi in tutti i modi e non ci riesce (c'è quella scena che ho riscritto cento volte e non viene mai la versione definitiva, quella in cui decide d'impiccarsi e si stacca la corda - o si stacca il lampadario vecchio e arruginito intorno a cui lega la corda che dovrebbe togliergli la vita). E si parla anche d'Università, degli scandali quotidiani che occupano il gossip accademico: quell'alunna tanto scarsa eppure tanto bella che riesce a portarsi a letto il prof. piacente e piacione; quell'altra che vince la cattedra lì dove insegna il suo amante; quello che si batte idealisticamente contro il marciume morale che regna ovunque e vorrebbe mettere una bomba in presidenza e invece sbaglia indirizzo, fa esplodere l'aula magna, perchè, preso da un raptus d'ira, semplicemente, entra dal portone sbagliato. In questo romanzo si parla anche d'amore: di un tizio perverso che s'intrufola nelle case delle fidanzate per portarsi a letto le rispettive mamme; un tizio così schifoso che quando viene scoperto dalla ragazza più carina e dolce che abbia mai incontrato si butta dal ponte dell'autostrada Roma-Teramo (all'altezza di Pietrasecca). E poi si parla di odio. E di invidia. E di solitudine. Le lancette dell'orologio scorrono e un vecchio attende la morte steso sul letto di un'ospedale tagliato fuori dal mondo. Scatta la mezzanotte e un'infermiera gli dice se preferisce svegliarsi o se vuole continuare a vivere il suo incubo quotidiano (il vecchio annuisce e l'infermiera gli ricarica la flebo di una sostanza giallognola). E poi si parla di paura. C'è quello che ha paura di perdere il lavoro e lo perde davvero. Ha 42 anni e si riscopre artista: canta e canta. Si dà al canto fino ad arrivare ad incidere un disco, e nessuno dei suoi colleghi gli crede, fino a quando non lo vedono cantare dal palco di Sanremo.
E intanto... Non ho ancora letto l'ultima parte di un romanzo uscito a puntate dal 2002. Queste sono le prime parole dell'incipit:

Uno non lo desidera, ma preferisce sempre che muoia colui che gli sta affianco, in una missione o in una battaglia, in una formazione aerea o sotto un bombardamento o in una trincea, quando c'erano, in una rivolta di strada, o in un furto in negozio o in un sequestro di turisti, in un terremoto, un'esplosione, un attentato, un incendio, è lo stesso: il compagno, il fratello o il padre, o addirittura il figlio, anche se è un bambino.

E intanto, ascolto "Black Tambourine" dei Bleck, mentre Alyssa dorme e sogna sogni d'oro, ignara della mia insonnia di questa notte, piena di buoni propositi e di pensieri nervosi. Piena di progetti mai portati e termine e che forse resteranno solo tali, condannati a vagare per sempre nel limbo (dei progetti di vita).

domingo, octubre 14, 2007



Le piccole difficoltà della vita quotidiana





Ci sono certe cose che danno fastidio, non c'è niente da fare. Non parlo dell'ingiustizia sociale, o della povertà nel Terzo Mondo; non parlo della prostituzione minorile e non voglio riferirmi alla situazione politica italiana contemporanea (sarebbe troppo complicato parlarne - Grillo e il Vaffanculo-day, Prodi e Mastella, Berlusconi e D'Alema, basta anche solo metterli per iscritto, certi nomi - tranne il primo, per esser precisi -, perchè la penna si rifiuti d'andare avanti, perchè il cervello si rifiuti di funzionare, perchè le dita smettano di picchiare sulla tasteria del pc). Parlo di altre questioni scottanti, apparentemente banali, e che, ciononostante, m'inquietano o mi fanno semplicemente incazzare.

Partiamo dal punto numero:

1- la panna sul gelato. Non so a quanti di voi sia già successo ("voi" chi? Direte voi - "voi", rispondo, fregandome bellamente di dare un'identità certa e fissa al mio povero lettore - in realtà, sono lettrici, quelle due o tre che ancora mi sopportano), ma a me è capitato spesso l'estate appena trascorsa di chiedere un gelato e, poi, di chiedere d'aggiungere la panna (come ciliegina sulla torta). Solo una gelateria su quattro ha accondisceso alla mia richiesta SENZA FARMI PAGARE LA PANNA come se questa fosse UN TERZO GUSTO (o quarto, se già ne avevo chiesti tre: fiordilatte, bacio e stracciatella, i miei tre preferiti). Ora, mi domando e dico: ma da quando la panna E' UN GUSTO? Da quando in qua? Aboliamo questa cazzata della tassa sulla panna (devo dire anche che a Roma la panna te la mettono in automatico; e in certe città del Sud idem; in un bar del centro di Firenze, invece, c'è scritto addirittura a caratteri cubitali: LA PANNA VALE UN GUSTO e, affianco, subito il prezzo: 0,50 cents!!! Il gelato è un piacere; senza panna che piacere è? [ma mi rendo subito conto che questo è un problema minimo, anche perchè ci stiamo avviando verso la brutta stagione, verso il freddo inverno, altro che panne! Ciò non toglie che il problema resta e qualcuno deve porvi rimedio];


2- i giornalisti col microfono "cinico". Non so quanti guardino il telegiornale (forse l'unica cosa guardabile ancora oggi in tv - sempre che non si tratti di quello di Emilio Fede; oppure di Studio aperto - sempre bellessime le colonne sonore strappalacrime che i responsabili dei servizi montano insieme alle immagini di qualche crudo fatto sanguinolento di cronaca nera; bellissimi e, devo dire, anche alquanto arrapanti, i servizi sulle varie veline, farfalline, modelline che popolano e spospolano nel variegato mondo dei vips), però è una costante degli stessi di mandare in onda servizi su qualche disgrazia personale capitata a qualche sopravvissuto o familiare superstite: orbene, in questi casi non mi spiego perchè c'è sempre (dico: sempre) un giornalista dotato del suo bel microfono "cinico" (ma si possono anche togliere le virgolette: quindi, davvero cinico) che si mette a fare domande del tipo: "ma ora che il suo piccolo figlio è morto, ed è volato in cielo tra gli angioletti del Signore dopo quell'incidente da brividi, lei ne sentirà la mancanza?"; oppure: "cosa direbbe agli assassini di sua moglie se li avesse proprio qui, ora, davanti ai suoi occhi?"; o ancora: "come si sente dopo che suo padre è stato divorato dal pitbull del suo caro e vecchio vicino di casa? Non aveva mai notato segni di squilibrio mentale nell'animale?". Basta piagnistei in tv, soprattutto quando questi sono "guidati" e pilotati dalle domande assurde (diciamolo pure: stronze) di giornalisti privi di scrupoli (voglio vedere se l'auditel resta sempre sugli stessi livelli se tutti i direttori di telegiornali decidono di darci un taglio e di diminuire l'emissione costante di "servizi lacrimevoli" o a effetto melodrammatico sicuro; ma devono averci il loro tornaconto, altrimenti non si spiega - oppure quegli stessi direttori credono che siamo tutti spettatori morbosi affamati di vedere scene truculente o di gente che piange e si dispera?).


3- le super-offerte del mese. Dovrei fare un piccolo esperimento: conservare la valanga di volantini che le grosse marche o i grandi centri commerciali (di "distribuzione commerciale", in gergo tecnico) mandano a casa (non più per posta, come una volta, ma sfruttando la manovalanza di giovani ragazzi o ragazze che, zaino in spalla, fanno "volantinaggio" - vorrei anche sapere quanto pagano, per fare quest'opera di bene - loro, ovviamente, il bene, non dei "dipendenti"). E bisognerebbe mettersi lì a contare le cifre delle super-mega-offerte che, ogni mese, queste grandi marche (o grossi centri commerciali) ci rifilano come fossero vere occasioni da cogliere al volo. Forse, non ne sono sicuro, ma dico: forse, scopriremmo tutti quanti insieme che le offerte non sono sempre tali; che il computer che oggi ti vendono a 600 euro, domani ne varrà la metà, per le stesse prestazioni e con gli stessi optionals. Forse, ci renderemmo conto che il maxi-schermo al plasma a 45 pollici che oggi ci vendono per 1300 euro, domani varrà meno di una normale tv senza plasma. Forse, potremmo verificare con calcolatrice alla mano, che quello stesso frigorifero che oggi mi vogliono rivendere a 400 euro, in un altro posto, e alle stesse condizioni, posso pagarlo una cinquantina di euro in meno (solo perchè quest'altro posto non ha la stessa pubblicità a tappeto della grossa catena di commercio che sventola i suoi volantini promozionali a destra e a manca). E poi: abbiamo davvero bisogno di un nuovo pc ogni mese? E la nostra tv non emette le stesse scemenze di quella mega che vedo nel volantino? Di quante cose possiamo fare a meno nella nostra vita quotidiana? Di tante. Non c'è dubbio.


Ricapitolando: se volessimo tentare di trovare un filo rosso (non comunista; è rosso perchè così vuole il detto popolare; il modo di dire ormai giornalistico, più che accademico) che leghi o tegna insieme le 3 parti sopra-indicate, potremmo dire che questo s'annida nel fatto che tutte e tre le difficoltà della nostra vita quotidiana trovano il loro comun denominatore nella cinica "fame di denaro" delle aziende che producono certi prodotti (o di certe gelaterie che vendono il loro prodotto artigianale); e nella cinica e feroce "manipolazione mediatica" del povero cristo che sta lì e si guarda la televisione. E' ovvio che dalla panna ai direttori di telegiornali ce ne passa. Però è un fatto. E io lo noto. Mi vogliono vendere degli oggetti a basso costo di cui posso fare a meno (come se comprando ogni mese le offerte diventassi sempre più furbo e sempre più ricco, risparmiando sul prezzo pieno!); mi vogliono trasmettere una notizia pigiando sul piede dell'acceleratore emozionale. Ma io non mi lascio fregare. E al barista che mi dice che la panna è un gusto rispondo sempre: "Allora no, grazie, lasci pure i gusti che le ho detto". La panna, se voglio, me la faccio in casa. E poi, cazzo, non è un gusto, è parte dovuta del piacere di un buon gelato all'italiana...

lunes, octubre 08, 2007


The Post (scriptum)
Devo aggiungere una precisazione al post sulle donne (o sul mio presunto rapporto "felice" e costante con le medesime): non tutte le donne che incontro diventano subito delle amiche; non tutte le mie amiche mi hanno dimostrato un interesse che travalicasse i confini dell'amicizia. Voglio dire che in quei (rari) casi (pochi, per la verità - meno, comunque, di quanti ne possa sognare o immaginare) in cui una mia amica è finita nel mio letto (o meglio, in cui io sono finito nel letto di una mia amica - Alyssa non devi turbarti, mi riferisco a storie e storielle accadute ai primi anni dell'Università), l'amiciza, per forza di cose, è decaduta. Non ricordo se è proprio Aristotele (o era Ovidio?) nel De amicitia a dire che l'amicizia è tale perchè io, in quanto "amico", mi prendo cura, mi preoccupo dell'altra persona che reputo degna delle mie attenzioni (senza nulla pretendere in cambio - anche se è chiaro che l'amicizia corrisposta è o dovrebbe essere l'acme). Ma è proprio perchè me ne occupo (e pre-occupo) che non me la posso portare a letto. L'amore è altro dall'amicizia e non prevede rapporti sessuali (anche se l'amore nasce spesso da un rapporto d'amicizia e anche se oggi molto spesso l'amicizia sessuale è praticata con grande slancio e senza troppi pudori - ma chiudo subito la parentesi, perchè l'argomento ci porterebbe davvero troppo, troppo lontano e aprirebbe un dibattito ormai acenstrale, come la fatidica domanda: "ma può davvero esistere l'amicizia uomo-donna?". La mia risposta personale è sì, vista l'esperienza che ho avuto. Altri potrebbero dare altre risposte. Come è giusto e ovvio che sia.

domingo, octubre 07, 2007

Io e le donne

Suona come il titolo di un libro per "single" o per "aspiranti Casanova". Non è nè l'uno nè l'altro: voglio dire, questo post non tratta dei problemi di chi è solo (e cerca una compagna) o di chi è solo e cerca molte avventure. Si tratta molto più semplicemente di un mio tentativo per cercare di scandagliare una parte della mia vita avvolta nel mistero...

Io ho avuto poche donne; di sicuro ne ho avute meno di quelle che desidererei ancora oggi. Ancora ora, ne vedo passare un monte e molte me le porterei a letto (nel senso che ci farei l'amore e che poi proverei a parlarci, per stabile un contatto che non si riduca al solo sesso o al semplice atto animale). In realtà, ne vedo tante, ma su tutte applico il famoso detto "guardare ma non toccare", anche perchè, tra le altre cose: 1- sono findanzato; 2- sono fedele; 3- sono troppo impegnato (nel corpo e nella mente) a pensare alla mia vita potenziale futura in compagnia di Alyssa per pensare alle altre (o per immaginarmi accanto ad un'altra).

Eppure... Passano gli anni e mi accorgo di avere un particolare feeling con le persone dell'altro sesso: mi bastano pochissimi minuti per entrare in confidenza con una ragazza a me sconosciuta pochi minuti prima. Uno scambio di battute, le dovute presentazioni, e mi ritrovo subito immerso in un dialogo accanito su vita passata, vita presente, gusti e hobby, cosa fai tu domani sera, perchè non ci vediamo per andare a vedere un film o a mangiare una pizza, etc. etc....

Non so da cosa dipenda (se c'entrano qualcosa i geni), eppure mi riesce davvero facile stringere amicizia con le rappresentanti dell'altro sesso. Non è perciò un caso che abbia molte più amiche donne che amici maschi. Eppure...

Passano gli anni, più invecchio e più noto che anche le donne, in un qualche modo a me sconosciuto, percepiscono che di me si possono, ripeto: in qualche modo, fidare. Si avvicinano, mi fanno gli occhi dolci, oppure, più semplicemente, mostrano un certo interesse e cominciano a parlarmi del più e del meno e mentre parlano io mi rendo conto del fatto che, modestia a parte, potrebbero manifestare nei miei confronti interessi che vanno al di là dell'amicizia o della pura conoscenza superficiale, per inoltrarsi nell'ambito molto più spinoso dei sentimenti e della passione, mi è capitato più volte, in passato (e che Alyssa mi perdoni per quello che sto per dire), che una ragazza o una donna (anche d'una certa età - diciamo una quarantina d'anni) m'abbia manifestato un interesse che sorvolava gli interessi più comuni (e che più ci accomunano in quanto esseri umani pensanti) per coinvolgere gli "istinti di base" (con tutta la carica di elettricità e di caos che questi implicano). Insomma, mi è capitato più volte (in un bar, al bancone di una discoteca, lungomare, all'uscita di un cinema o dopo una cena a casa mia, sulla via del ritorno) di assistere a dimostrazioni d'interesse puramente sessuale...

E tutte le volte che è capitato, io mi sono limitato a fare lo sciocco: a buttarla sul ridere, a fare battute immani, a girarci intorno, senza approfittare mai (o quasi mai) della situazione favorevole (le labbra socchiuse, lo sguardo dolce, gli occhi luminosi, le labbra carnose e invitanti, la voce più lenta e persuasiva, le cosce messe in bella mostra, i tacchi alti o le scarpe coi tacchi allacciate proprio nel momento in cui pronuncio le battute più stupide - e lei ride, mi mostra i suoi denti bianchissimi e la lingua e mi invita a baciarla, o ad abbracciarla, a toccarla, in qualche modo, a stabilire un contatto fisico con lei e con il suo corpo invitante - la scollature generosa, le gambe tornite - quante armi hanno a loro disposizione le donne!).

Ripeto: tutte le volte che mi è capitato, io ho cercato di sviare il discorso; o con l'ironia o con l'autoironia (e ancora non mi è capitato di conoscere una donna che non sorrida dell'autoironia di un uomo - sarà perchè loro, le donne, sono scarsamente o raramente auto-ironiche).

Insomma: non me ne sono mai approfittato (a differenza di qualche mio amico che ha concluso la notte a letto, tra gridolini di piacere e sigarette fumate subito dopo l'orgasmo).

Non mi ritengo un bel ragazzo; non sono affascinante, nè interessante. Forse, a prima vista, posso risultare simpatico. E auto-ironico. Ma oltre a questo, ci sono poche qualità che possano attrarre le persone di sesso femminile. Eppure capita: e passano gli anni, e continuo a stare con Alyssa, e continuo a sperimentare lo stesso atteggiamento da parte loro; loro mi guardano, io le guardo, penso: "come sarebbe bello poterti baciare o leccarti la fica", e nel mentre sto fermo, sorrido, faccio battute, loro ridono alle mie battute e poi tutto si spegne, in una grossa risata o, al massimo, in una serie di risatine buffe che lasciano trapelare il dispiacere, o il disgusto, o più semplicemente il disappunto: "avrei voluto scoparti, ma si capisce che non mi vuoi, forse non ti vado bene così come sono, forse non sono il tuo tipo, però mi piaci lo stesso, chissà che non cadrai la prossima volta, chissà che non riesca a portarmiti a letto". E io ribatto: "mi piacerebbe scoparti, ma non è il caso; sono fedele e poi ho paura: e se invece non ti interesso? E se ridi alle mie battute solo per educazione o per falsa riconoscenza? E se mi trovi brutto? E poi, scusa, ma non mi hai appena detto che sei sposata - o fidanzata - o comunque impegnata?".

Pippe mentali. La fortuna vuole che continui ad avere più amiche donne che amici maschi; e che riesca a sopportare la mia vita anche grazie a loro, le donne...

miércoles, octubre 03, 2007


Certe volte
Ci sono delle volte nella vita in cui la cosa migliore da fare è stare fermi e non fare nulla. Certe volte corriamo e ci arrampichiamo sugli specchi e facciamo flessioni e ci giriamo intorno (al nocciolo - quello famoso - della questione) senza risolvere nulla. Ci sono certe volte nella vita in cui bisogna seguire il proprio istinto e scegliere in base a quello che questo ci sussurra, al di là di tutti i buoni propositi che ci detta la ragione (o la morale). E ci sono pure altre volte in cui bisogna calcolare pro e contra, studiare bene la traiettoria. Anche se è vero: tu puoi pure correre, ma se c'è una pallottola che porta scritto il tuo nome, quella, prima o poi, ti raggiungerà, e ti darà la morte. Non so se definirmi un fatalista; so che il caso gioca brutti scherzi e governa almeno l'80% delle nostre vite. Il resto spetta a noi; al famoso libero arbitrio. Siamo tutti liberissimi di scegliere e, perciò, di sbagliare. O di fare sbagliare gli altri. Tutti confondiamo tutti. Un sì e un no, o un forse, possono causare la morte, oppure il successo e la coronazione di una carriera di ogni umano sulla Terra. Nessuno scappa a questa legge: nemmeno i potenti (un sì e un no alle elezioni: pensate alla gioia di Berlusconi il giorno in cui scoprì che aveva battuto Prodi; e pensiamo a come ha vissuto quella famosa nottata Prodi quando, dopo alterne vittorie smentite, ha scoperto di essere salito al Governo con un margine davvero scarso, minimo, risicato; è sempre così, un sì e un no, basta poco).
E poi ci sono quelle volte in cui, anche a costo di non decidere, desideresti fare un viaggio interstellare, pur di non doverti prendere la "proverbiale" responsabilità (sacro-santa), pur di poter evadere per un po' dal pianeta Terra. Ma non serve scappare, il caos resta, se siamo noi, nel nostro animo, a essere caotici.
Certe volte mi piacerebbe essere George Sanders, che osserva con occhio acuto, e, al contempo, sembra, distaccato. E' imparziale, appare calmo, quasi rassegnato. Deve aver assistito a molte battaglie; a tanti morti, a cari scomparsi o donne bellissime che gli hanno lasciato solo una scia di dolcissimi profumi sulla giacca (o la macchia del rossetto sulla camicia bianca; o qualche capello biondo sulla spalla). E lui resta lì, fermo, pazientemente intento a guardare lo spettacolo della vita, mentre gli altri lottano, corrono, sudano, forse, a volte, inutilmente.
Sembra ripetere i versi di Cesare Pavese: Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, / questa morte che ti accompagna / dal mattino alla sera, insonne, / sorda, come un vecchio rimorso / o un vizio assurdo. Ora che ci penso, sono versi troppo tristi, George Sanders li approverebbe, ma li pronuncerebbe con un tono ironico, e un sorriso sornione. Senza sbraitare; senza quasi farsi notare dal pubblico in sala. Come in un sussurro soave e quasi tenero.

viernes, septiembre 28, 2007

Teodoro W. Adorno



Finalmente, dopo tanti anni, ho conosciuto anch'io Teodoro W. Adorno. E' il gatto di Julio Cortázar, l'autore di racconti straordinariamente fantastici (nel senso letterale del termine: ma, ora che ci penso, "fantastico" ha davvero un suo senso letterale? Da dove deriva e cosa significa letteralmente il termine phantasticus?).

Questo Adorno fece impazzire più d'una traduttrice dei racconti dell'autore de Las babas del diablo: nell'Aprile del 2005, un altro scrittore ispanoamericano, Luis Sepúlveda, quello de La gabbianella e il gatto (da cui Enzo D'Alò trasse un film molto educativo e ben fatto, anche se, a parer mio, meno bello de La freccia azzurra - vero capolavoro del cinema d'animazione) raccontò un aneddoto legato a questo problema. La traduttrice di Cortázar si era imbattuta in un Adorno che non c'entrava niente in quel contesto; all'inizio credette che doveva trattarsi di una citazione nascosta dal filosofo tedesco; poi d'un ghigno d'autore; ma alla fine dei conti era davvero surreale che Adorno, in quel brano del racconto in questione, scondinzolasse tra le gambe del protagonista. Solo dopo due telefonate a Parigi, riuscì a capire che Cortázar si stava riferendo al suo gatto. Nero, simpatico, scattante, come tutti i gatti che si rispettino (in una foto si vede Cortázar seduto davanti a una finestra; dall'altra parte Adorno che prova a graffiarlo affettuosamente, ritto sulle due zampe; non si capisce chi, tra i due - essere umano e essere animale - si diverta di più).

Ed ecco così finalmente Adorno in primo piano (anche se di spalle): l'ho trovato a p. 14 del libro-collage (specie di zibaldone o contenitore di "racconti in potentia") La vuelta al día en ochenta mundos (Madrid, Debate, 1993). La foto è ambigua, come tutte le foto che si rispettino: in realtà, non è facile stabilire se Adorno ci dia le spalle, mostrando olimpicamente il suo totale distacco dagli affanni terreni; oppure se, invece e al contrario, posa proprio in primo piano, ma il viso (e il resto del corpo) è in ombra, stagliato sullo sfondo bianco di una persiana al cui lato sinistro campeggia un mazzo di fiori costretti in vaso poggiato sul davanzale.

Cortázar deve essersi divertito molto a giocare con il suo Adorno; ed è forse per questo che gli dedica foto e diversi brani del libro (il cui titolo, è evidente, è anche un omaggio a Philieas Fogg, il protagonista del romanzo di Jules Verne, Il giro del mondo in ottanta giorni.

Quanti mondi c'entrano in un giorno? O, al contrario, e ribaltando la domanda: quanti giorni c'entrano in un mondo? Cortázar ci dice che la letteratura è ovunque; e che la finzione può scaturire anche da un gatto seduto davanti ad una finestra (o su un balcone intento a fissare un altro gatto appostato anch'esso sul davanzale della finestra della casa di fronte).

A p. 10 c'è la foto di Jules Verne: sembra Babbo Natale, con una barba bianca folta e rigogliosa e quegli occhi spiritati da esploratore instancabile di mondi "altri". In realtà, in questa immagine, Verne ricorda inevitabilmente un altro genio. Einstein, ripreso in primo piano, mentre sorride con i capelli tutti arruffati. E tra Eistein e Verne, il passo è breve. Anche se sono vissuti in due epoche diverse. Anche se probabilmente l'uno ha sempre continuato ad ignorare l'esistenza dell'altro. E di Adorno. Che siede ancora sul davanzale, e forse è ancora vivo, e scondinzola tra le gambe di Cortázar...

lunes, septiembre 24, 2007

Lettera aperta a Alyssa, intorno alla mia presunta "mania libresca"

Cara Alyssa,

lo so che tu non mi leggi (o che si contano sulle dita di una mano le volte che leggi i miei pensieri su questo blog - qualche sforzino in più, è vero, lo fai, quando si tratta dei racconti) e quindi so che, almeno per ora, sto scrivendo a un fantasma (a un'altra "te" che non mi sente e non mi vede, e che chissà se dorme di già a Firenze o è qui a Pisa, vicina al mio letto, intenta a scrutarmi mentre le scrivo e non mi accorgo che sì, è proprio qui a fianco a me e mi prende in giro perchè vede che io credo di stare scrivendo ad un fantasma quando invece...). E quindi so pure che quanto ti scrivo potrebbe fare la fine del messaggio lasciato nella bottiglia gettata in mezzo al mare: ovvero, non arrivare mai a destinazione (e allora perchè, mi domando, perchè continuiamo a lanciare messaggi nelle bottiglie? Romanticismo imperituro? Ostinazione tutta umana a voler sfidare la sorte?). Eppure ci provo: proverò a spiegarti perchè è il caso che si rifletta insieme sulla mia presunta "mania libresca", su questa sorta di malattia della mente che mi obbligherebbe a leggere sempre e solo come se il libro che ho tra le mani fosse di fondamentale importanza per la mia formazione di uomo, come se stessi sempre studiando, matita alla mano, evidenziatore pronto, orecchiette alle pagine più belle già pronte a rovinare la carta del testo in questione...

Non è vero che leggo sempre studiando; non è vero affatto che non mi abbandoni a un tipo di lettura "rilassante" e pacata; è contro ogni evidenza dire che sono così concentrato quando leggo da dimenticarmi della tua presenza se mi sei accanto o con la testa sul petto e in attesa di coccole.

Ci saranno pure state nottate in cui ho perso il senno dietro a pensieri stampati e inventati da una mente contorta; ci saranno state un paio di volte in cui ti ho lasciata a letto per andare di là in cucina a leggere la fine di un capitolo particolarmente avvincente. Ma ti giuro che questa non è la prassi, che non è mia abitudine abusare della tua pazienza o ignorarti completamente per ore filate.

E' vero pure che c'è chi, dopo aver fatto l'amore, si addormenta di botto o si fuma una sigaretta: io preferisco leggere, rituffarmi a capofitto nella trama di un giallo o negli interstizi di un saggio di filosofia. Si sa, son gusti. Ma riconosco pure i miei limiti: conosco il senso del rispetto; o almeno credo e lo spero. E ti assicuro che non permetterei mai alla mia cosidetta "mania libresca" (pensiamo a Don Chisciotte) di impossessarsi di me fino al punto da portarmi lontano da te e dal tuo corpo desideroso di carezze e baci sottili. Non lascerò che l'una passione soppianti l'altra. Anche perchè sono due passioni diverse e che coinvolgono in modi diversi. Non avere paura, perchè non ti farò addormentare tutte le notti da sola. Non di solo libri vive l'uomo, così come non di solo pane ci nutriamo (e poi sarebbe davvero assurdo, da matti, portarsi sempre a letto dei libri; anche se coi libri, quando valgono, bisogna anche andarci a letto e farci la notte in bianco).

Dormi pure sonni tranquilla, mia cara Alyssa. E credimi: il saggio sa che tutta la sua sapienza non serve a nulla se non è d'aiuto al prossimo. E che nessun libro potrà permettergli d'avanzare lungo il cammino della verità senza l'osservazione acuta e attenta, cosciente e irrazionale a un tempo, dello spettacolo che la Natura gli porge sotto gli occhi. E tu sai come mi hai catturato attraverso i tuoi occhi dolcissimi. E che da essi ho intravisto quella luce che ancora m'illumina.
Tuo
Rendl (o Anto)

viernes, septiembre 21, 2007

La mano incantata


E' così che s'intitola la foto qui affianco, di Ralph Gibson, fotografo di cui ignoravo perfino l'esistenza prima di leggere il bellissimo, suadente e romantico saggio di Philippe Dubois su L'atto fotografico (Urbino, Quattroventi, 1996 - l'originale francese è del 1983; all'epoca avevo appena 6 anni, ma ero già affascinato dalle immagini fotografiche, anche se odiavo farmi fotografare, mia madre mi diceva che "uscivo sempre con gli occhi chiusi", deve essere inversamente proporzionale, la mia sensibilità alla luce - solare - con la mia voglia di guardare, catalogare il mondo per immagini, osservare quante più immagini possibili si può, riempirmi la retina di foto...).

Questa foto colpisce per tutti i buoni motivi che elenca Dubois (ricordo che l'analizza in uno dei capitoli finali del libro, quando parla dell'importanza del fuori campo o off dell'immagine fotografica: quanto sia importante ai fini della comprensione, fruizione e interpretazione di una foto sia quello che appare dentro il quadro, che quanto resta per forza di cose fuori dello stesso). Qui, in particolare, il fuori campo parla, è eloquente: perchè non solo la mano che sta per aprire del tutto la porta appare da un "fuori campo" deducibile (la parte a sinistra della porta, dal punto di vista di chi guarda), ma anche perchè quella stessa mano, sotto forma di ombra (pulvis et umbra, sempre), si proietta sullo schermo della parete, aprendo per così dire lo spazio destro della foto stessa, riempiendo di senso (perturbante?) anche il lato destro dell'immagine.

Sinistra (una mano), destra (l'ombra di una mano), centro: una porta socchiusa, dietro della quale s'intuisce la presenza di una stanza; in primo piano, il pavimento di quel corridoio che conduce proprio alla porta che si (sta) per aprire (che qualcuno - ma chi? Un fantasma, un essere umano, uno zombie, un bambino, un uomo o una donna? Un vecchio? - fa il gesto di "aprire"), impedendoci, negandoci, sottraendoci proprio quella porzione di spazio verso cui tenderebbe naturalmente l'occhio (voyeurista) dello spettatore. La porta: fermiamoci su questo elemento tipico; basilare di ogni architettura domestica (non esistono case senza porte; se sì si chiamano bunker; ma in quel caso vi si penetra attraverso una botola, un passaggio segreto, un buco nella terra; la porta è proprio il punto di passaggio per eccellenza verso la "domesticità": solo se c'è una porta ci sarà pure una casa; si entra nel regno del familiare, anche quando chi vi abita ci risulta sconosciuto; comunque quello sconosciuto considererà sempre la porta d'ingresso come "la chiave che apre le porte del regno domestico"). Dicevo: la porta. E' di forma (ovviamente) rettangolare; ebbene: immettere dentro il quadro di un'immagine fotografica (rettangolare) un oggetto, o una seconda immagine, dalla forma rettangolare non è operazione innocente; al cinema (ma credo anche in fotografia) quest'operazione assume i tratti della figura retorica e si chiama (in francese, guarda un po') recradrage. E' come quando inquadro una televisione in un film: l'effetto è da mise en abyme (guarda un po', anche questo secondo termine tecnico è in francese; che il francese sia fissato su certi fenomeni tipici dell'arte "modernista" o "avanguardista"?). E' come quando un regista in-quadra un quadro famoso; o, ancora meglio, quando mi fa vedere un attore che è posto davanti a un quadro e contempla il quadro con la testa ravvicinata al soggetto del quadro e io assisto a un osservatore che osserva senza sapere di venire osservato da altri da dietro le spalle... Ecco una prima conclusione cui si giunge guardando questa foto: il mistero nasce anche dal fatto che essa si costruisce come recadrage: mette al centro del quadro (in-quadra) un quadro (qui, in realtà, un rettangolo), aprendo la strada (dell'interpretazione) verso uno sfondo, un altro quadro (la stanza) che non si vede. Ciò che intra-vedo da dietro la porta è solo, oltre alla mano "misteriosa" che fa atto d'aprire, una striscia bianca orizzontale lungo la parete spoglia; parte del pavimento in parquet (prosecuzione logica del parquet che si vede in primo piano). E nientre altro (nemmeno un'ombra; anzi: nemmeno l'ombra di un oggetto, una persona, un paesaggio, un quadro, una finestra, nulla). Una porta che apre sul nulla? Un gioco di specchi di cui non capisco il fine e le cause?

Mi piace pensare (ipotizzare anche) che quella mano non è nè frutto di un fotomontaggio nè frutto del caso (ma in una foto il caso e il destino - poteva essere così; deve essere così - si danno la mano), bensì sia proprio la mano di Ralph Gibson, l'artista-autore che ha ideato questa immagine alludendo a qualcosa che potrebbe essere proprio l'atto fotografico così come lo intende Dubois. Un atto misterioso che apre la strada a mondi "altri"; che raggela e congela nell'istante un attimo di tempo e una porzione esatta di spazio. Spazio e tempo mummificati e, al contempo, resi eterni dall'effetto della luce sulla pellicola impressionata (le foto fanno sempre impressione, anche quando hanno per oggetto contenuti domestici). Spazi-tempo che l'occhio può percorrere a piacimento ma che restano sempre muti; nessuno verrà a dirci cosa si nasconde dietro quella porta; nessuno sa davvero di chi sia quella mano; e forse non valeva nemmeno la pena porsi questioni simili; la foto è là, fissa, immobile, inquietante. E mi parla senza parole.

sábado, septiembre 15, 2007

Dedicato a Silvia, l'amica di "Impressioni di vita"

Seneca osserva: "L'uomo è destinato a tornare alla vita, e perciò deve uscirne serenamente. Osserva il ciclo attraverso cui le cose ritornano tutte in se stesse: vedrai che nulla in questo mondo si estingue, ma con moto alterno tramonta e risorge. Se ne va l'estate, ma per tornare l'anno successivo. Passa l'inverno, ma riapparirà nella sua stagione. La notte nasconde il sole, ma subito dopo il giorno porta via la notte. Similmente le stelle, nella loro rotazione, non fanno che tornare dove sono già passate. Continuamente una parte del cielo sorge, e una parte sprofonda sotto l'orizzonte. E concluderò aggiungendo solo questo: neppure i bimbi e i dementi temono la morte. E' perciò cosa veramente vergognosa che la ragione non sia capace di darci quella serenità di spirito a cui porta la stoltezza". (dalle Lettere a Lucilio, Libro IV, lettera 36).

Queste parole non ci dicono soltanto che, molto probabilmente, come fecero Quevedo, Góngora, Gracián, Lope e compagnia bella, anche Cervantes lesse attentamente i classici e, tra questi, Seneca (il Seneca morale, mi verrebbe da dire), ma che lo assimilò alla propria lingua, re-inventadolo attraverso una nuova, originale riflessione sul tempo come freccia e come cerchio (tutte le cose, per Cervantes, girano "a la redonda" o "en redondo"; ricordiamoci pure del fatto che in realtà chi riflette nell'incipit di quel capitolo della II parte del Quijote non è il Monco di Lepanto, ma Cide Hamete Benengeli, quell'autore che, a detta del "primo autore", ha scritto il romanzo che narra delle avventure di Don Chisciotte e che un traduttore "arábigo" verte nello spagnolo dal testo originale).

Non inventiamo (mai?) nulla di nuovo; non solo la letteratura si nutre di altra letteratura e il presente si evolve grazie al passato, ma, a quanto pare, anche le nostre vite sono destinate ad avere un'eco nel futuro, ripetendosi nei gesti, nelle parole o nei ricordi di chi ci sopravviverà. O meglio: questo è quello che ci suggerisce Seneca, nella lettera succitata indirizzata a Lucilio. E fa una certa impressione sapere che ormai, tanto di Seneca quanto del suo discepolo Lucilio, non restano che le ossa (o forse neppure quelle: pulvis et umbra, come sempre)...
O forse no, qualcosa resta: il libro che raccoglie quelle stesse lettere, quel libro che Seneca scrisse secoli fa e che ancora oggi, il 14 Settembre del 2007, agli inizi del XXI secolo, qualcuno si prende la briga di leggere, convinto di non trovarvi cose interessanti. E invece, quante massime utili, quante frasi che lasciano a bocca aperta, come questa, in cui il maestro invita l'alunno a fare in fretta, a portare subito a compimento i suoi sogni, perchè, si sa, tempus ruit: "pensa che tu sei mortale ed io son vecchio". Da restare a bocca aperta...

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...